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È ora di cambiare
[da "Pride", giugno 2006]

di: Giovanni Dall'Orto


Il non inserimento dei Pacs nel programma elettorale dell’Ulivo è  stato uno di quegli spartiacque che ogni tanto capitano, nella storia  del movimento gay. Non tanto per la portata dello sgarbo (che si  limita a dilatare i tempi d’approvazione di una legge che però è  inevitabile che sia approvata) quanto per il significato simbolico. Con questo gesto i partiti ci hanno fatto sapere che consideravano  inutile sia la nostra rappresentanza politica, sia la strategia di  dialogo del movimento gay con il mondo della politica.

Che vada cambiato qualcosa nel movimento lgbt italiano non lo dico  io, lo dicono ormai tutti. Sul fatto però che siano solo i dirigenti  del movimento gay a dover essere cambiati (anche se ciò è in effetti  urgente  e più che mai necessario) mi permetto di dissentire.
Perché il mondo gay italiano non ha bisogno solo di una dirigenza che  non sia incatenata mani e piedi ai Ds, come lo è l’attuale dirigenza  Arcigay. Sono molte altre, e talora ancora più importanti di questa,  le cose che ci mancano.

Detta in una frase: se le paturnie di un gruppo ristrettissimo di  venti o trenta dirigenti fanno il giorno e la notte, ciò avviene  anche perché al di fuori di questo gruppo, al quale è stato delegato  ogni onore, ma anche ogni onere, c’è il deserto.

L’Italia è ormai l’ultimo paese europeo in cui non esiste una legge  sui pacs, ok. Ma è anche l’unico paese europeo in cui, ogni anno, il gay pride suscita polemiche e opposizioni in primo luogo fra i gay  stessi (sì, gentili lettori, sto parlando proprio di voi), a iniziare  da, ma non limitandosi a, i gay di centrodestra.
L’Italia è in  effetti anche l’unico paese europeo ad avere un movimento gay di  centrodestra che non sia libero da tentazioni, toni e argomentazioni neofasciste e razziste. E questo pesa, oh se pesa.

Per par condicio, l’Italia è anche l’unico paese europeo ad avere  un’ala di estrema sinistra del movimento gay incapace di fare una  qualsia proposta politica autonoma. Da dieci anni (e sto calibrando  le parole, mentre le scrivo) tutta la galassia a sinistra di Arcigay ha come unico programma politico dire di no a qualunque proposta faccia l’Arcigay. Punto. Se l’Arcigay propone di allattare i bambini al seno, loro propongono di usare il latte in polvere Nestlè. Così, per il gusto. Si propone un gay pride nazionale a Firenze? “Fatelo, e noi lo saboteremo”. Si chiedono i pacs? “Noi siamo per l’abolizione del matrimonio per gli eterosessuali, altro che pacs per i gay”.
Eccetera. Dopodiché ogni decisione del movimento LGBT risulta sempre un pastrocchio... Ma davvero??

L’Italia è l’unico paese europeo a non avere un movimento di "gay credenti" in grado di sfidare la Chiesa sul suo terreno, quello della dottrina: i gay credenti americani scrivono trattati di teologia, quelli italiani celebrano messe gay col sacerdote gay che dà l’assoluzione gay dopo che hanno peccato come gay... Perché il fatto che l’omosessualità sia un peccato, non sono capaci di metterlo in dubbio. E poi ci si stupisce se all’estero molti deputati democristiani hanno votato a favore dei pacs, mentre invece in Italia...?

L’Italia è l’unico paese europeo in cui la battaglia per i pacs (o il matrimonio gay, che a mio parere a questo punto è la sola richiesta sensata, visto che i pacs non li vuole più nessuno) è portata avanti non dalle coppie che intendono usarla, come è stato in tutti gli altri paesi del mondo, ma da persone che nella vita privata sono singles, o comunque non intenzionate a usare un’eventuale legge.
(Coppie gay che dovreste usarla, questa legge, ma voi dove siete? Volete la pappa fatta dagli altri?).

L’Italia è il solo paese in cui gli imprenditori gay non sono capaci di creare un’associazione d’imprenditori gay, perché sono troppo impegnati a farsi la guerra a furia di colpi bassi. Ciò provoca le commistioni, a volte insane, fra commercio e politica che conosciamo tutti. E non solo nell’Arcigay, dato che i gruppi più scalmanati a strillare contro la “commercializzazione” del movimento gay, sono poi quelli che campano interamente dalla gestione di “festicciole” (loro le chiamano così) che muovono milioni di euro e pagano decine di stipendi. Solo il commercio degli altri puzza, il proprio invece è rivoluzionario...

Dopodiché non c’è da stupirsi per il fatto che Italia sia l’unico paese in cui la commistione fra commercio e politica è arrivata oltre il livello di guardia: oltre il conflitto d’interessi. E insisto: non parlo solo di Arcigay. Parlo anche di tutti quei gruppi che da anni strillano contro ciò che poi sono i primi a fare, escludendo però sempre se stessi dalla loro condanna durissima e severissima.
Qualche giorno fa sono venuti a trovarci due organizzatori del pride di Nizza. L’uno, presidente dell’associazione imprenditori, che riunisce 50 locali gay di Nizza (50, in una città di 300.000 abitanti!). L’altra, presidente del centro gay locale. Assieme, ma separati, come funzioni e ruoli. Però d’accordo entrambi sull’importanza del pride. Per l’Italia sarebbe pura fantascienza...

Per non farla troppo lunga, l’Italia è il solo paese importante in cui in trent’anni la visibilità gay e il coming out hanno fatto passi minimi. Per molti anni troppi di noi (sto parlando ancora di voi, gentili lettori) si sono illusi che non fosse necessario accettare l’idea di essere gay e lesbiche (e non genericamente “bisex” o “nonvvojoddefinirmi”), pagando il prezzo connesso alla difesa delle proprie idee e della propria dignità, e delegando tutto a trenta personaggi politici, che facessero loro la battaglia “al posto di”.
Oggi sarebbe quindi troppo comodo prendersela solo con quei trenta.

Che possono avere sbagliato, soprattutto nell’appiattire la strategia sul dialogo con un unico e solo partito (se Ds o Rifondazione importa poco, qui), ma che i miracoli non sono attrezzati a farli. La lotta politica, per qualsiasi cosa, deve poter contare, quando le trattative al vertice vanno male, sulla piazza, su - che so - centomila persone che si mobilitano per i loro diritti. Invece tutti si aspettano che siano gli altri a scendere in piazza per loro che però, poverini, “non possono” farlo, perché se lo viene a sapere la mamma o la zia, capisci...

No, non capisco, anzi m’incazzo. Anche perché coloro che non fanno nulla si riservano di criticare quello che fanno i pochi che fanno. E si permettono d’insinuare (“sapessi quanti soldi si mangiano, quelli, alle spalle di noi gay...”), spargere veleni, insultare...

Il valore di una dirigenza si giudica dai risultati ottenuti. L’attuale dirigenza ha subito una sconfitta colossale, quindi va cambiata. Ma se tale cambiamento si riduce a sostituire trenta poltrone (con tutti i gay affetti da “candidosi” politica acuta, trenta culi per sedersi su quelle trenta sedie si trovano in pochi secondi) allora tanto vale. Se avessimo avuto trenta rifondaroli o trenta radicali o trenta verdi invece che trenta diessini ai vertici, non sarebbe cambiato nulla.
I politici ridono di noi non per il partito a cui apparteniamo, ma perché sanno che in qualunque modo ci trattino tanto noi non protesteremo mai, se non con vacui comunicati stampa “fermamente indignati” (sai che paura!). Il punto è che i gay non scendono in piazza. Punto. “Sai, non vorrei che mia madre venisse a sapere che il mio amico che dorme tutte le notti nel mio letto in realtà non è solo un amico”.

Se questi sono i gay italiani (e sto parlando sempre di voi, gentili lettori), allora la dirigenza attuale va addirittura di lusso.

Se vogliamo un movimento diverso, proviamo per una volta a cominciare dalla base...



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