Lettera dal "ghetto gay"
[da
"Babilonia" n. 120, marzo 1994, pp. 59-61, come Lettera dal ghetto].
di: Giovanni
Dall'Orto
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"Ghetto",
"ghettizzazione", "autoghettizzazione", "ghettizzarsi",
"autoghettizzarsi": parole che ritornano con grande frequenza in
tutti i discorsi fra omosessuali, specie coloro che amano definirsi "di
sinistra".
Sono
parole a mio parere usate a sproposito, se non addirittura con intenti
omofobi.
Voglio
perciò analizzare cos'era il
ghetto ebraico, per verificare se davvero il mondo gay merita di essere
definito a sua volta "ghetto".
"Géto"
(pronuncia: ghéto cioè, secondo le spiegazioni più
accreditate, "fonderia", da: "getto di metallo fuso") era
l'area di Venezia in cui nel 1516 gli ebrei furono obbligati ad abitare.
Pur
non essendo il primo, divenne il "ghetto" per antonomasia, prestando così
il nome a tutte le aree in cui gli ebrei furono confinati per ordine della
maggioranza cristiana.
L'epoca più buia dei ghetti ebbe inizio nel 1555 con la Controriforma, quando papa Paolo IV e i successori obbligarono gli ebrei dello Stato della Chiesa di abitare solo in cinque o sei città e solo in un "ghetto".
Paolo IV e i successori fecero pressione su altri Stati cattolici affinché adottassero una politica simile. In questo modo furono annientate decine di piccole comunità (anche di due o tre sole famiglie) che avevano caratterizzato il popolamento "sparso" e capillare degli ebrei italiani nel Rinascimento, e fu annientato al convivenza pacifica, fiancoa fianco, tra cristiani ed ebrei:
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La cosa non era priva di utilità, specie in occasione delle sommosse anti-ebraiche o di tentativi di pogrom: barricarsi dentro al ghetto in attesa dell'arrivo delle truppe fu una risorsa che spesso funzionò [1].
La
logica difensiva, in Italia, arrivò a compimento in ghetti come
quello (oggi scomparso) di Torino, trasformato in un quadrilatero senza
finestre esterne e con un'unica entrata, ma traforato da infiniti camminamenti
e collegamenti fra edifici, che permettevano un'elevatissima "manovrabilità
interna" in caso di attacco, facilitando al tempo stesso la socialità.
Un
esempio simile conservato ancor oggi è l'ex ghetto di Casale Monferrato:
qui "i numerosi passaggi e i cortili intercomunicanti consentivano di
andare da una casa all'altra, da casa a sinagoga, senza mai uscire all'esterno" [2].
In
molti casi, ad esempio nel
ghetto di Venezia, la duplice funzione del portone del ghetto era espressa
dal fatto che le chiavi erano due: una in mano alla guardia cristiana,
l'altra in mano a un ebreo. Il ghetto poteva così essere chiuso
dall'esterno anche senza che gli ebrei volessero, ma non poteva
essere aperto senza il loro consenso.
Anche
a Francoforte il ghetto "aveva due porte che, nelle feste cattoliche,
venivano chiuse dal di fuori, e in quelle ebraiche dal di dentro" [3].
Insomma: è necessario ammettere che, paradossalmente, il ghetto ebbe anche qualche vantaggio se si vuole capire una delle stranezze della Storia: il fatto cioè non tutti gli ebrei del passato parlarono male del ghetto.
Ad esempio a Verona,
"una clausura così ordinata finì per essere considerata dagli ebrei non come una iattura, ma come una disciplina, una protezione. Ed è perciò che, dal 1620 in poi, l'anniversario della inaugurazione della sinagoga venne considerato una festa annuale per celebrare l'istituzione del ghetto. Anche a Mantova, ogni anno, si usava recitare speciali preghiere di grazie per lo stesso motivo" [4].Ecco perché, quando si iniziò ad abbattere i portoni dei ghetti, qualche ebreo che se ne lamentò, ci fu. Questo per il fatto che:
"è vero che il ghetto significava separazione, quasi reiezione dal mondo esterno, posizione sociale umiliata, fonte che riversava dal di fuori amarezze quasi continue; ma, all'opposto, significava anche una muraglia contro influenze esterne ritenute perturbatrici, una rocca a protezione della propria individualità, delle proprie tradizioni e della propria cultura, una fonte di intime soddisfazioni.E non si creda che tale tendenza si limiti al passato. Sul "Corriere della sera" del 28/12/1993 è apparso un articolo intitolato: Un ghetto a Londra? Gli ebrei lo vogliono (dove va specificato che "gli ebrei" sono in realtà solo i fanatici ultraortodossi di destra). La persistenza di tale punto di vista ha portato gli ebrei fanatici al punto da creare "ghetti" per le loro comunità perfino... in Israele!
Abolire il ghetto significava intaccare alla base scuole, tribunali ed istituti di assistenza ebraici, rendere difficoltosa un'osservanza integrale dei precetti religiosi, allentare i vincoli fra le grandi compagini famigliari" [5].
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È proprio quest'ultimo fatto che ci mostra infine che l'aggregazione abitativa ebraica non è, di per sé, frutto di discriminazione e razzismo, benché possa essere facilmente sfruttata a questo scopo.
In
effetti ciò che rendeva inumano il ghetto era il carattere coattivo,
cioè l'impossibilità di scegliere se abitarvi o no.
Come
ho detto, i ghetti erano sovraffollati, le case erano fatiscenti, la situazione
sanitaria sempre al limite del collasso. A queste vessazioni si aggiungevano
quelle di carattere economico, che non ho spazio per elencare, che cercavano
di mantenere nella miseria e nella disperazione la popolazione ebraica.
Alla
luce di questi fatti emerge insomma come il ghetto fosse simbolo e conseguenza
di tutte le ingiustizie e discriminazioni di cui erano vittime gli ebrei,
non
la causa.
Perciò
se si toglie la costrizione, il semplice fatto di abitare insieme, frequentare
gli stessi luoghi e costituirsi in comunità, non solo non ha mai
costituito una violenza ai danni della comunità ebraica, ma al contrario
è sempre stato apprezzato da gran parte dei suoi componenti.
Già verso il Mille,
"Salerno è una delle pochissime città d'Italia in cui (...) si fosse costituita una judaica o giudecca" [6].A Catanzaro, nel 1073, furono gli ebrei stessi che
"chiesero di abitare in un quartiere separato, la Giudeca, l'attuale via Capuana" [7].Durante la Controriforma troviamo zone di abitazione ebraica persino nelle poche città cristiane in cui il ghetto non fu mai istituito! Così a Livorno
"gli ebrei erano concentrati intorno alla zona del Castello, alle spalle del porto, dove non abitavano cristiani. Non vi fu però mai ghetto in città" [8].A Pisa
"S. Andrea divenne il quartiere ebraico per eccellenza, anche se Pisa non ebbe mai un ghetto" [9].Insomma:
"già molto tempo prima che il ghetto diventasse il quartiere di reclusione coatta degli ebrei, si era manifestata una tendenza spontanea a concentrare le proprie dimore in un medesimo quartiere o via. Esempio tipico quello di Roma, dove per duemila anni questo concentramento di ebrei ha fatto costantemente perno intorno al ponte Quattro capi, limitandosi solo a passare, nell'Alto Medioevo, dalla riva destra alla riva sinistra del Tevere" [10].
A questo punto credo sia ormai chiaro a tutti che quando si parla di coabitazione di ebrei occorre distinguere fra coabitazioni imposte dall'esterno, come è il ghetto, e la coabitazione per scelta personale, a cui il singolo può anche non aderire. Questo secondo modo di coabitare ha un nome che abbiamo appena incontrato: si chiama "giudecca", cioè "strada o area degli ebrei".
"La giudecca", spiega Milano,
"fu all'inizio un espediente volontariamente posto in essere dagli ebrei.
Questo tratto comune a tutti i nuclei ebraici - come d'altronde ad altre minoranze etniche - di raccogliere le proprie abitazioni intorno ad un unico centro della città e, se in passato, di circondarlo con mura o una cinta di case collegate fra loro, con accessi barricabili dall'interno, aveva due scopi principali: uno di protezione, nel senso di offrire agli ebrei uno schermo rapido ed efficace contro qualsiasi tentativo di attacco da parte della plebaglia cittadina, ed uno di convenienza, in quanto dava la possibilità di espletare più facilmente, entro un perimetro ristretto, vari servizi di culto, di istruzione, di assistenza e spesso di sorveglianza affidati all'organizzazione ebraica" [11].
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Così per esempio nel 1084 a Spira gli ebrei
"ottennero dal vescovo e signore della città, che li aveva invitati a installarsi nel suo territorio, di potersi insediare in un quartiere circondato da mura" [12].Si noti bene che ancor oggi sono "giudecche" tutti i "quartieri ebraici" esistenti al mondo, ad esempio quel Marais di Parigi che è, al tempo stesso, "quartiere gay" e "quartiere ebraico" (e se non si parla di "ghetto ebraico" per il Marais, perché allora se ne parla, fra noi italiani, con tanto sprezzo come del "ghetto gay" di Parigi, quando le vie interessate sono esattamente le stesse, e l'uso che ebrei ed omosessuali fanno di quell'area è esattamente lo stesso?).
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Da tutto quanto quanto abbiamo appena detto emerge con chiarezza come parlare del mondo gay come di un "ghetto" costituisca un falso ideologico.
Poiché nessuna legge obbliga le persone omosessuali a frequentare il mondo lesbico e gay, o di abitare tutte assieme, o di tenere i negozi tutti nella stessa strada, ne consegue che quando aggregazioni di questo genere sorgono spontaneamente, si tratta di giudecche (sempre gradite, come si è visto, alle comunità ebraiche) e non di ghetti (sempre combattuti dagli ebrei, salvo qualche fanatico).
Ma
allora, da dove nasce tanto astio e tanto odio verso un modo di socializzare
che non ha proprio nulla di diverso da quello di tutta quanta la popolazione
(ogni essere umano frequenta di preferenza le persone con cui ha affinità)?
È
presto detto: nasce dall'omofobia,
cioè dal preconcetto secondo cui tutto ciò che fanno le
persone omosessuali deve essere per forza schifoso.
Non
è affatto un caso che le persone che si oppongono ai luoghi d'incontro
gay definendoli "ghetti", siano poi le stesse che non sono disposte a considerare
le e gli omosessuali in quanto comunità di persone con interessi
condivisi, e in quanto tali potenziali portatrici di solidarietà.
Tutti, anche i fascisti ed i cattolici, sono disposti ad accettare la persona omosessuale in quanto individuo, possibilmente disperato e infelice. L'opposto avviene con la persona omosessuale in quanto parte d'una comunità (o realtà umana, che dir si voglia), e quindi portatrice di uno stile di vita, di una cultura, di una proposta di vita alternativa e di diritti umani.
Un gay o una lesbica isolati non creano problemi: sono solo brutti anatroccoli. Una cultura di persone omosessuali, invece, costituisce una sfida alla società, costituisce uno stile di vita alternativo, è il centro propulsivo d'un orgoglio di essere se stessi, per quanto diversi.
È
chiaro che a questo punto entra in ballo l'eterno problema non risolto
del mondo gay italiano: quello dell'identità
(personale
e collettiva).
Il
problema dell'identità personale (chi sono io?) rimanda sempre
a quello dell'identità collettiva ("chi siamo noi?" "Cos'è
in realtà il gruppo di cui faccio parte?") e l'uno rimanda all'altro,
e la non-soluzione di uno dei due termini impedisce di risolvere
l'altro.
In
parole più semplici: se io sono convinto che le persone omosessuali
siano mostri, farò enorme fatica ad accettarmi come omosessuale;
viceversa se ritengo che la mia omosessualità sia una tragedia e
una catastrofe, per me la comunità omosessuale potrà essere
solo il "luogo in cui si esprime la mia catastrofe", e vivrò tutte
le altre persone omosessuali come "annunciatrici di catastrofe".
Per
questo cercherò di frequentare il mondo omosessuale solo per lo
stretto indispensabile (il sesso) e comunque disprezzando chi lo
frequenta.
Da
qui le persone che sono eternamente nei luoghi gay "solo per caso", da
qui le persone che pateticamente si vantano di essere "estranee ad ambienti
particolari" (quasi fosse un merito!), da qui le persone che intendono
sempre e solo usare il tuo corpo, perché hanno il terrore di confrontare
la tua anima con la loro, per paura che ciò metta in forse la loro
vita di menzogna.
È
molto più comodo dar la colpa della propria insoddisfazione al mondo
omosessuale in quanto tale, piuttosto che ammettere i propri limiti e lo
squallore di certe scelte (voglio dire: non-scelte) umane.
È
più comodo insultare come "ghetto" il mondo gay, e come "ghettizzato"
chiunque dica che in realtà lui/lei questo mondo non lo trova poi
così negativo.
È
più comodo agire così che ammettere che si può star
male non solo per quello che è il mondo gay che si frequenta, ma
anche
per l'atteggiamento distruttivo con cui lo si frequenta.
È
più comodo, insomma, dar la colpa agli altri, piuttosto che
assumersi le proprie responsabilità.
Questo
tipo di mentalità trova espressione nelle lettere a "Babilonia",
laddove torme infinite di gay "onesti, sinceri e puri" lamentano la presenza
esclusiva di esseri "falsi e ipocriti" nel "ghetto gay". Ma se davvero
le anime candide sono tante, mi chiedo sempre leggendo queste lettere,
com'è
che non si incontrano mai e poi mai l'una con l'altra?
Forse,
azzardo, per colpa della loro incapacità di identificarsi negli
altri, nell'accettare se stesse come parte attiva e determinante di una
comunità, di com/patire gli altri e i loro limiti, di smetterla
di considerarsi casi unici e speciali per iniziare a scoprire quanto c'è
di comune (anche in termini di destino, persino in termini di sofferenza
e gioie) con gli altri esseri umani con cui condividono l'omosessualità.
Da
questo punto di vista, e solo da questo, io mi azzardo a proclamare infine:
"viva
il ghetto" (intendendo una volta di più in realtà:
"la giudecca gay"
cioè i posti in cui si va per propria scelta, e non per obbligo).
Viva
i locali gay, le discoteche e le saune e i bar che pure io non ho tempo
di frequentare, ma che mi piace sapere che esistono.
Viva
le compagnie di amici gay, le riviste come "Babilonia", ghettizzate o no
chi se ne frega.
Viva
insomma tutto ciò che serve ad accrescere la coscienza di comunità,
che è l'unico terreno su cui può germinare la solidarietà.
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Dicendo questo non mi sfugge affatto che non basta frequentare una discoteca per acquisire un'identità, positiva o non. La comunità gay non la creano le discoteche: semmai la creano l'identità e la solidarietà... eppure anche le discoteche aiutano, non fosse altro che per l'impatto emotivo che ha la visione di mille "finocchi" o lesbiche tutte assieme per chi si credeva "l'unica/o omosessuale al mondo".
Nessuno di noi "ghettizzati" discrimina le persone eterosessuali impedendo loro di frequentare il nostro mondo: sono le persone "normali" a restarne accuratamente fuori, per paura che si pensi che sono "come noi"; sono loro che non vogliono farsi vedere assieme a noi per le strade del paesello per paura che si dica che sono "così"...
A questo punto il gioco è finalmente chiaro: signori e signore che avete la parola "ghetto" a fior di labbra, e che la sputate come insulto ogni volta che nominate l'omosessualità, abbiamo capito il vostro errore. Avete scambiato l'interno con l'esterno.
Adorate stare incarcerati nel ghetto (e questo sì che è un ghetto vero, perché è obbligatorio, perché chi osa uscirne viene disprezzato) meschino, barbaro, razzista e idiota in cui grufola gran parte della società eterosessuale.
Siete incatenati a quel mondo, e di fronte a quel portone che vi tiene rinchiusi avete la faccia tosta di dire che siamo noi che ci siamo chiusi fuori, "autoghettizzandoci".
Chiusi
fuori, noi? Davvero?
Strano.
Io
avrei detto l'esatto contrario...
Note
[1].Per un esempio accaduto a Roma nel 1793 vedi il caso citato in: Michele Luzzati, Il ghetto ebraico. Storia di un popolo rinchiuso, supplemento a: "Storia e dossier", n. 13, dicembre 1987, p. 35.
[2] Annie Sacerdoti, Guida all'Italia ebraica, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 33.
[3] Luzzati, Op. cit., p. 10.
[4] Attilio Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, p. 541.
[5] Milano, Op. cit., p. 357.
[6] Milano, Op. cit., p. 85.
[7] Sacerdoti, Op. cit., p. 325.
[8] Sacerdoti, Op. cit., p. 226.
[9] Sacerdoti, Op. cit., p. 222.
[10] Milano, Op. cit., p. 521.
[11] Milano, Op. cit., p. 521.
[12] Luzzati, Op. cit., p. 7.
Tratto da: "Babilonia" n. 120, marzo 1994, pp. 59-61, come Lettera dal ghetto. Ripubblicazione consentita previo permesso dell'autore: scrivere per accordi.
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