I matti son matti.
Psichiatria, "normalità" e omosessualità.
di: Giovanni
Dall'Orto
[da: Roberto Mauri (a cura di), Dentro e fuori, Edizioni dell'Arco, Milano 2005].
[Nota: il libro per cui è nato quest'intervento, che mi era stato chiesto di scrivere dal punto di vista omosessuale, è una miscellanea di scritti sul disagio mentale].
Per buona parte della mia vita sono stato affetto da malattia mentale.
I veri mati i xe fora!
(Proverbio veneziano).
Fatti
come questi, è logico, ti spingono a chiederti chi siano, alla
fin fine, i "malati di mente". Specie se ti prendi il disturbo di leggere
le dotte dissertazioni che fino a pochissimi decenni fa sostenevano l'internamento
in manicomio come soluzione più logica per "curare" chi insistesse
ad avere comportamenti omosessuali.
Io
stesso sono stato testimone, verso il 1985, del tentativo d'internamento
d'un ragazzo torinese, che come unico torto aveva un cosiddetto "esaurimento
nervoso" legato alla sua incapacità d'accettarsi come omosessuale.
Un celebre psichiatra cattolico (già acceso sostenitore della "cura"
degli omosessuali ma che ora giurava che l'omosessualità non era
"più" una malattia) aveva proposto alla famiglia di rapire
il figlio. "Purtroppo" in Italia, per "colpa" della "legge Basaglia", non
era più possibile internarlo a forza in manicomio. Ma se loro fossero
riusciti ad attirarlo in Svizzera, col pretesto d'una gita, lui conosceva
una clinica psichiatrica privata, che...
Il
tentativo fu sventato da uno dei fratelli, attivista di sinistra, che minacciò
di denunciare i famigliari per sequestro di persona, e il giovane (che
conobbi) fu così "lasciato in pace"...
Ammesso
che la "pace" consista nel tormentarsi ininterrottamente per un'omosessualità
che non si riesce ad accettare, nonché nel continuare ad entrare
ed uscire dal "repartino psichiatrico" delle Molinette.
In quel ragazzo io vedo il simbolo e, spero, l'epigono di generazioni d'omosessuali in cui la "malattia mentale" fu la conseguenza, e non certo la causa, d'un certo etichettamento.
Ma
se la "malattia mentale" è così facile da provocare, allora
chi è il "malato di mente"?.
Grazie
all'antipsichiatria
di Thomas Szasz
ci è stata fatta notare l'assurdità del concetto stesso di
"malattia psichica". La malattia, ogni malattia, colpisce infatti la parte
fisica, l'hardware del corpo umano. Se il sistema nervoso è
compromesso, allora si ha una malattia neurologica, non una
malattia "mentale".
Se
invece si ammala la "mente"... ebbene, in che punto delle persona è
localizzata tale "malattia"? Quale sarebbe qui la parte che non funziona?
La "mente" è un'astrazione. Se fosse il cervello ad essere ammalato,
questa sarebbe di nuovo una malattia neurologica, e non "mentale".
La
mente è il "software", e il software informatico non si "rompe":
funziona male, ha "bachi" (conflitto d'informazioni), è inadeguato
al compito, viene danneggiato da un virus (informazioni dannose)... ma
non si "rompe", così come non si "rompe" una poesia, un discorso
o una musica.
Come
fa allora una "mente" ad "ammalarsi", se non in senso puramente metaforico?
La
risposta di Szasz, come è noto, è che la metafora della "malattia
mentale" (quando non ha basi neurologiche) occulta una forma di
comunicazione aberrante per esprimere un disagio, una richiesta
d'aiuto causata da un disadattamento a un contesto sociale che spesso non
ti accetta, o che è meno che vivibile.
Il
"matto" sarebbe lo scarto di produzione (involontario ma inevitabile
in certe condizioni sociali) del processo industriale di uniformazione
degli esseri umani per fare di loro cittadini (o sudditi) quanto più
possibile identici, omologati. E visto che ogni esser umano è, in
partenza, diverso dall'altro, è impossibile che tutti i pezzi
riescano altrettanto bene: qualcuno, che aveva in partenza una forma inadatta,
risulterà inevitabilmente difettoso, "disadattato"...
Eccolo
qui, il matto.
In
effetti, solo ricorrendo a questa interpretazione si riesce a capire come
cavolo abbiano fatto gli omosessuali a finire nell'elenco delle malattie
dell'Organizzazione Mondiale di Sanità.
Guglielmo
Cantarano, descrivendo nel 1883 una donna lesbica internata
in manicomio, lo ammetteva con la massima onestà (l'ipocrisia accademica
non era ancora necessaria):
"Non vi sono convulsioni, non errori di sensi e di giudizio, e la permanenza in manicomio è solo giustificata dall'inversione del suo sentimento sessuale" [1].
Il manicomio di Roma nel 1870.
Sulla
base delle considerazioni appena elencate la risposta alla domanda "I pazzi
sono normali?" appare allora abbastanza ovvia: certo che no. Sono definiti
"pazzi" proprio perché non sono normali.
In
moltissime società, in moltissimi contesti, l'anormalità
è, ipso facto, pazzia.
E
può trattarsi di anormalità di qualsiasi tipo: politico,
sessuale, religioso...
Ad esempio, in una società che non creda alla possibilità di parlare con le divinità, chi dichiari di sentire la voce di Dio è pazzo. Ma una società che lo crede possibile, o magari normale, non userà la categoria della "pazzia" per valutare la pretesa: questa persona sarà un santo, o un profeta, oppure un invasato dal demonio, o un eretico, o più banalmente un impostore e simulatore. Verrà seguita e magari canonizzata, oppure incarcerata, punita e perfino uccisa (e magari entrambe le cose, come Giovanna d'Arco)... ma se non manifesta altri sintomi espliciti di follia, non sarà certo "curata".
All'inverso, la "normalità" statistica di certi comportamenti ci nasconde la loro essenza "pazzesca", contraria ad ogni logica e razionalità. Affidare le scelte della propria vita a determinate posizioni delle stelle nel cielo è, per esempio, oggettivamente pazzesco. Ma siccome negli oroscopi crede la maggior parte delle persone, chi ci crede non è, altrettanto oggettivamente, pazzo.
Insomma: se la maggioranza crede che la Terra sia piatta, si tratta di conoscenza diffusa, mentre nella situazione opposta, come quella di oggi, solo gli "svitati" lo credono...
Tutto e il contrario di tutto può quindi essere definito "pazzia": a seconda del contesto e del momento, conosceranno il manicomio una volta gli attivisti religiosi e una volta gli atei...
Ecco
perché basta un tratto di penna ed io smetto d'essere un malato
di mente. O torno
ad esserlo.
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Quanto
ho appena detto non significa però, come qualcuno sostiene oggi
per un malinteso eccesso di "correttezza politica", che non esista mai
una differenza intrinseca fra un cosiddetto "pazzo" e una persona cosiddetta
"sana di mente", specie in presenza di problemi neurologici, di hardware.
Questa
tesi è particolarmente di moda fra gli adepti del "postmodernismo",
che negano l'esistenza di una realtà oggettiva, riconoscendo solo
realtà soggettive, "narrazioni", ciascuna buona quanto le altre,
e tutte moralmente equivalenti.
Dissento.
Negare la possibile esistenza d'una differenza come questa significa
solo negare il disagio psichico, il bisogno d'aiuto e spesso
d'assistenza delle persone profondamente "pazze".
Significa
lavarsi le mani di fronte alla sofferenza altrui (tanto sono solo
"narrazioni"), e questo con il comodo e ipocrita alibi d'una visione
"progressista" e "politicamente corretta".
Ho
conosciuto un ragazzo che, a furia di abusare di Lsd, "vedeva" cose che
apparivano solo a lui. "Lo vedi quel ragno che mi fissa nell'angolo?
Lo vedi quel topo che mi spia?".
No,
non lo vedevo.
E
nessun altro li vedeva.
Ma
dirglielo non serviva a nulla.
Per
lui la mia negazione era solo la prova del fatto che topo, ragno
ed io eravamo parte della medesima congiura ai suoi danni...
Forse
che la sua realtà era buona quanto la mia? Non direi.
Vedere
topi dove non ce ne sono fa di te un "matto" innocuo, e infatti quel ragazzo
circolava a piede libero, con l'aiuto dei servizi sociali. Ma se lui avesse
ritenuto che io fossi un killer pagato per ucciderlo, e che fosse necessario
eliminarmi perché "o lui o me?".
O
viceversa, se avesse ritenuto di avere una bomba radioattiva, nascosta
nelle visceri, che andava rimossa (coltello alla mano) per la propria salvezza?
È
palese che qui non si tratta più solo di "dissentire" innocuamente
su un "punto di vista", "buono quanto qualsiasi altro"...
Certo,
lo riconosco, per evitare di fare di qualunque dissenziente o "diverso"
un pazzo, occorre un ampio margine di tolleranza verso le "stranezze" altrui,
si tratti della religione, della credenza negli Ufo o dell'omosessualità...
L'orgia
di diagnosi scatenata nel dopoguerra dal dilagare della psicoanalisi
ci ha fatti diventare tutti (be', quasi tutti) molto più prudenti.
In
effetti non esisteva in pratica più nessun comportamento umano su
cui non esistesse una diagnosi bell'e pronta.
Tutto
ciò non deve però farci perdere di vista il fatto che la
pazzia, quella grave, profonda, è in primo luogo inadeguatezza
al reale, e quindi sofferenza, solitudine, dolore e perfino morte.
Negare
il diritto all'"anormalità" al "pazzo", per un malinteso senso di
eliminazione dello stigma che la parola "anormale" porta con sé,
significa negare il bisogno espresso da questa condizione, significa
lavarcene le mani, lasciando solo lui - e la sua famiglia.
Come
troppo spesso si è fatto in Italia.
Come
omosessuale, ho risolto i miei problemi con il concetto di "normalità"
molti, molti anni fa.
Io
infatti sono anormale. Embe'? La normalità è solo
un concetto statistico. Era perfettamente normale essere nazisti
nella Germania di Hitler. Ma oggi è una gloria essere strati anormali,
in quel contesto, e non a caso.
No grazie, la normalità a tutti i costi non mi attira.
Dal
mio punto di vista, quindi, il problema del "pazzo" non è se essere
"normale" o meno: cosa irrilevante. È semmai come riuscire a far
combaciare la sua realtà "anormale" con la realtà "normale"
degli altri, è riuscire a vivere una vita, a suo modo, "normale",
nel senso di gratificante, e il più possibile priva di sofferenza.
Ma
qui mi sto addentrando in un campo che esula dal tema che mi è stato
proposto.
Concludo
qui, perciò, rispondendo alla domanda iniziale: i pazzi sono anormali?
Sì,
certo che lo sono.
È
un loro privilegio.
Da
rispettare.
NOTE:
[1].Guglielmo
Cantarano, Contribuzione alla casuistica dell'inversione dell'istinto
sessuale, "La psichiatria, la neuropatologia e le scienze affini" I
1883, pp. 201-216.