FINOCCHIO
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omofobe su un manifesto del Comune di Milano,
2-7-2000.
(Foto G. Dall'Orto).
Forse nessun termine come questo (ad eccezione di frocio), ha suscitato ipotesi così contrastanti sull'etimologia. Per fortuna è possibile stabilire alcuni punti fermi, che permettono di arrivare a una spiegazione soddisfacente.
Innanzi tutto: l'uso di finocchio nel senso di "omosessuale" è recente. Non sono a conoscenza di alcun documento in cui se ne abbia traccia prima del 1863, anno in cui apparve nel Vocabolario dell'uso toscano di Pietro Fanfani (Barbera, Firenze 1863).
L'unica attestazione precedente,
riportata dal Battaglia,
mi sembra dubbia, perché appare in una composizione poetica in cui
l'autore, Meo de' Tolomei, vuol mettere in risalto la stupidità
di suo fratello Min Zeppa.
Quando Mino
entra in chiesa, secondo Meo, è tanto maldestro nel fare
il segno della croce da cacciarsi le dita nell'occhio, o così babbeo
da salutare Dio dicendo: "Dio vi dia il buon dì, signor Dio".
La conclusione
del poeta è quindi "che ben ve sta uma' dicer finocchio"
(Marti,
p. 260), cioè: "ormai ti sta bene se ti chiamano finocchio".
In questo contesto
mi sembra che a finocchio si adatti meglio il significato
di "babbeo", "stupido", molte volte attestato in altri scrittori
antichi (c'è addirittura una maschera toscana
di babbeo, con questo nome).
Del resto nessun vocabolario pubblicato prima del Fanfani registra tale uso della parola, mentre gli antichi scrittori preferiscono usare altri termini derogatori (soprattutto buggerone e bardassa) a scapito di questo.
Anche negli antichi processi per ingiurie finocchio è, per quanto mi è dato sapere, assente.
Sulla base di queste considerazioni concluderemo quindi che "finocchio", nel senso di "omosessuale" è termine recente, di origine toscana, diffusosi dopo l'Unità nel resto d'Italia (ma più al Nord che al Sud, dove frocio e recchione gli hanno fatto concorrenza), soprattutto grazie a scrittori "realisti" toscani (per esempio Prezzolini) che lo hanno utilizzato nei loro scritti.
Quanto appena detto dovrebbe essere d'aiuto nel risalire all'etimologia.
Le proposte sono molte, ed alcune anche bizzarre: c'è ad esempio chi propone un lambiccato fenor culi (in latino: "vendita del culo"), e chi lo ricollega all'ortaggio omonimo per varie ragioni. Alcuni perché esso "ha il gambo vuoto" (e qui saremmo nel campo di buco o cupio), altri perché i finocchi detti "maschi" sono più gustosi di quelli detti "femmine", altri infine (Luciano Massimo Consoli, Viva l'Italia, "Ompo", V 1979, n. 51, pp. 2-6, p. 5), perché "il finocchio è pianta agametica, cioè che si riproduce senza essere impollinata, e quindi non ha bisogno dell'"altro" sesso".
Ma
la proposta di etimologia che ha veramente fatto furore negli ultimi anni
è quella che ricollega i finocchi ai roghi
medievali di sodomiti.
Secondo tale
spiegazione, per coprire l'odore di carne bruciata sarebbe stato anticamente
costume usare legno di férula (quello spugnoso prodotto dalle piante
di finocchio selvatico), oppure (addirittura!) fasci di finocchi buttati
nel fuoco.
A sostegno di tale tesi si cita il parallelo con l'inglese faggot, che significa tanto "fascina di legna" che "omosessuale".
Come accade spesso nelle questioni intricate, la spiegazione è in realtà molto più semplice di quanto tale involuta spiegazione lasci pensare.
Innanzitutto non si è finora riusciti a trovare attestazioni dell'uso di gettare finocchi sui roghi. La consultazione di documenti antichi non mi ha finora permesso di trovarne traccia (e se qualcuno riesce a trovare una qualsiasi attestazione è cortesemente pregato di comunicarmela, perché fin qui nessuno è stato in grado di farlo).
Caso mai
si saranno usati ginepri, come spingono a pensare il Burchiello
(1404-1449):
Lascia i
capretti e piglia delle lepri
se non vuoi fare un dì fumo e baldoria d'odorifera stipa di ginepri. (Lanza, p. 455) |
ed anche Matteo
Franco
(1447-1494):
Al tuo falò
s'adoperrà ginepri,
perché tu della puccia segui e' sulci; lascia i caprecti e piglia delle lepri. (Matteo Franco e Luigi Pulci, II libro dei sonetti, Società Dante Alighieri, Roma 1933, p. 17) |
(tuttavia Franco e il Burchiello scrivono in "codice", con un gergo colmo di maliziosi doppi sensi: ad esempio in questi versi i capretti da lasciare sono i ragazzi, mentre le lepri che è opportuno cercare sono le donne. Quindi anche i "ginepri" potrebbero essere in realtà altro).
In secondo luogo resterebbe da spiegare perché, se l'ipotesi che lega finocchio ai roghi è corretta, le altre categorie di persone in passato condannate alla stessa pena non abbiano ricevuto lo stesso nomignolo, sul modello di quanto accaduto con buggerone. Perché le streghe non sono "finocchie"?
Infine va sottolineato che il parallelo con faggot non regge, perché, come ha dimostrato Warren Johansson (The etymology of word "faggot", "Gay books bulletin", n. 6 (Fall 1981), pp. 16-18 e 33), faggot nel senso di "omosessuale" nacque in America solo alla fine del secolo scorso, derivando da un fagot, antico francese e poi inglese, che significava "carico pesante" (e da qui l'inglese per "fascina", ma anche l'italiano... "fagotto" ) e poi "donna pesante da sopportare", "donna noiosa", in parallelo con il già citato peppia nostrano ("donna petulante e insopportabile" e "checca").
L'etimologia più corretta sarà insomma, e senza dubbi, quella che mette in relazione il significato odierno di finocchio con quello che la parola aveva nel medioevo, e cioè "persona dappoco, infida", "uomo spregevole" [1].
In questo senso
lo troviamo ad esempio già in un apocrifo dantesco (sec. XIV):
E quei,
ch'io non credeva esser finocchi, [traditori]
ma veri amici, e prossimi, già sono venuti contra me con lancie, e stocchi. E quegli,
ch'era appresso a me più buono,
(Dante Alighieri (apocrifo), I sette salmi penitenziali, Tipografia Silvestri, Milano 1851, p. 49). |
A sua volta
tale uso traslato della parola deriva probabilmente dall'uso
di semi di finocchio per aromatizzare la carne e soprattutto la salsiccia.
Il seme di
finocchio ovviamente non aveva alcun valore, al paragone con le costosissime
spezie che venivano dall'Oriente. Si confronti il toscano "finocchi!" per
"Cose da nulla!" nonché il modo di dire "essere come il finocchio
nella salsiccia", ossia: "non valere nulla".
Quindi: da "cosa o persona di nessun valore", la parola "finocchio" è passata a indicare "uomo spregevole", che non vale nulla, che non merita nessuna stima, e poi, in senso più restrittivo, "uomo spregevole in quanto si dà alla sodomia passiva". Tutto qui.
(Per un'evoluzione analoga vedi frocio).
Ecco qualche
esempio d'uso:
Scattai: E
io che sono? Una rapa? O un finocchio, come dicono certi? Non sono come
te?
(Giò Stajano, Roma capovolta, Quattrucci, Roma 1959, p. 155). |
I fiorentini chiamano "finocchio" colui che lo prende fra le mele, ma chi lo mette, non si sente né l'uno né l'altro. (Leone Fiorentino, Gli amori impossibili di una fanciulla e di un ragazzo inesperto circuìto da due omosessuali, Lalli, Poggibonsi 1977, p. 14). |
I "ragazzi di vita" non sono più corrotti dell'operaio iscritto al Pci che insulti i finocchi, maltratti la moglie e picchi i figli. (Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino 1977, p. 155). |
[1] Un significato che, mi segnala Altin Papa dopo aver letto questa pagina, conserva l'albanese odierno finok, che indica sia l'ortaggio che un furfante, o un furbastro.