Perché milito.
(Ovvero: La "Sanvicenzo" è un'altra cosa)
[Inedito, marzo 1997 - Già sul sito Gayteen.it, non più online]
di: Giovanni Dall'Orto
La sede nazionale dell'Arcigay, 2-3-2002. (Foto G. Dall'Orto).
Tempo fa sono stato rimproverato da un ragazzo gay appena arrivato all'Arcigay di Milano. Di fronte alla solita sequela di catastrofi che mi elencava (una vita spezzata dalla tragedia dell'omosessualità) ho malcautamente cercato di consolarlo: "Non ti preoccupare: sono i problemi che abbiamo avuto tutti, prima o poi, ma un po' per volta li si supera".
Apriti cielo. Con che diritto affermavo che i suoi problemi erano uguali a quelli degli altri? Cosa ne sapevo io dei suoi reali ed intimi problemi? Cosa ne sapevo io di lui?
"Niente", ho sbottato, "ma so che quest'anno sei la seicentesima persona che vedo e che mi ripete la storia che mi hai appena ripetuto con le stesse identiche parole, gli stessi identici ragionamenti, nello stesso identico ordine e con gli stessi identici argomenti".
Lo ammetto: ho fatto male a rispondere così, perché il giovanotto s'è offeso: a nessuno infatti piace scoprire che i suoi Grandi Problemi Unici Al Mondo sono in realtà problemi quotidiani e ordinari.
Fa male scoprire che il mondo non ruota attorno a noi e ai nostri bisogni, fa male scoprire che il sole non si alza ogni mattina solo per fare un favore personale a noi, fa male scoprire che la società non ha messo in piedi la repressione dell'omosessualità solo ed esclusivamente per fare un dispetto a noi.
Fa male: soprattutto in questi anni in cui il narcisismo è diventato un "valore".
Fa male. Eppure superare l'egocentrismo è il primo passo verso l'età adulta. Però i gay non vogliono affatto diventare adulti.
Il mio problema di "checca liberata" è che ormai ho perso il contatto con questa realtà umana. Non riesco più ascoltare il gay che mi ripete per la seimillesima volta la storia della sua vita, esattamente uguale al millimetro alle 5999 vite che ho sentito prima della sua. Non ho più di fronte a me persone, esseri umani: ho davanti a me solo casi umani, replicanti, cloni.
Mi annoio, peggio, mi infastidisco, peggio, non riesco più a vedere l'essere umano dietro a queste storie tutte così incredibilmente uguali, tutte così mancanti di forza di volontà, di umanità, di individualità.
No, non ci sono più individui: solo "casi umani", proprio come in TV... che del resto credo sia il referente culturale principale di queste persone.
Il "caso umano" di cui ho appena parlato mi ha in effetti (giustamente) rimproverato per questa mia visione delle cose.
"Tu non puoi trattarmi in questo modo. Tu hai il dovere di aiutarmi senza rimproverarmi".
"E perché?"
"Ma perché tu sei qui per aiutare gli altri".
Ecco dove stava il suo errore. Io (e chiunque altro, temo) non faccio parte del movimento gay per "aiutare gli altri": tra la "società di San Vincenzo de' Paoli" e il movimento politico gay c'è in effetti una certa qual differenza, ahimé.
Infatti io faccio (orgogliosamente) parte del movimento per aiutare me stesso, e non "gli altri". Ciò che motiva la mia militanza è l'egoistico desiderio di vivere meglio e più serenamente io, e non certo un universale e cieco amore per i cosiddetti "altri", specie se esimi sconosciuti.
Se io non fossi stato omosessuale forse non mi sarei nemmeno accorto del fatto che gli omosessuali in questa società sono oppressi. Se faccio militanza per i gay e non per gli zingari è anche perché io sono gay e non sono zingaro.
Io sono qui per aiutare me stesso, per vivere meglio, per costruire una società in cui io possa stare meglio. No, non sono Gesù Cristo, no, non sono affatto tenuto a farmi carico dei dolori del mondo, e no, non sono tenuto a risolvere i problemi degli altri.
Ciò che posso banalmente fare è solo ascoltare, discutere, raccontare la mia esperienza, confrontare il dolore e la sofferenza degli altri con la mia, offrire le mie idee e le mie analisi, scoprire il mio cammino di essere umano nel cammino degli altri esseri umani, riconoscermi in loro e nella loro fatica... dopodiché il lavoro di liberazione interiore può essere solo ed esclusivamente opera del diretto interessato.
Coloro che mi vengono a chiedere che io agisca affinché loro si liberino mi hanno scambiato per Buddha o per la buonanima di Mùccioli. Purtroppo però io trovo sublime l'aforisma: "Se incontri il Buddha sulla tua strada, uccidilo" (purché sia intesa in senso metaforico, va da sé: sono un nonviolento. Specialmente se il Buddha da uccidere sono io!).
Forse noi militanti dell'Arcigay abbiamo dato una falsa impressione, o forse la società è cambiata in modo tale che l'individualismo oggi trionfante ha cambiato il senso di ciò che stiamo facendo.
Un gruppo gay è infatti un luogo per persone adulte, o per persone che fanno un cammino verso una condizione adulta. Non è un asilo infantile. Non è un posto in cui si debba avere pietà per la velata ad oltranza perché, "poverina", ha tanti problemi.
Problemi? E chi non ne ha avuti? Chi di noi non è stata "velata"?
La differenza fra me ed un gay "non adulto" non è che lui abbia problemi mentre io no: la differenza è che entrambi abbiamo avuto certi problemi, ma io mi sono già posto il problema di risolverli, prima o poi.
Ciò non equivale a dire che io abbia risolto i miei problemi. Al contrario: per lo più, ho imparato a conviverci.
Per esempio, non sono riuscito a sbarazzarmi dell'educazione un po' calvinista che ho ricevuto, in modo da godermi un po' più di sesso senza complicazioni.
Io per godere del sesso ho sempre avuto bisogno di conoscere le persone con cui andavo a letto, prima. Ciò mi ha precluso per sempre, ahimé, saune e luoghi di battuage in genere, e mi ha fatto perdere infinite "occasioni". Questo è indubbiamente un handicap, però ho cercato di fare di necessità virtù, vivendo la mia vita sessuale al di fuori di saune e luoghi di battuage.
Bene o male ci sono riuscito. Non è stata la vita che ho sognato, però è almeno quella che io ho voluto, quella che io ho scelto, e devo dire che fino ad oggi nella mia vita non ho assolutamente nulla da rimpiangere. Non so se per chi mi legge ciò sia poco, ma per me non lo è affatto, e tanto mi basta.
Essere adulto, io credo, significa anche sapermi guardare indietro e riconoscere nei miei sogni quanto fosse bello proprio perché impossibile.
Si noti bene: diventare adulto non significa perdere la capacità di sognare, no, significa invece capire cosa sia il sogno e cosa sia la realtà (e non è facile!).
Esistono infatti cose che i reazionari chiamano "sogni" e che invece sono solo pezzi di realtà che attendono di essere realizzati da noi, ed esistono pseudo-realtà (si pensi solo alla televisione) che sono solo bolle di sapone, sogni, droghe costruite per impedirci di pensare.
Non è affatto adulto l'omosessuale che dichiarando di inseguire un Sogno Puro e Meraviglioso (come il famigerato "Principe azzurro") rinuncia a costruire un pezzo di realtà nuova e più gradevole nella propria vita, ammantando di solito di cinismo di bassa lega ("L'amore non esiste", "Gli omosessuali sono incapaci di altruismo", "Il mondo gay è un mondo falso e ipocrita", "Io cerco l'Amore con la A Maiuscola ma trovo solo individui squallidi che pensano solo al sesso") la sua incapacità di essere adulto e responsabile.
Per concludere: essere adulti significa anche capire quando i propri figli devono andare per il mondo e camminare sulle loro gambe.
Sono stanco di gay che, magari per aver letto un mio libro, arrivano da me con la pretesa e la richiesta che io risolva i loro problemi, che io me ne faccia carico.
È ora di ripetercelo: noi dell'Arcigay stiamo insieme perché siamo convinti che insieme risolveremo meglio il problema della nostra felicità individuale.
Cioè, per dirla in gergo, perché siamo convinti della dimensione sociale e collettiva dei nostri problemi.
Chi non vi crede, chi non crede che le radici dei suoi problemi siano quelle dei problemi di altre persone, non caverà il minimo beneficio da una tessera Arcigay.
"Non ci si salva da sé, né da soli"; ha detto non ricordo più quale poeta.
Concordo.
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