Dopo gli Stati
Generali...
(...si tagliò la testa al re).
[inedito,
23 ottobre 2006]
di: Giovanni Dall'Orto
Indice:
Una
proposta bizzarra
Le
conseguenze d'un vecchio errore
La
crisi di Bologna
Quel
che manca a Roma per candidarsi
Non-conclusioni
Post-scriptum
|
|
La riflessione della presidente del circolo romano Mario Mieli, Rossana Praitano, relativa a quel Pride nazionale 2007 per il quale s'è candidata Bologna, fornisce molti spunti per una riflessione necessaria.
Necessaria soprattutto nel momento in cui è palese che il Parlamento italiano non approverà la legge sui Pacs (né alcunché d'altro) nella corrente legislatura, e probabilmente neppure in quella successiva, e quindi che la strategia seguita negli ultimi anni non ha dato frutti, e che abbiamo tutti bisogno di voltare pagina...
Il
modo in cui Praitano, che parla a nome del Circolo
Mario Mieli (usando
il "noi"), intende voltare pagina è però alquanto bizzarro,
dato che la soluzione sarebbe la ri-proposta (ennesima!) del tormentone
del vogliamo-il-monopolio-del-Pride perché-siamo-la-capitale-d'Italia
(su cui Roma "ce sta a pprovà" dal 2000), in modo da potere
investire ancora di più e ancora meglio e ancora ed ancora ed ancora
proprio su quel lobbying sui politici di Palazzo e prelatoni
ed eminenze e portabborze... che ci si è appena rivelato
un
vicolo cieco riconosciuto come tale da tutti, Mieli incluso!
Misteri
del ragionamento politico...
L'analisi
della Praitano è quindi interessante, forse, più per quel
che lascia solo trasparire (o si lascia scappare) che per quel che dice.
Il
non-detto della Praitano è infatti che la politica del movimento
gay è stata inefficace perché si è "rintanata in
provincia", trascurando la sua sede naturale, il centro pulsante del
Paese... che a suo dire sarebbe Roma.
Cito
letteralmente Praitano:
"Pensiamo che dare l'impressione di un movimento che si rintana in provincia a manifestare con la sua azione più forte e collettiva (tra l'altro in una città non certo tra le più difficili in termini di vivibilità e visibilità), fornirebbe al Paese l'evidente segnale di una resa".Dunque, tutta l'Italia eccetto Roma è "provincia", e fare politica in luoghi diversi da Roma costituisce un "rintanarsi".
Il fatto che una militante come Praitano, di solito assai avveduta (fino all'eleganza) nel bilanciare le proprie dichiarazioni (molto più di certi esponenti Arcigay!) si sia lasciata scappare parole tanto incaute, mostra quanto esse esprimano "innocentemente" il punto di vista corrente nel Circolo da cui proviene il documento, al punto da impedir loro di percepire che esse risultano offensive non tanto per Bologna, quanto per tutta la "provincia" (o "tana" che dir si voglia) italiana.
Da questo punto di vista l'analisi del Mieli si rivela quindi parte del problema e non parte della soluzione, dato che esprime una visione, questa sì, provinciale, che vede il proprio gruppo e la propria città come centro del mondo e il resto della nazione come "provincia", "rintanata" a "dare segnali di resa".
Non è chi non veda che una visione di tale tipo non può non avere creato difficoltà politiche in tutti questi anni al movimento lgbt italiano, e in effetti in nessun altro Paese al mondo il movimento della capitale si è collocato per anni, come in Italia, all'opposizione del movimento gay del resto del Paese, arrivando ad opporsi alle sue piattaforme politiche, come per esempio è successo per troppi anni coi Pacs.
E
questa anomalia deve finire una volta per tutte. Non può permetterselo
più quella che Praitano chiama "la provincia", ma le ultime azioni
del Mieli dimostrano che questo gruppo si è reso conto del fatto
che non può permetterselo più nemmeno quella che Praitano
chiama "la capitale".
|
|
Le conseguenze d'un vecchio errore
Il Mieli continua in effetti a pagare le conseguenze (sempre più pesanti col passare degli anni) di un errore compiuto molti anni fa: la decisione, unica fra quelle dei gruppi di rilievo d'Italia, di non entrare a fare parte di Arcigay (e forse non tutti sanno che l'Arcigay nacque infatti, in origine, come federazione di realtà già esistenti).
Ai tempi, la mossa fu magari un attimino egoista, ma dal punto di vista romano sensata: il Mieli era il gruppo più ricco e potente d'Italia. Pioniere nello sfruttamento commerciale del mondo gay, col "Muccassassina" aveva genialmente inventato uno strumento di finanziamento che in seguito sarebbe stato imitato, anzi clonato in tutto il resto d'Italia (anche dai gruppi Arcigay!, che da Milano a Bologna si sono muccassassinati con un entusiasmo talora eccessivo), e questo in un epoca in cui in Arcigay prevaleva ancora un atteggiamento ostile alla "commercializzazione" del movimento gay (all'epoca Arcigay esagerava in un senso, oggi in quello opposto...).
Ci furono anni in cui il bilancio economico del solo Mieli era pari a quello del resto dell'intero Arcigay, e in cui i finanziamenti pubblici venivano divisi "equamente", grazie al potere di lobbying concesso dal fatto di essere presenti nella capitale, metà al Mario Mieli, e metà... a tutto il resto del movimento (Arci)gay. Perché quindi il Mieli avrebbe dovuto condividere le sue risorse con altri gruppi, associandosi a loro?
In quegli anni, il progetto di una egemonia esterna sul resto del movimento gay italiano era insomma non solo legittimo (in democrazia le candidature a un ruolo sono sempre legittime), ma anche realizzabile.
Da allora, però, è passata molta acqua sotto i ponti, e molte cose sono cambiate, rendendo gli svantaggi di quella decisione superiori ai vantaggi:
D'altro canto la leadership sui gruppi lgbt "antagonisti" in chiave anti-Arcigay è resa sempre più improbabile dal fatto che al di là della sua retorica incendiaria, nel concreto il Mieli ha ormai prassi commerciali e politiche, nonché idee, indistinguibili da quelle che gli "antagonisti" rinfacciano ad Arcigay. Anche se l'alleanza andasse in porto, avrebbe comunque una scadenza a breve termine.
Eppure la (legittima!) auto-candidatura di Roma al ruolo di capitale del movimento gay non è del tutto dissennata nel momento in cui tutti vedono, anche se nessuno ne parla apertamente, la profonda crisi di Bologna in tale ruolo.
Bologna
è stata la "culla" di Arcigay grazie al concorso di una situazione
irripetibile:
sia nel contesto politico cittadino unico in Italia, sia nella capacità
di offrire a getto continuo al movimento gay personalità politiche
eccezionali che, a partire da Beppe Ramina e Franco Grillini
e Titti De Simone in poi, hanno permesso non solo ad Arcigay
ma anche ad Arcilesbica di diventare
quel che sono oggi.
Non
è eccessivo dire che la creazione di Arcigay come realtà
nazionale sia stata opera dei gay abitanti a Bologna (molti dei quali peraltro
non "indigeni", come ad esempio l'indimenticabile "Cesarina", che
era... di Roma), visto il contributo speciale che hanno saputo dare al
progetto.
Anche l'attuale presidente Arcigay, Sergio Lo Giudice, abita a Bologna (pur essendo di origini siciliane, come lo è anche Titti De Simone). Ma già si è iniziato a parlare in Arcigay della sua successione e, sorpresa!, il presidente in pectore, Aurelio Mancuso, per la prima volta non è più un bolognese: abita a Milano. E sullo sfondo, ingolosita dalla prospettiva inattesa di una "successione" a Bologna, incombe oggi proprio Milano, indiscussa capitale commerciale e (da questo punto di vista soltanto!) gigante del mondo gay italiano, nonostante sia stata fin qui un microbo dal punto di vista politico.
Quest'anno,
la strana richiesta di un Pride nazionale a Bologna (città che in
Italia sarebbe - e qui condivido il parere della Praitano - semmai l'ultima
ad avere bisogno di una simile iniziativa... o meglio la terzultima, dopo
Milano e Roma, ovviamente) si comprende meglio se la si legge come una
mossa, legittima anch'essa, per cercare di recuperare a Bologna quel ruolo
politico, quello smalto, e soprattutto quella capacità progettuale
che ha perso nel corso degli anni.
È
una scommessa per cercare di ridare senso a un
collettivo gay che altrimenti rischia seriamente d'essere fagocitato
dalla mera organizzazione di feste danzanti.
La
candidatura alternativa del Mieli può quindi essere letta, a sua
volta, come il tentativo d'accelerare - se non precipitare - la crisi di
transizione, proponendosi esplicitamente come la prossima capitale del
movimento gay italiano non appena e se la crisi attraversata da Bologna
arrivasse alle estreme conseguenza.
E
magari dando proprio con lo "scippo" del Pride nazionale una "spintarella"
che acceleri l'arrivo di quel momento.
|
|
Quel che manca a Roma per candidarsi
La mossa è intelligente, ma è mal preparata. Agire oggi, e in quel modo, è agire in modo politicamente poco accorto. Nulla vieta infatti che la "capitale gay" passi un domani da Bologna a Roma, proprio come in passato migrò da Torino a Milano (lo stesso "Mario Mieli" conserva il ricordo di quel periodo nel proprio nome, che è quello del leader della "stagione milanese"), e da Milano a Bologna. Le situazioni evolvono, le città cambiano, le capacità politiche mutano.
Tuttavia, prima che si possa apertamente parlare di candidatura di Roma è necessario che si realizzi una serie di condizioni, senza le quali candidature alternative (ad esempio: Milano), appaiono altrettanto spendibili nel dibattito.
1) La prima è che il Mieli deve uscire dal suo isolamento.
Piaccia o non piaccia l'Arcigay è oggi la realtà politica più importante a livello nazionale (al di là del fatto se ciò sia un male o un bene).
Ebbene: questo dato di fatto fa sì che ci sia differenza fra l'essere "il più importante gruppo gay di Roma e sobborghi", ed "uno dei tre più importanti gruppi Arcigay di tutta Italia".Se il Mieli vuole contare a livello nazionale, e non più solo locale, deve decidersi ad aderire ad Arcigay, dando infine uno sbocco a dieci anni di trattative segrete e sottobanco (e non solo sottobanco: ricordo bene che alla fine degli anni Ottanta il Mieli godette perfino del diritto di voto nelle assemblee nazionali Arcigay, pur non avendo mai dato adesione formale). Punto. Santo cielo: ma occorrono forse tre lauree e un Q.I. a 200 per capire che nessuna associazione nazionale, foss'anche una federazione di bocciofile dopolavoristiche, potrà mai accettare la leadership d'un gruppo esterno all'organizzazione, pena la propria scomparsa? Come può allora pretendere il Mieli di contare di più senza aderire?
Se il Mieli ambisce (come ambisce) a contare non solo più a livello cittadino ma anche a livello nazionale, ha davanti a sé due sole strade percorribili:
Certo, l'adesione del Mieli all'Arcigay comporterebbe un terremoto politico della massima potenza, sconvolgendo la natura sia del Mieli sia dell'Arcigay (e quindi so già che questa mia proposta farà imbestialire in modo uguale sia Arcigay sia il Mieli...). Ma a chi mi rivolgesse tale obiezione, risponderei che lo scopo di tale adesione sarebbe esattamente questo: cambiare radicalmente il movimento gay italiano così come lo conosciamo oggi, e buttare in cantina le sue prassi politiche da vendetta ereditaria incrociata, degne dell'entroterra montano albanese.
- La prima è riuscire a fare a pezzi l'organizzazione nazionale già esistente per cercare d'infilarsi poi nello spazio che essa lascerebbe vuoto e farlo suo.
Questa è la strategia che è perseguita dal Mieli (con profusione d'energie che sarebbero state meglio spese a fare altro) da dieci anni, ormai. E che dopo un decennio non solo non è più vicina alla realizzazione, ma che semmai ha ottenuto il risultato opposto, spingendo i gruppi Arcigay più dissidenti a "serrare i ranghi" ogni volta che il Mieli rilanciava il progetto.Ma oltre che per questi due motivi, questa strategia è sbagliata anche per un terzo motivo: perché dà per scontata una cosa che scontata non è, ovvero che i gruppi locali, venuta meno l'egemonia Arcigay, passerebbero senza batter ciglio sotto quella del Mieli. La sottovalutazione della "provincia" impedisce infatti al Mieli di accorgersi del fatto che i piccoli gruppi autonomi non sono "oggetti del contendere" ma soggetti politici che stanno sì giocando la partita iniziata per l'ennesima volta dal Mieli, ma per conto proprio, con i loro mezzi, e soprattutto con i loro obiettivi. Alcune adesioni entusiastiche all'idea del Pride a Roma che ho letto in questi giorni mostrano con estrema chiarezza, a chi sa leggere fra le righe, quale sia la loro strategia: soffiare sul fuoco in modo che Mieli ed Arcigay si sbranino, indebolendosi a vicenda al punto da permettere ai piccoli gruppi di approfittare della loro debolezza.
Personalmente nutro un'inorridita ammirazione per i gruppi che stanno perseguendo questa strategia (perché tale è, piaccia o no) con gran lucidità, determinazione, e capacità infallibile d'individuare sempre le fessure anche minime per ingigantire a dismisura le spaccature fra gruppi. La trovo una strategia demenziale, dato che in quanto minoranza l'unità è la nostra massima chance, mentre la divisione è una garanzia sicura di sconfitta. Tuttavia non posso negare che questi piccoli gruppi hanno rivelato a volte una capacità di far politica decisamente superiore a quella di molti gruppi assai più ricchi e grossi, ma privi di qualsiasi strategia (appunto) diversa dall'organizzare sempre più feste danzanti per fare sempre più soldi per pagare sempre più gente per organizzare sempre più feste danzanti per... Puah.
- L'alternativa a tutto quanto ho appena esposto è entrare a far parte dell'organizzazione nazionale già esistente, e cercare dal suo interno di ottenere in modo democratico il posto che si ritiene di propria spettanza, convincendo altri gruppi a votare per le proprie proposte e strategie.
Questo metodo si chiama "democrazia", e sarebbe, credo, carino sperimentarlo anche nel movimento lgbt italiano, per la prima volta. Non fosse altro che per il fatto che l'altra strategia, come ho appena finito di dire, ha fatto al meglio un bel buco nell'acqua e al peggio solo danni assurdi (qualcuno la ricorda l'epoca dei Pride separati, prima del World Pride, con partecipazione che diminuiva di anno in anno? Io sì. Vogliamo davvero tornare a quello? Io no. Ma la strada che sembra si voglia percorrere ques'tanno pare proprio quella).L'anomalia del movimento della capitale che fa opposizione al movimento lgbt del resto del paese deve finire una volta per tutte.
Spingendomi oltre, ripeterò che tale ostilità è una delle cause principali dell'impasse in cui si trova il movimento oggi, e che il Mieli porta quindi la pesante corresponsabilità dell'attuale stallo politico, tanto quanto l'Arcigay. Se avesse speso meno energie ad ostacolare Arcigay e più energie a combattere gli omofobi, forse... chissà!Per esempio, non ci avremmo guadagnato di più tutti se il Mieli, invece di sprecare energie per organizzare un teatrino per esorcizzare Arcigay e la sua piattaforma politica, si fosse dedicato a costruirla, una piattaforma di mediazione, capace di aggregare sia Arcigay/Arcilesbica, sia tutto il variegato mondo che ha invitato agli Stati generali? Magari arrivando a convocare una manifestazione nazionale (cosa diversa da un Pride!), a Roma, proprio sulla base di tale piattaforma condivisa da tutti, e merito dell'abilità di mediazione del Mieli?
Non sarebbe stato un successo politico sia per il Mieli, sia per tutti gli altri? Un atto in cui tutti vincevano e nessuno perdeva?E chi ci rimetterebbe, se il Mieli accettasse infine d'essere quel che è, ovvero non il centro del mondo, ma comunque uno dei più importanti gruppi d'Italia, che per agire politicamente ha bisogno non solo dell'appoggio, ma anche del consenso degli altri gruppi lgbt italiani?
Risponda chi sa...
2) Smetterla di cercare di aggregare un movimento politico nazionale sulla base dell'ostilità all'Arcigay.Quello degli "Stati generali" è il terzo tentativo compiuto dal Mieli, dopo quello di Azione Omosessuale (qualcuno se ne ricorda?) e quello del pre-World Pride, di crearsi un seguito di satelliti che gli permetta di affrontare Arcigay a truppe pari.
Ebbene, questo tentativo è non solo stupido (i movimenti non si aggregano mai "contro" qualcosa, ma sempre "per" qualcosa) ma anche inutile: è stato già tentato, e non ha funzionato, quindi palesemente la strada non è quella, e ne va cercata un'altra.
Lo vogliamo capire, signori di Roma? Due tentativi non erano sufficienti? Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico.La variopinta tribù chiamata a raccolta negli "Stati Generali" dal Mieli per sfogare a parole la sua ostilità contro Arcigay non potrà mai stare assieme su tale base. Assolutamente nulla - a parte la volontà di ridimensionare Arcigay - lega tutti i gruppi riuniti negli Stati Generali. E chi capisce un poco di politica si sa che in realtà non li lega neppure questo: una volta che il Mieli fosse riuscito a indebolire Arcigay, i gruppi suoi alleati gli si rivolterebbero contro per impedire che acquisisse lui (come è nelle sue ambizioni, e non da oggi) il ruolo che ora è di Arcigay. Alla fine, passata la festa, lo santo sarebbe gabbato e basta.
Viceversa, solo una piattaforma basata sui diritti dei gay potrebbe cementare gruppi diversi (ivi incluso anche Arcigay): fu così che nacque in origine (faticosamente!) Arcigay. Ma l'incapacità di proporre una proposta di piattaforma per dire ciò che si voleva (e in che ordine, da chi, come, e con quali strategie), e non si limitasse a urlare quel che non si voleva, è stato il limite imperdonabile degli Stati Generali, che ne decreta il fallimento totale.
E non poteva che essere così, dato che quando parliamo di piattaforma politica, sfugge a chiunque la cognizione di quali siano esattamente i punti della piattaforma politica del Mieli che siano inconciliabili con quelli della piattaforma politica dell'Arcigay, mentre numerosi ed evidenti sono i punti che la separano da quella della galassia "antagonista" a cui s'è rivolto in cerca d'alleati.
Infine, l'argomento che taglia la testa al toro: se la variegata area a cui si rivolge ora il Mieli non è mai stata capace di darsi un coordinamento (qualcuno ricorda per caso i Cobagal, e la loro sorte?), forse è solo perché non vuole coordinarsi. I gruppi che stanno fuori da Arcigay spesso lo fanno non solo per condivisibili critiche politiche (e sa Zeus se Arcigay, succursale dell'ala destra dei Ds, non ne meriti!) ma anche perché si tratta di satrapie locali di qualche cacicco lgbt che preferisce, come Cesare, "essere il primo nell'ultimo dei villaggi di Gallia che il secondo a Roma".
Costoro non intendono coordinarsi con Arcigay, vero, ma neppure con nessun'altra realtà sovralocale. Tutto qui.
L'esperienza del World Pride, quando il tentativo del Mieli di mettersi a capo di quegli stessi gruppi sfociò nel loro abbandono in massa del coordinamento non appena la cosa divenne palese, avrebbe dovuto insegnare qualcosa al Mieli. Che invece sembra caratterizzato da una persistente incapacità d'ammettere i propri errori, e d'imparare da essi... Quousque tandem?
3) Abbandonare la retorica noglobal che, pur contenendo spunti politici importanti, si addice a chiunque non sia il Mieli.Solo nel Paese che aveva inventato Berlusconi, il gruppo che ha inventato e insegnato a tutti gli altri come fare a sfruttare commercialmente il mondo gay poteva presentarsi, ormai da dieci anni, come capofila e paladino della lotta contro la "commercializzazione" del mondo gay, di cui incolpa Arcigay. A leggere "Aut", edito dal Mario Mieli, lo si direbbe scritto dal più accanito gruppo anticapitalista e antagonista d'Italia. E invece è stampato e pagato coi soldi delle capitalisticissime serate danzanti del Muccassassina... Italia, Italia...
Non sarebbe ora d'ammettere senza tante prese in giro il fatto che il Mieli è, in Italia, una delle più importanti presenze commerciali sul mercato gay italiano... esattamente come Arcigay, né di più, né di meno? Punto. Che poi i suoi guadagni il Mieli li investa in cause altamente etiche e no-global o li scommetta in speculazioni per comprare azioni della "Roma calcio", sono fatti del Mieli, che non ci riguardano: resta il fatto che guadagni sono, e che fatti con il commercio sono. Punto. Se Arcigay è cornuto, allora il Mieli ha appendici cornee e appuntite sulla testa, quindi gira gira, sempre lì siamo.
Basta allora con questa retorica ossessiva che predica quel che poi non fa! Il commercio non è in sé immorale: anche nella società comunistica perfetta il fabbro e il contadino hanno bisogno di scambiarsi attrezzi da lavoro e cibo, e così agendo fanno commercio. Chiamatelo pure se preferite "scambio economico", tanto, commercio è e commercio resta.
L'immoralità si nasconde in altri, diversi tipi di comportamento, guarda caso comuni tanto al Mieli che all'Arcigay che ad alcuni gruppi gay "antagonisti".
E se mi fate arrabbiare abbastanza, ve li elenco anche...
4) Capire una volta per tutte che il rapporto fra Capitale e "Provincia" è in Italia diverso che in altre nazioni.Per la sua storia, l'Italia non ha, a differenza di Francia o Inghilterra, una metropoli che oltre ad essere da oltre un millennio la capitale raccoglie anche, da sola, il 20% degli abitanti di quella nazione (tale è il peso percentuale della popolazione di Parigi o Londra) in un solo luogo. Da noi, a parità di estensione, l'area attorno a Milano raccoglie sui tre milioni di abitanti e l'area attorno a Roma altrettanti (anzi, qualche spicciolo in più a Milano, se proprio voglio darmi il gusto di fare il campanilistico). In altre parole, Milano e Roma si equivalgono esattamente, come peso demografico, e se si passa al peso economico, è Milano, e non Roma, a sopravanzare la città "rivale".
Oltre a ciò attorno a Milano sta una realtà, quella del Nord, che dal punto di vista della popolazione è più densa di quella che sta attorno a Roma: metà circa della popolazione italiana vive al Nord, mentre Centro, Sud e isole si dividono la rimanente metà.
Ecco: sarebbe questa l'Italia che, a dire del Mieli, sarebbe la "provincia", di cui fa parte Bologna (città universitaria da un millennio!), e in cui non dobbiamo "rintanarci"? In altre nazioni, più che "provincia", questo verrebbe definito "il cuore del Paese"...
La visione grottesca che appare nell'analisi della Praitano di una "capitale" che sta al "centro" del nostro paese in sensi diversi da quello geografico non corrisponde quindi alla realtà. Come tale è inutile per una progettualità futura, e per uscire dall'impasse. Le favole non servono a costruire il futuro: al massimo castelli in aria.
Roma ne prenda atto una buona volta, dopo essersi rifiutato di farlo per tutti questi anni: l'Italia è un Paese in cui il popolamento è sparso (è "il Paese dei mille campanili"), e che ha capitali locali di tradizione millenaria, e talora bimillenaria (la stessa Milano fu capitale dell'impero... romano per oltre un secolo).
Torino (già capitale d'Italia), Bologna, Genova, Firenze (altra ex capitale d'Italia), Pisa, Napoli, Palermo, Catania, Bari, Padova, Cagliari, Brescia... cito a casaccio, e l'elenco non potrà mai essere completo; resta il fatto che le città che hanno un "ruolo capitale" in senso gay (e non) nel loro territorio sono molte, più che in qualsiasi altro Paese straniero (salvo forse la Germania). Non si può fare politica senza tenere conto di questo fatto. A meno di fregarsene di quel 95% del Paese che non vive a Roma.A furia di isolarsi dal resto d'Italia, il Mieli ha finito per dimenticare che Roma non è solo la capitale dell'Italia: ne fa anche parte. E ne condivide la storia, la geografia, le tradizioni e (a volte!) perfino la lingua che vi si parla.
Quando infine i compagni del Mieli ne prenderanno atto non sarà mai troppo presto.
5) Risolvere la contraddizione fra "politica di Palazzo" e la "politica di movimento".Nel suo intervento Praitano sostiene accoratamente la centralità di Roma per la politica gay in quanto sede del Parlamento e del papato.
Ma tale suo argomento avrebbe senso se la politica si facesse per davvero solo nei palazzi del Parlamento e in quelli vaticani. Mentre in passato una delle critiche costanti ad Arcigay da parte dei gruppi intervenuti agli Stati generali e dello stesso Mieli, e che io mi sento di condividere più di qualunque altra, è quella di avere negli ultimi anni appiattito eccessivamente la politica lgbt sulla "politica di Palazzo", a tutto scapito della "politica di movimento", che è la sola a contare per davvero.Il Mieli non può però volere al tempo stesso "più politica di Palazzo" e "meno politica di Palazzo".
Sarebbe ora che ci dicesse se a suo parere il movimento dovrebbe fare meno politica di Palazzo (e in tal caso la presenza a Roma di tali palazzi, e quindi il radicamento del Mieli in Roma, diventa secondaria), o più politica di Palazzo (e in tal caso spiegarci perché da dieci anni critichi ossessivamente Arcigay per averne fatta).
Non si possono sostenere entrambe le linee politiche. Compagni, decidetevi.
6) Mettere fine alla manfrina della pretesa del monopolio romano sul Pride nazionale.Per sostenere il proprio "diritto" a monopolizzare il Pride nazionale, Praitano usa argomentazioni particolarmente capziose: ad esempio, sostenendo che in nessun Paese occidentale importante la capitale non è sede di un Pride. Ciò è vero, ma questo in che modo porta acqua al suo mulino? Roma ha già il suo Pride annuale. Dunque cosa chiede il Mieli, che non abbia ancora?
O forse Praitano invocava un unico Pride? Ma in tutti i Paesi in cui le forze lo permettano (e l'Italia è fra questi), i Pride si svolgono in tutte le realtà locali che possono farlo. Il Pride si celebra sì a Parigi, ma anche a Lione, Montpellier eccetera. Il Christopher Street Day si celebra a Berlino, ma anche a Colonia, Monaco eccetera. Londra ha la sua parata, ma anche Manchester, Edinburgo... E così via. Se quelli di Parigi e Londra sono i più importanti Pride dei rispettivi Paesi, questo avviene non certo per investitura dall'alto, come quella invocata dal Mieli, ma molto più banalmente perché queste due città sono le più grosse del Paese, anzi sono vere megalopoli, con oltre dieci milioni di abitanti l'una. E Roma non arriva neppure a un terzo di tale popolazione. Ecco il motivo banale per cui Roma non può ambire al loro stesso ruolo.
Non basta. A differenza di quanto sembra pensare Praitano, all'estero nessuno s'è mai sognato di credere che il Pride più importante di una nazione debba essere per forza quello della capitale. Il Pride più importante degli Usa non è quello di Washington, e in Brasile il Pride più importante è quello di Sao Paolo (un milione di persone!), non quello di Brasilia. Eccetera eccetera.... Quali sarebbero dunque i Paesi che si comporterebbero nel modo che secondo il Mieli dovremmo prendere a modello "anche" noi in Italia?
In cosa saremmo anomali, noi italiani? L'anomalia sta semmai tutta nel punto di vista iper-centralistico del Mieli, non nella prassi italiana, che non contrasta con quelle del resto del mondo occidentale.
Oltre a ciò, la prassi italiana è adattissima a quello che l'Italia è: proprio per l'importanza nazionale delle varie realtà cosiddette "locali" ha un senso molto forte rotare, ogni anno, la sede del Pride nazionale. Una prasse che fino ad oggi i gay italiano hanno gradito, "votando con i piedi". L'enorme successo e il rilievo politico nazionale del Pride di quest'anno a Torino è la smentita più clamorosa delle pretese del Mieli secondo cui un Pride fuori di Roma equivalga ad un "rintanarsi in provincia".
A mio parere, il Pride del 2007 andrebbe quindi fatto non a Roma o Bologna, città in cui comunque vada pioverà sul bagnato, bensì a Catania, città di preoccupante tradizione neofascista in cui Forza Nuova quest'anno ha preso di mira gli organizzatori del Pride locale (che si noti bene erano i militanti dell'Open Mind, e non quelli dell'Arcigay!), e che ha le strutture e le forze per farsi carico dell'organizzazione di un simile evento di portata nazionale. O qualcuno desidera davvero sostenere qui che Forza nuova sia un problema di portata "provinciale"?
Se avessimo la capacità di ragionare politicamente, sarebbe Catania la sede più ovvia di una forte risposta politica, nazionale, unitaria e antifascista nel 2007. E invece? Eccoci qui a parlare o di Roma o di Bologna, dove la nostra presenza servirà al più ad aumentare ulteriormente i clienti delle già gremite discoteche locali per una notte... Sai che guadagno... (intendo per noi manifestanti, non certo per le discoteche!).
Vladimir Luxuria, vestita da Madonna, con Michele Bellomo, organizzatore del Pride nazionale a Bari nel 2003. (Foto G. Dall'Orto)
Torna all'indice iniziale
So
perfettamente di non avere certo risolto io, con queste mie ciarle, i problemi
del movimento lgbt italiano: le rivoluzioni non si fanno alla tastiera
del computer. Tuttavia mi è parso utile discutere apertamente chiamando
una buona volta i problemi col loro nome, smettendola di sussurrare dietro
le quinte per amor di quieto vivere, e mettendo alla buon'ora sul tavolo
alcune questioni che da un decennio costituiscono il "non detto" fra gruppi
romani da una parte e resto del movimento gay italiano dall'altra.
Ed
è un "non detto" che fin qui ha pesato molto, nel senso di trasformare
per troppi anni Roma nel "porto delle nebbie" del movimento lgbt italiano.
La soluzione del Mieli per superare questa impasse è che il resto del movimento gay italiano si romanizzi, sottomettendosi con entusiasmo alla leadership "naturale" del Mieli.
La soluzione che propongo io è invece che il Mieli divenga parte del movimento gay nazionale, abbandonando la sua ottica localistica e accettando la logica democratica, nella quale la politica si discute e si vota fra tutti i gruppi, e non solo all'interno di quello di un'unica città, importante certo, ma non più delle altre.
Le due soluzioni sono apparentemente agli antipodi, ma hanno un aspetto in comune: entrambe riconoscono la necessità di superare lo scisma fra il Mieli da una parte e il resto del mondo dall'altra.
Questo è un terreno comune su cui è possibile lavorare, dato che finalmente pare condivisa ormai da tutti la coscienza del fatto che la divisione fra Mieli e resto d'Italia sabota l'agire politico del movimento lgbt italiano tutto.
Chissà che dall'analisi si possa ora passare - alla buon'ora! - ai fatti...
Post
scriptum
Gli
Stati generali, quelli "famosi", che diedero
vita alla Rivoluzione francese, non furono convocati dai rivoluzionari
(come sembra pensare il Mieli), bensì dal re, per imporre
nuove tasse in modo da coprire le spese folli del re, e della sua corte.
Finirono
per tagliare la testa a lui, e alla sua corte... il che però risolse
radicalmente il problema del taglio delle spese del re, e della sua corte.
Morale:
gli "Stati generali" possono o dare esiti alquanto diversi da quelli per
i quali li si convoca, oppure gli esiti sperati ma decisamente non nel
modo desiderato.
Lo
tenga a mente chi li convoca...
[Torna
alla pagina principale] [Torna
all'indice degli scritti d'attualità]
[Mandami
correzioni, suggerimenti o proponimi un nuovo link]