L'identità omosessuale: cos'è, a che serve, come si cucina.
[Da:
"La fenice di Babilonia" n. 1, 1996, pp. 97-108.
In
origine era un intervento per un seminario dell'Arcigay-Arcilesbica sull'identità
omosessuale, tenuto a Rimini nel 1995].
di: Giovanni
Dall'Orto
Da WikiCommons. |
1.
Premessa.
A
scuola ci hanno fatto studiare che il "Principio
di identità" è ciò che ci fa dire che "A è
uguale ad A" e grazie al quale "A non può essere non-A".
Tradotto
in termini terra-terra questo significa che il "principio di identità"
ci serve a:
1)
identificare, per l'appunto, un oggetto, una persona, un fenomeno, in base
alle sue caratteristiche e,
2)
ci autorizza a credere che tali caratteristiche tendano a rimanere tali
a meno che non intervenga qualcosa a modificarle.
Questo
principio, come ho appena detto, si applica non solo ad oggetti, ma anche
alle persone, fra le quali in primo luogo a noi stessi. Fin da piccoli
anche noi abbiamo infatti imparato ad utilizzare questo principio applicandolo
a noi stessi: abbiamo cioè imparato a "riconoscerci", magari allo
specchio, e a dire che "io sono uguale a me stesso", e "non posso
essere altri che me stesso".
Abbiamo
persino imparato che se si è incapaci di compiere questo ragionamento
("A = A", cioè: "io sono io") allora si soffre di turbe della
psiche anche gravissime (dall'amnesia via via fino alla schizofrenia,
che è l'esempio più spettacolare di incapacità di
identificare un "me stesso" stabile e uguale a se stesso).
Ovviamente
voi sapete benissimo che queste che sto enunciando sono grossolane semplificazioni.
Ma tant'è: questa grossolanità è inevitabile. Le idee
ed il linguaggio che usiamo sono arbitrari, convenzionali: non contengono
e non possono contenere "verità", ma solo "opinioni" convenzionali
o comunque riducibili a convenzione.
Non
mi è quindi possibile possedere o enunciare "verità" sull'identità
omosessuale: io ho solo una serie di problemi (importantissimi), di domande
(importantissime) e di proposte (ovviamente "importantissime"...).
Quanto
alle soluzioni, anticiperò qui quella che ritengo l'unica che abbia
senso quando si parla di identità: ognuno di noi deve faticosamente,
da solo, trovare la propria.
L'identità
è infatti per definizione il risultato di un lavoro individuale:
se manca questo lavoro, manca l'identità.
Non
è possibile proporre, imporre o togliere ad un'altra persona un'identità:
il massimo che si può fare in questo campo è confonderle
le idee riempiendole il cervello di informazioni sbagliate e fuorvianti,
oppure viceversa chiarirle le idee fornendole dati che l'aiutino
a decidere in senso positivo. Proprio quello che fa la società con
le persone omosessuali, o quello che cerchiamo di fare noi gay e lesbiche
militanti con le persone omosessuali che non si sono ancora "accettate"
come gay.
L'identità,
ho
detto, è il frutto, il risultato di un processo. Eppure quando
noi pensiamo alla nostra identità, al nostro "io sono", lo facciamo
come fosse piuttosto il punto di partenza del nostro essere, e non certo
un punto di arrivo.
Un
giorno, nella prima infanzia, scopriamo di essere noi stessi, impariamo
a riconoscerci, e da quel momento abbiamo dentro di noi la coscienza di
quel che siamo (eccola qui la nostra "identità") mentre al di fuori
di noi, ben separato, resta ciò che sono gli altri, e ciò
che gli altri, eventualmente, pensano di noi.
Sbagliato.
Io
non sono libero di decidere a mio capriccio ciò che sento di essere.
La mia identità si forma non attraverso la contemplazione di me
stesso (per quanto splendido io sia...), bensì attraverso
il continuo confronto fra ciò che io penso di essere, e ciò
che gli altri pensano che io sia.
Faccio
un esempio. Io posso anche convincermi di essere Napoleone e assumerne
quindi l'identità, ma non sarà certo per il fatto che io
credo d'essere Napoleone che lo sarò davvero: sarò al più,
e sarò giudicato (giustamente) un matto che si crede Napoleone.
2. - L'identità si forma dal confronto fra me e quanto accade fuori di me.
Dunque
stabiliamo qui il primo punto fermo: la mia identità si
forma, in primo luogo, attraverso il confronto fra me e, non "ciò
che accade dentro di me", bensì "ciò che accade al di fuori
di me".
Natalie
Barney ha riassunto questo paradosso in una frase di fulminante bellezza:
"Io sono io perché quando torno a casa il mio cagnolino mi riconosce".
È
una frase geniale. Noi siamo noi perché, o per meglio dire "anche"
perché, ci rispecchiamo in quello che gli altri vedono di noi.
È
un dato di fatto che ciascuno di noi non potrà mai vedere il proprio
viso se non attraverso uno specchio: nello stesso modo ciascuno di noi
per rispondere alla domanda "chi sono io?" ha bisogno di quello "specchio"
che sono gli altri.
3. - L'identità non può essere imposta dall'esterno.
Sono
dunque gli altri a stabilire la nostra identità? Naturalmente
no.
Qui
è anzi possibile stabilire il secondo punto fermo, che è
talmente evidente che nessuno si lamenterà se non mi metterò
a dimostrarlo.
Il
secondo punto è questo: l'identità non può esserci
imposta dall'esterno.
Per
riprendere l'esempio di prima: non basta certo che gli altri mi dicano
che io sono Napoleone per convincermi di esserlo: e se è per quello
non basta nemmeno che mi dicano che non lo sono, per convincermi
che non lo sono, se io mi sono messo in testa di esserlo.
L'identità
nasce insomma dal sottile equilibrio fra la vocina che dentro di me dice:
"io sono", e quello che attorno a me gli altri mi dicono "tu sei".
Il
punto in cui si deve collocare il mio "io" è esattamente sulla
linea di confine tra ciò che io penso di essere, e ciò
che gli altri pensano che io sia.
Spostarsi
al di qua o di là di quella linea è catastrofico:
sia dando retta solo a se stesso sia dando retta solo agli altri finisco
per perdere il contatto con la realtà, che è fatta sempre
da me più gli altri, al tempo stesso.
Ma
cosa succederà, vien da chiedersi, quando "ciò che gli altri
pensano di me" contiene una dose più grande dell'abituale di calunnie
e intenzionali denigrazioni?
Qui
stiamo già parlando di identità omosessuale, perché
ciascuno di noi ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze (devastanti)
che si hanno quando la vocina degli "altri" che dice "tu sei" mente
spudoratamente e sempre.
Cosa
succederà, chiedevo, se gli "altri" mentono nel dire "tu sei"? Succederà
quello che è accaduto a dodici-diciotto anni a tutti noi froci e
lesbiche: diventerà difficilissimo assumere un'identità equilibrata,
tale da non creare contraddizioni in noi stessi.
Se
infatti coloro che amano le persone del loro sesso sono chiamate "omosessuali",
e se io scopro che io amo le persone del mio sesso, ne consegue che io
sono omosessuale, e mi definirò tale, no? Ebbene, no: sappiamo
fin troppo bene che questo sillogismo non è mai così semplice.
Se
infatti l'omosessualità non fosse presentata nel modo in cui è
presentata nella nostra società, il ragionamento sarebbe semplice
e banale come quello che ho appena fatto. Il punto è che per fare
quel ragionamento ho dovuto trascurare un elemento molto importante: la
propaganda anti-omosessuale, che introduce una serie di distorsioni tali
da rendere impossibile quel tipo di sillogismo.
In
effetti il ragionamento che fanno praticamente tutti gli e le omosessuali
quando scoprono le loro pulsioni è più o meno questo, molto
tortuoso:
"Se
coloro che amano le persone del loro sesso sono chiamate/i "omosessuali",
e se le/gli omosessuali sono (come tutti ben sanno) assassini, ladri e
stupratori, e se io scopro che io amo le persone del mio sesso ma non sono
e so benissimo di non essere né un assassino, né un ladro
né uno stupratore, ne consegue che...". Ne consegue che a
questo punto io avrò un gran casino nella testa, non saprò
più come definirmi, né quale identità assumere:
ecco cosa ne consegue.
Ne
consegue che per poter accettare la mia identità di omosessuale
io dovrò, per prima cosa, riuscire a sgrovigliare chi fra me e la
società sbaglia.
Devo
riuscire a dimostrare a me stesso che la società mente quando
afferma che lesbiche e gay sono assassini, ladri e stupratori: se invece
non riesco a farlo (e molti esseri umani non hanno gli strumenti intellettuali
- che sono politici prima che culturali - per farlo), allora
dovrò rinunciare a quell'identità.
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4. Se il gioco della dialettica sociale io-altri è truccato.
Ora,
la dimostrazione del fatto che la società mente sarebbe di per sé
semplice, se non esistesse un imponente apparato propagandistico che ha
per solo scopo impedire di reperire le informazioni utili a smontare il
preconcetto secondo cui ogni omosessuale è assassino, ladro e stupratore.
La
costruzione della propria identità omosessuale risulta così
uno dei processi più dolorosi, laceranti, ansiogeni che si possa
chiedere a un essere umano.
Non
c'è solo il problema dell'essere "diverso": c'è in più
anche il problema che Hans
Christian Andersen, che guarda caso era omosessuale, ha sintetizzato
tanto bene nella favola del Brutto anatroccolo: il "complesso del
brutto anatroccolo", il "complesso del cùculo".
Gli
ebrei, per fare un esempio, sono "diversi"; però nascono da famiglie
ebraiche: viene loro insegnato che la loro "diversità", ha un significato
ed un senso, imparano di essere parte di un gruppo.
Le
persone omosessuali invece, tutte le persone omosessuali, nascono
da famiglie non-omosessuali. Ciascuno e ciascuna di noi cresce credendo
di essere non un cigno quale in realtà è, bensì un
"brutto anatroccolo"; un'anatra "sbagliata", goffa, inadeguata.
Questa
sensazione non fa altro che alimentare il sospetto che la definizione che
la società dà degli omosessuali come assassini, ladri e stupratori
non sia poi del tutto sbagliata.
Da
qui nasce il terrore che possa essere vero il sospetto di celare dentro
di me un assassino ladro stupratore che non ho ancora scoperto, ma che
è lì appostato in agguato, pronto ad emergere non appena
accetterò di definirmi, tremo a pronunciare la parola, "omosessuale".
Da
qui nasce la non-volontà di guardarsi dentro che caratterizza così
drammaticamente le persone omosessuali: pensate a tutti quegli uomini gay
che vivono la loro omosessualità cercando di non pensare mai a quello
che sono e a quello che stanno facendo, che usano il sesso come una droga
per non fermarsi mai a pensare, che arrivano ad "essere" solo in quanto
"sono desiderati" per il sesso, secondo la famosa battuta: "Coito
ergo sum"!
Per farla breve: nasce da qui quella somma difficoltà ad "accettarsi" che fa sì che tutti noi conosciamo decine di persone omosessuali che, magari anche in età avanzata, non sono ancora "riuscite ad accettarsi", non sono cioè riuscite a far combaciare la loro esigenza interiore di assumere un'identità omosessuale con l'immagine che la società eterosessuale ed omofoba ha appiccicato all'identità omosessuale.
L'ho detto all'inizio: la nostra identità si costruisce in una dialettica fra me stesso e gli altri, ma qui il gioco è truccato, la società usa intenzionalmente specchi deformanti: bara, mente.
Questo
discorso potrà sembrarvi forse un po' estremizzato, ma l'esistenza
di questa dinamica è riconosciuta in primo luogo dai nostri nemici,
a cominciare dai cattolici. Pensiamo solo, per esempio, con quale accanimento
essi vogliono impedire che gli e le adolescenti abbiano sull'omosessualità
informazioni direttamente dagli omosessuali: pensiamo ai casini
che vengono fuori ogni volta che si va a parlare in una scuola: Consigli
d'Istituto che protestano, genitori che danno fuori di testa eccetera.
Il
motivo: i ragazzi di quell'età sono impressionabili, la vista
di omosessuali potrebbe "sviarli" dalla costruzione di un'identità
comunque eterosessuale, potrebbe "suggestionarli" e via delirando.
Tutte queste affermazioni postulano, come avrete notato, il dovere sociale
di impedire che agli e alle adolescenti arrivino immagini di un sé
diverso da quello eterosessuale. "Per il loro bene", ovviamente.
E
come se, per riprendere l'esempio fatto dalla Barney, la società
eterosessuale fosse entrata nelle nostre case, avesse rapito i nostri cagnolini,
e li avesse sostituiti con robottini bionici che quando rientriamo a casa
ci dicono: "ti riconosco, sei tu: infatti sei una balena rosa".
A
furia di essere trattati da balene rosa si finisce, dopo un po', a chiedersi
se siamo pazzi noi o se sono pazzi gli altri. Per fortuna chiunque abbia
capito chi sono gli eterosessuali sa che è palesemente vera la seconda
ipotesi...
|
5. Tutte le identità vanno negoziate.
Tutto questo che ho detto fin qui ci porta ad un terzo "punto fermo", un altro punto importante nel discorso della costruzione delle identità: il fatto cioè che le identità, tutte le identità, non sono mai scontate.
Tutte le identità vanno negoziate.
L'identità omosessuale non ci si limita ad "averla", magari per il solo fatto di essere omosessuale: l'identità omosessuale si conquista.
Per chi inizia ad avere una vita omosessuale, l'identità omosessuale è un traguardo, non il punto di partenza.
Questo
che ho detto non è affatto così scontato come forse qualcuno
sta pensando. La gente infatti è convinta che l'identità
proceda di pari passo con i "modi di essere". Per esempio, se una è
italiana, si sente italiana, se uno è uomo si sente "naturalmente"
uomo eccetera.
Ebbene,
non è così: mai.
Prendiamo
proprio il caso appena citato dell'"essere uomo" o "essere donna".
Cosa
può esistere di più evidente, più chiaro, più
netto, più semplice ed istintivo dell'essere maschio o essere femmina?
Nulla. Noi sappiamo di essere "maschi" e "femmine", fin da quando eravamo
alti così. Ci siamo sempre sentiti tali, per quanto addietro va
la nostra memoria. È' "ovvio" che io sia un essere umano di sesso
maschile. È stata la prima cosa che hanno detto di me quando
io sono nato, come del resto di chiunque di voi.
Eppure
l'esistenza del transessualismo sta lì a metterci in guardia contro
la tentazione di credere che sia "naturale e istintivo" assumere la propria
"identità di genere" (l'"identità
di genere" è quella che ci fare dire: "io sono uomo", "io sono donna").
L'esistenza
dei transessuali ci dimostra che anche questa identità, perfino
questa identità, va negoziata, e che insomma nessuna identità
è "naturale".
Tutte le identità sono arbitrarie, per quanto poi, a ben ragionarci, siano tutte necessarie, come dimostra il calvario che affrontano i transessuali per non rinunciare alla loro identità "anomala".
6. Tutte le identità sono limitanti, a iniziare da quelle cosiddette "non ghettizzanti".
Dove voglio arrivare con questo discorso?, mi si chiederà.
Voglio arrivare a mostrare come sia illusorio credere che se noi omosessuali rinunciamo all'identità omosessuale (disprezzata come "ghettizzante") in favore di altre identità più gradite alla società (come quella di "bisessuale" o peggio ancora di "persona", "essere umano" e simili) noi non stiamo affatto indossando un'identità meno arbitraria, meno "ghettizzante", meno "marchiante" di quanto non sia l'identità omosessuale. Stiamo semplicemente indossando un vestito più gradito agli altri, non un vestito più adatto a noi: e c'è una bella differenza.
Tutte le identità sono "limitanti". Bella forza: il loro scopo è proprio quello: di creare limiti, confini, fra il "me" e il "non-me". Qualche tempo fa ho pubblicato su "Babilonia" un articolo contro il famoso slogan che sento sempre ripetere nel mondo gay: "Definirsi è limitarsi". È una frase talmente stupida che solo un omosessuale (velato) può prenderla per buona.
Certo,
che "definire limita"! La nostra vita intera è fatta di limiti!
Lo
scopo delle definizioni è esattamente quello: creare limiti.
Anzi, da un punto di vista etimologico una frase quale "Definirsi è
limitarsi" è tautologica, dato che il verbo latino definio
significa appunto "stabilisco i confini" (in latino: fines), cioè:
"delimito".
Pertanto
chi ha escogitato questo slogan (che sento ripetere almeno cento volte
al mese) rientra nella categoria dei genii universali dell'umanità
che hanno scoperto principi fondamentali della nostra vita quali: "Morire
è cessare di vivere", "Mangiare è nutrirsi" o "Nascere è
venire al mondo". Da Nobel.
Limiti,
dunque. Evviva i limiti. Chi riesce a immaginare una vita senza confini
fra "me" e "te", una vita in cui non si sappia dove inizia la "mia" vita
e dove inizia la "tua"? Confini, sia chiaro, che si possono spostare e
ridefinire, sì, ma che devono esistere.
Figuriamoci
se io venissi fuori con frasi del tipo: "Tu sei me, quindi devi fare
quello che io decido". Se dicessi una frase del genere a qualcuno,
lui o lei mi direbbe subito, in attesa dell'arrivo dell'ambulanza, "No
caro: io sono io, e tu sei tu".
Ma
come? Si definisce? Si limita? Si ghettizza? Ma come? Questa persona
ha definito, de-limitato, limitato! E lo ha fatto apposta, per mettere
i puntini sulle "i"!
Per
lei è stato normale, ovvio, banale, spontaneo, immeritevole di seghe
mentali del tipo: "se io definissi "io" e "te" limiterei e ghettizzerei
ciò che siamo", e amenità del genere che ci tocca
sorbirci invece quando si parla di omosessualità senza che il
suolo si apra e senza che piova zolfo fuso!
Ma
allora, santo cielo, cosa c'è di sbagliato, di tanto "ghettizzante",
di tanto "limitante" solo e soltanto e unicamente nel definirsi omosessuali?
Perché
posso dire senza scandalo "io" (escludendo tutto ciò che
non è "io", cioè tutto il resto del mondo, e
scusate se è poco!), però appena dico: "io, omosessuale"
ecco tutte le oche del Campidoglio che starnazzano che "mi auto-ghettizzo",
e "mi limito"?
Non
voglio girare intorno alla risposta: il punto è che definendomi
"omosessuale" io mi definisco, secondo il punto di vista delle oche (senza
offesa per le oche) di cui sopra, assassino ladro e stupratore eccetera.
Gira
gira, siamo sempre lì.
In
effetti, non ho mai trovato una persona che definisse "ghettizzante" l'identità
omosessuale e che non fosse divorata da nevrosi più
o meno galoppanti: tanto più galoppanti quanto più nascoste
sotto vari strati di astruserie intellettualoidi una più scombiccherata
dell'altra.
Peggio: non ho mai incontrato nella mia vita una persona che dicendomi: "Io non sono omosessuale, io sono un essere umano", sapesse poi rispondere alla mia soave domandina al veleno: "Vuoi dunque dire che chi è omosessuale non è un essere umano?". Ovviamente sì, voleva implicare proprio questo... però non osa dirlo a chiare lettere per non fare la figura dell'omofobo...
Quanto
casino insomma per non dire, semplicemente, "io sono io", "io,
omosessuale, sono omosessuale", e quindi "la società
mente
sull'omosessualità e il suo specchio è deformante"!
|
7. Io sono io - tutto, sempre e tutto assieme.
Questo
che ho appena discusso non è l'unico argomento "scottante" che suscita
panico quando se ne discute tra finocchi.
Ottengo
infatti sempre un grande successo di pubblico e di critica (scandalo garantito
a costo zero, senza nemmeno andare al Maurizio Costanzo Show) quando affermo
che l'omosessualità non è un paio di mutande o un vestito
che ci si toglie o mette a seconda delle ore del giorno, come invece
i froci "velati" si illudono di poter fare (dalle 8 alle 17: eterovergine
di ferro. Dalle 17:30 alle 21, bisex "trasgressivo". Dalle 21 alle 22,
checca andante con brio. Dalle 22 alle 24, frociona assatanata del genere
"oh-sì-dammelo-tutto". La mattina dopo, Messa, un bacetto alla moglie
e via che ricomincia il ciclo).
Chi
è lesbica o gay lo è sempre, in qualsiasi momento della sua
vita, e indipendentemente dalla pratica sessuale. Io sono un omosessuale
sempre, anche mentre sto dormendo.
Di
solito questa affermazione fa saltare sulle sedie le finocchie che non
si sono accettate. La trovano mostruosa. Nemmeno mentre dormono
le perfide checche militanti lasciano loro un poco di requie!
A
nulla serve che io faccia notare loro che io continuo sì ad essere
omosessuale anche mentre dormo, ma continuo pure ad essere italiano anche
quando dormo, o quando ascolto musica classica; o viceversa continuo ad
amare la musica classica e ad essere gay anche mentre mi chiedono di che
nazionalità sono e io rispondo "italiano"... perché io sono
frocio, e lo sono sempre, sono italiano, e lo sono sempre,
sono appassionato di musica barocca, e lo sono sempre...
Ciò che queste persone non capiscono è che io sono un essere umano, e lo sono sempre, anche quando dormo, anche quando faccio l'amore, anche quando dico le tremende parole fatidiche: "io sono frocio".
Io
sono tutto questo, lo sono sempre, e lo sono tutt'assieme.
Cioè, per dirla in un'unica frase: io sono io.
Eccola
qua, l'identità.
Io
posso essere "io" solo a patto di essere sempre me stesso, tutto me stesso,
sempre e in ogni momento. Senza cedere a ricatti.
Io
so sia nuotare che usare un computer. Se nuoto, non smetto di sapere usare
un computer, o viceversa. Semplicemente, uso di volta in volta quell'aspetto
di me che sul momento serve, ma senza che ciò significhi che io
smetta di essere tutto il resto. Io resto capace di usare un computer anche
mentre faccio l'amore con un uomo, e resto capace di fare l'amore con gli
uomini anche mentre uso un computer (e faccio bene entrambe le cose...
ovviamente).
8. Risposta a quattro obiezioni.
Da
quanto ho appena detto emerge implicitamente, spero, la mia risposta ad
alcune diffusissime obiezioni che circolano nel mondo frocio sul tema dell'identità
omosessuale.
Le
elenco subito.
9. Conclusione.
Concludo
con una considerazione.
L'identità
omosessuale si può definire come una specie di attaccapanni
che usiamo per appendere una serie di problemi e questioni, a cominciare
dai diritti civili dei gay.
Senza
l'identità gay, è palese, non ci possono essere né
movimento gay, né diritti civili dei gay, perché se non
riusciamo preventivamente a de-finire (ci risiamo con questo verbo!) chi
siano gli omosessuali, non potremo poi de-finire chi siano le persone che
possiedono i cosiddetti "diritti civili dei gay". (In effetti la società,
e la chiesa cattolica in prima fila, ci scoraggiano dal de-finirci esattamente
per questo scopo).
Questa
osservazione è autoevidente, pleonastica: se "i gay non esistono"
(come proclamano ora giulivi gli adepti della "Queer
theory"), non possono esistere neppure i diritti dei gay.
Se dunque neppure una sola parola di quanto ho detto fin qui fosse risultata convincente, non fa comunque nulla: in qualsiasi modo la giriamo, la pillola amara dell'identità gay va mandata giù lo stesso, perché senza identità gay non possono esserci gay, movimento gay, cultura gay, amore gay, vita gay... incontri fra gay sull'identità gay.
Soprattutto,
nemmeno gay che contestano quanto ho appena finito di dire: che pacchia...
Perché ci siano i diritti dei gay, devono prima esistere i gay... - Foto di Giovanni Dall'Orto al Gay Pride di Roma, 2007. |
Note.
1)
Giovanni Dall'Orto, Manuale per coppie diverse, Editori Riuniti,
Roma 1994, cap. 1, specie alle pp. 25-27.
2)
Dr. Gerard van den Aardweg, Omosessualità e speranza: terapia
e guarigione nell'esperienza di uno psicologo, Ares, Milano 1999.
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