Fra outing e coming out.
[Intervista a Michelangelo Signorile].
[Da "Babilonia", ottobre o novembre 1997. Questo è il testo integrale, precedente i tagli editoriali]
di:
Giovanni Dall'Orto.
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Nato
36 anni fa da genitori pugliesi, il giornalista e scrittore statunitense
Michelangelo
Signorile è celebre (e noto anche in Italia) per le polemiche
scatenate dai suoi articoli e dai suoi libri (fra i quali Queer in America,
Outing yourself, e Life outside). Incontrarlo in occasione
d'un suo viaggio in Italia per un reportage destinato al mensile
gay statunitense "Out", per cui lavora, era dunque l'occasione buona per
aspettarsi l'apparizione del diavolo mangiafinocchi.
Ebbene,
tutto il contrario: di persona Signorile è un uomo assai comunicativo,
dal modo di parlare e di ragionare pacato, per nulla passionale. Il fatto
poi che sia anche assai attraente (sangue pugliese non mente!) rende ancora
più vero il detto secondo cui il diavolo non è brutto come
lo si dipinge...
Questa
è l'intervista che ci ha concesso.
Tu
in Italia sei conosciuto come l'inventore dell'outing,
la rivelazione pubblica dell'omosessualità di celebri omosessuali
omofobi.
Guarda,
la stampa sull'outing ha detto quello che ha voluto, insistendo
sul fatto che era una cosa che poteva accadere a chiunque, magari a un
povero e innocente gay "velato" qualsiasi, mentre si è trattato
di un'iniziativa che riguardava esclusivamente quei personaggi pubblici
gay che avevano già rinunciato al diritto ad avere una vita privata
in cambio di potere e denaro.
Dissezionare
le vite private dei personaggi pubblici, specie per quel che riguarda le
questioni importanti, è una tipica tradizione americana. In America
abbiamo, rispetto a voi, una diversa concezione della privacy delle
figure pubbliche, e l'outing è iniziata per una questione
di giornalismo, perché ci siamo detti che i mass-media dovevano
iniziare a trattare nello stesso modo le figure pubbliche omosessuali e
quelle eterosessuali, sia che si trattasse di musicisti, attori o uomini
politici.
I
mass-media americani mettono in piazza il minimo dettaglio privato di qualsiasi
personaggio famoso; eppure quando si arrivava al tema dell'omosessualità
si diceva sempre: "No no, questo non si può scrivere: è
privato".
Ciò
non aveva nulla a che fare con la privacy bensì con l'omofobia,
il rifiuto di presentare l'omosessuale in una luce favorevole (come nel
caso di un personaggio celebre) dato che ai mass-media americani non frega
assolutamente nulla della privacy dei personaggi eterosessuali.
Io ho fatto parte di vari gruppi politici gay, come "Act-Up" o "Queer Nation", e non posso quindi pretendere che l'outing non avesse per me una valenza anche politica; tuttavia per me è stato soprattutto un modo per cambiare il giornalismo. A mio parere non avrebbe dovuto essere chiamato outing bensì equalising ("parificazione", NdR); purtroppo però un celebre giornalista gay "velato" coniò immediatamente questa parola, presentando il fatto come un atto di violenza o di stupro morale e non come un atto di eguaglianza, ed ha preso piede la sua definizione, non la mia.
Mi
fai un esempio di "equalising" o "outing", che dir si voglia?
Per
esempio ho parlato di Pete
Williams, portavoce del Ministero della Difesa, che era gay, cosa
che tutti sapevano sia a Washington sia alla Casa Bianca, e che ciononostante
difendeva pubblicamente il bando contro la presenza di gay nell'esercito,
sostenendo che gli omosessuali sono un security risk ("rischio per
la Sicurezza Nazionale").
Quando
scrissi l'articolo su di lui mi si disse che avevo fatto malissimo, perché
sarebbero successe cose tremende a Williams, che invece ha continuato ad
avere una carriera di successo anche dopo l'outing. In realtà
la sola conseguenza fu che l'argomento del security risk fu finalmente
abbandonato: se ci si poteva fidare di lui, perché non lo si poteva
fare con altri omosessuali?
Tutti
coloro che sono stati outed da me hanno continuato la loro carriera,
comprese le star del cinema.
Magari
oggi ti sono anche grati...
No,
questo no. Anzi, il produttore cinematografico David
Geffen dice che l'ho fatto solo perché ero invidioso di
lui e avrei voluto appartenere alla sua cerchia sociale di miliardari,
ma non potevo permettermelo. E allora, dice lui, mi sono vendicato così...
A
chi altri hai fatto l'outing?
Ho
parlato molto di Hollywood, che è un ambiente molto simile a quello
che mi si dice esserci in Italia: esiste da parte dei gay una pressione
tremenda per impedire che altri gay dichiarino la propria omosessualità,
perché quando una persona è dichiarata appare come una specie
di rimprovero vivente a tutti coloro che non lo sono.
Inoltre
i produttori gay non vogliono che gli attori dicano d'essere omosessuali
perché temono che la cosa abbia ripercussioni sul botteghino.
Dopo
l'outing, però, tutti questi personaggi sono ormai "dichiarati"
e non devono più fingere, e ci sono sempre più attori dichiarati;
alcuni di questi produttori, come appunto David Geffen, hanno anche dato
contributi, nell'ordine di miliardi di lire, alla lotta contro l'Aids,
cosa che prima non facevano per paura di "esporsi" in questo modo.
Senti,
come americano qual è la cosa che ti colpisce più negativamente
dell'Italia?
In
Italia sono venuto più volte in vacanza e mi sono trovato di fronte
ad una cultura molto diversa; poi però tornandoci per lavoro, parlando
con la gente, è stato diverso: mi sono reso conto di aspetti che
non avevo notato prima. È stata un'esperienza rivelatrice.
E
adesso che mi hai dato la risposta politically correct, puoi dirmi
per davvero cosa non
ti è piaciuto. Senza offesa.
(Ride).
Mah... Sono stato colpito da quanto potere abbiano la famiglia e la Chiesa
cattolica. Pensavo ingenuamente che il capitalismo eliminasse le differenze
nei vari Paesi, come uno schiacciasassi. Invece mi sono reso conto del
fatto che il capitalismo può fiorire in realtà del tutto
diverse, dall'Italia a Singapore alla Cina, lasciandole immutate.
La
famiglia italiana è una realtà che ha un tale potere che
perfino in America le famiglie di origine italiana, come la mia, sono fra
le meno mobili della nazione. Gli italo-americani sono i più stanziali,
per poter stare vicini ai figli, e fra loro si trova il più basso
numero di persone che appartengono a professioni che richiedono di spostarsi
molto; per esempio ci sono pochissimi politici italo-americani, nonostante
fra i bianchi americani siano la più grande minoranza, anche perché
non amano rappresentare tutti quanti: preferiscono rappresentare solo la
loro famiglia.
Tutti
i gay appartenenti a gruppi etnici di religione cattolica, negli Usa, hanno
maggiori difficoltà ad "uscire fuori", e fra i gruppi etnici cattolici
quelli latini hanno maggiori difficoltà di quelli non latini (come
gli irlandesi).
Il
cattolicesimo è molto imperniato sulla famiglia.
E
invece quale, fra gli innumerevoli motivi per trovare indubbiamente favolosi
noi italiani, ti ha colpito di più?
(Ride).
Non saprei cosa mi sia piaciuto di più. Tutto quello che posso dire
è che la comunità gay italiana è infinitamente più
omogenea, meno frammentata di quella americana. Nel movimento gay americano
abbiamo incredibili differenze di razza, classe, religione, cultura, e
ciò ci tiene molto divisi: non abbiamo un solo movimento gay, ne
abbiamo molti.
Negli
Usa, l'esperienza di un gay bianco e di uno nero possono non avere
nulla in comune.
La
maggiore omogeneità del mondo gay italiano, se può essere
uno svantaggio perché spinge al conformismo, al tempo stesso può
essere un vantaggio, perché rende la vostra comunità meno
frammentata.
Tu
hai scritto ben due libri sul coming
out: Outing yourself e Life outside. Prova a dirmi in
breve perché mai secondo te una persona gay dovrebbe dichiarare
la propria omosessualità.
La
cosa per me più importante (ma mi rendo che può cambiare
da cultura a cultura) è la questione della stima in te stesso, di
te come individuo. Farlo per motivi politici è OK, ma la prima cosa
che conta nel coming out è l'onestà verso te stesso.
Vivere
in un'eterna bugia fa un danno enorme: infatti ti poni al di sotto delle
altre persone (in famiglia, al lavoro, ovunque) ed accetti di subire molte
ingiustizie. Eppure un sacco di cose importanti della tua vita, compresa
la capacità di fare un buon lavoro, sono condizionate dalla tua
stima di te.
Essere
"velato" causa danni di cui non ti rendi conto finché non decidi
di uscir fuori e non ti volti indietro e vedi quanto pesante fosse il costo
del nasconderti.
Molte
persone omosessuali dicono di vivere bene anche senza fare il coming
out.
Quando
intervisto personaggi gay "velati" mi accorgo che comunque si trovano in
situazioni in cui devono mentire, fare compromessi. Anche se dicono che
va tutto bene, se analizzi la loro vita vedi che fanno un sacco di compromessi.
Rifiutare
di parlarne significa mettere in moto una situazione in cui in futuro saranno
costretti comunque a compromessi: non portare a casa il ragazzo mentre
la sorella eterosessuale lo può fare, veder rifiutare l'idea che
la propria sia una "vera" relazione affettiva eccetera.
Inoltre
ciò sicuramente impedisce agli uomini (non saprei dire se ciò
accada anche per le lesbiche) di avere relazioni durevoli, perché
avere una relazione e nasconderla rende tutto maledettamente più
complicato, per cui si è costretti ad accontentarsi di rapporti
sessuali casuali.
Eppure
sono molti in Italia a dire che non vedono perché devono sentirsi
parte di una comunità gay solo perché vanno a letto con certe
persone.
Mi
pare sciocco: amare, vivere la propria sessualità, sono cose di
enorme importanza nella vita umana. Inoltre noi uomini omosessuali abbiamo
una cultura che è nata attorno alla sessualità, però
siccome siamo dei paria (per la legge, la famiglia, la religione) spesso
ci siamo sforzati di creare qualcosa in altre aree, cerchiamo di aprire
nuovi territori. Credo che noi siamo per la società un margine creativo
e che questa sia una esperienza che ci tiene insieme al di là della
sessualità.
Certo
che, però, se dovessimo stare insieme fra omosessuali solo per l'aspetto
commerciale e superficiale, avrebbero ragione coloro che non vogliono essere
coinvolti nella comunità gay, che
loro chiamano con disprezzo "ghetto". In realtà, invece, si
tratta di stare assieme ad altre persone con cui condividiamo aspetti importanti
della nostra vita: l'amore è importante, la sessualità
è importante.
Forse
il problema vero è che molti omosessuali percepiscono questo mondo
gay come troppo "politico" mentre loro non vogliono avere a che fare in
nessun modo con la politica.
Devo
aggiungere poi che credo che in Italia sia più difficile darsi una
ragione per "uscir fuori", dato che qui non ci sono, come negli Usa, leggi
che ti definiscono e ti condannano come omosessuale anche se tu non ti
consideri tale. Qui non c'è l'urgenza di lottare contro queste leggi,
che riguardano chiunque, anche i meno politicizzati. Qui in Italia uscir
fuori è solo una maturazione personale, filosofica, non è
la reazione istintiva di difesa contro una minaccia esterna.
Da
noi anche se si stava tranquilli era il governo a venire a snidarti nella
tua casa; invece qui in Italia, dove la polizia non mette piede nella camera
da letto, la tentazione di tenere un basso profilo è più
forte.
A
proposito di governo. Tu sei stato e sei al centro d'una grossa polemica
per aver sostenuto che lo Stato dovrebbe controllare e se necessario chiudere
le saune gay e i sex-clubs per combattere l'Aids. Come si concilia
ciò con quanto hai appena detto?
Credo
che lo Stato debba stare fuori dalla nostra sessualità, ma credo
che il governo debba anche regolare le grandi questioni sociali, come lo
sfruttamento della stupidità della gente o la necessità di
impedirle di farsi del male. Abbiamo un problema: l'Aids. Il 50% dei gay
delle grandi città americane è infettato dall'Hiv; nelle
piccole lo è il 20%. Il "sesso sicuro" non ha funzionato: i gay
delle generazioni più giovani si infettano al ritmo del 2-3% annuo,
il che vuol dire che entro i 40 anni cumulativamente saranno anche loro
al 50% di sieropositivi, esattamente come la generazione che non ha praticato
il "sesso sicuro".
Per
questo voglio che il governo regolamenti (non chiuda) le saune e i sex-clubs,
per essere sicuro che questo settore commerciale obblighi i clienti al
sesso sicuro.
Che
però dici che non funziona...
Perché
siamo solo esseri umani e cadiamo in tentazione... Ecco perché occorre
che lo Stato assuma controllori che veglino affinché le regole del
sesso sicuro siano rispettate nei locali gay.
E
poi, per essere più sicuri, che controllino quello che fa la gente
a casa sua?
A
casa sua ognuno fa quel che vuole. Ma non è giusto che ci sia chi
approfitti economicamente della stupidità altrui.
Perciò
uno potrà fare sesso non sicuro in un parco, dove nessuno approfitta
economicamente della cosa?
Guarda,
tu ragioni in termini di princìpi dei diritti civili; io invece
in termini pragmatici: abbiamo un problema: l'Aids; dobbiamo risolverlo.
Per me è necessario ottenere il massimo di prevenzione infrangendo
il minimo possibile i diritti civili.
Se
è come dici tu, allora non potrai negare che il modo più
"pragmatico" per bloccare le infezioni sia proibire totalmente il sesso
gay: c'è già stato chi lo ha proposto. E poi (salvo il caso
degli atti osceni in luogo pubblico), non è logico che lo stesso
atto sia accettabile o no a seconda del posto in cui viene compiuto.
Ma
io non sto parlando di proibire il sesso nei luoghi pubblici...
...che
comunque è già proibito dalla legge. In una sauna puoi almeno
fare prevenzione, in un parco, no.
Non
è vero: puoi. Ed anche nei sex-clubs: nel periodo in cui
i proprietari fecero osservare rigidamente le regole del sesso sicuro ci
fu un crollo delle sieroconversioni. Oggi però a New York è
normale avere rapporti non protetti in tutti i sex-clubs gay!
Io
ho distribuito preservativi nei parchi, ed era quasi più la gente
che li rifiutava che quella che li accettava. Non è allora logico
mandare la polizia nei parchi, per tutelare la salute di chi li frequenta?
I politici di destra qui da noi lo chiedono da un secolo.
Guarda,
io credo che ci sia una differenza fra gli Usa e l'Italia: noi abbiamo
l'enorme privilegio per cui questa discussione sulle saune avviene interamente
fra gay all'interno della comunità gay: persino gli articoli che
riferiscono del dibattito sulla stampa non gay sono scritti da giornalisti
gay. La nostra situazione è dunque diversa da quella a cui stai
pensando tu in Italia.
Prendo
atto della differenza. Mi resta però l'impressione che, da come
parli, tu pensi quasi che abbiamo già perso la guerra contro l'Aids.
Sì,
lo penso.
Non
è un caso che questa epidemia sia sorta nel momento in cui le persone
omosessuali erano sempre più visibili e nel momento in cui era in
corso una rivoluzione sessuale senza precedenti: forse mai nella storia
umana una persona era riuscita ad avere in una settimana l'incredibile
numero di partner che aveva un gay americano di New York o San Francisco
negli anni Settanta.
Gabriel
Rotello in un suo recente libro sostiene che questo virus ha trovato una
"nicchia ecologica" per svilupparsi grazie alla presenza concomitante di
questo fatto, della rivoluzione industriale in Africa, dell'avvento delle
trasfusioni di sangue e dello scambio di siringhe dovuto alla tossicodipendenza:
tutto in una volta sola!
Di
fronte a questo sconvolgimento di costumi senza precedenti, il preservativo
è stato giusto un cerotto su una piaga. Se guardiamo ai numeri,
l'ideologia del preservativo non ha funzionato, perché la gente
non lo ha usato.
Ma
non è strano accusare il preservativo di non aver funzionato perché
non è stato usato? A questa stregua, cosa può funzionare?
Un
cambiamento di mentalità.
Un
dibattito sulla sempre crescente commercializzazione della cultura gay.
Non
dico che la gente debba diventare monogama, però deve guardare al
proprio comportamento personale e vedere quanto sia autentico in esso e
quanto sia invece solo comportamento robotico, adesione conformistica ad
uno stile di vita, un obbligo compulsivo.
Io
dico che ora si "esce dal nascondiglio" solo per buttarsi in un consumo
ossessivo di sesso, nell'uso di droghe, nell'adesione a mode e nell'esclusione
di tutti coloro che non condividono questo stile di vita: e allora si
è solo scambiato un nascondiglio con un altro.
Io
però non uso droghe, non vesto alla moda, non frequento locali,
non faccio sesso "a rischio", eppure faccio parte del mondo gay come chiunque
altro. Non sei allora tu, forse, a confondere il mondo gay con il solo
mondo dei frequentatori dei locali gay?
Guarda,
mi piacerebbe che un ragazzo di vent'anni sentisse parlare anche di te
e del tuo stile di vita. Negli Stati Uniti ci sono sempre più lesbiche
e gay che hanno scelto uno stile di vita "di periferia", che vivono nei
suburbs senza più spostarsi nelle grandi città. È
un fenomeno sociale che è sempre più importante: le lesbiche
ed i gay ormai fanno il coming out anche in provincia, e restano
lì a vivere.
Il
punto, però, è che un ragazzo gay di vent'anni non immagina
nemmeno che possa esistere il tuo stile di vita, non immagina che possa
esistere un modo di essere omosessuale che non sia quello della frequentazione
di locali commerciali.
Ecco
perché è necessario che cambino i messaggi che gli arrivano
dal mondo gay, dai mezzi d'informazione, e che gli venga detto che esistono
alternative al comportamento compulsivo.
Sì.
Penso che la cosa oggi più necessaria sia un cambiamento di mentalità.