Se un gay ti sbeffeggia
da "Pride" n. 21, marzo 2001, pp. 41-42.
di: Giovanni Dall'Orto
Come convivere col (o sopravvivere al) folclore del mondo gay.
Mi chiamo Luca ed ho 19 anni. Qualche giorno fa m'è capitato di andare in un locale che non frequento quasi mai con i miei abituali amici, ma visto che quella sera ero solo ho pensato di andarci a bere qualcosa. Entro verso le 23 e vado a vedere se ci sia qualcuno che conosco, quando mi sento arrivare urletti da checca isterica da un gruppo di clienti abituali, tutti ragazzi giovani che sedevano al tavolino vicino alla consolle, che si sono affibbiati i nomignoli più disparati, del tipo Britney, Baby eccetera. Questi urletti rivolti a me inneggiavano "cupio"? "storpia"? eccetera, per la maggior parte al femminile. Dopo un dieci minuti, un/a di queste checche mi avvicina venendomi a dire che c'era un loro amico che mi voleva conoscere. Stupidamente sto al gioco, ma tornando nella saletta in fondo vicino al loro tavolo ho scoperto che non era altro che una scusa per urlare nuovamente in coro CUPIAAA! A quel punto sono scappato dal locale dalla vergogna e dall'imbarazzo, visto che ero solo, e si sono girati tutti a guardare. Carissimo Direttore, pongo a lei il quesito se è in grado di spiegarmi a cosa serve questa discriminazione all'interno di nostri stessi locali, che dovrebbero servire a socializzare e non a escludere, ed a cosa possa servire a mettere in imbarazzo una persona nuova che non ha fatto nulla di male, se non mettere piede in un semplice bar a bere qualcosa con la voglia di fare amicizia e conoscere qualcuno?
Fortunatamente ho imparato che ci sono locali più seri di questo bar, dove certa gente non c'è e socializzare è molto più semplice, come lo sono le persone che si trovano dentro. Luca M. - Milano. |
Ma veniamo alla tua domanda: perché si sono comportati in quel modo? Be', ci sarebbe da scriverci su un trattato di sociologia. O di psicologia del gruppo che si fa "branco", dei ragazzi che amano tormentare (indipendentemente dal fatto di essere gay o etero) i loro simili, dell'attrazione che si fa paura o del desiderio che si fa frustrazione…
Me la vedo, la scena. Tu entri. Qualcuno ti nota: gli piaci. Ti desidera. Prova a lanciare segnali, ma tu, che sei nuovo dell'ambiente, e per di più timido, non te ne accorgi (perché vedi, Luca, come mai fra tutti coloro che entravano nel bar hanno notato proprio te?). Allora eccolo qui il desiderio che si fa frustrazione. E che spinge a cercare di farsi notare con gli urletti e le provocazioni per capire se tu sia "uno di loro".
Ti sembrerà strano, ma gli scambi rituali di insulti sono comunissimi nei gruppi emarginati. Lo sono perché servono da allenamento per la difesa contro gli insulti "veri", e al tempo stesso dimostrano che fai parte anche tu della combriccola. Esistono ponderosi studi di sociolinguistica sui duelli verbali fra i portoricani di New York, o nelle gang negre, o sui ragazzi di strada di Istanbul… e fra gay. Ricordo anzi un film, Sister act, in cui a Whoopy Goldberg viene affidata una classe di ragazzi intrattabili. Un allievo nero la insulta secondo il rituale delle gang di neri, e lei inaspettatamente risponde, usando lo stesso rituale, con una sequela di insulti ancora più coloriti, ottenendo: (1) di ristabilire la gerarchia perché ha dimostrato di essere più brava lei, e (2) di provare che anche lei fa parte a pieno titolo della comunità nera.
Ti gira la testa? Forse non era il caso di tirare in ballo la sociolinguistica?
Va bene, torniamo allora alla tua domanda: che è successo? Risposta: che quei ragazzi ti hanno sottoposto a un rituale. E perché lo fanno? Be', non perché sono gay, bensì perché sono ragazzi. Per darsi sicurezza. Perché i ragazzi quando sono in branco fanno queste cose e se sono da due in su gridano "Viva la figa" sul tram o cantano canzonacce. Perché sono un po' provinciali, probabilmente in trasferta ("cupio" è insulto solo piemontese) un po' su di giri e decisi a sfogarsi per una notte.
Cosa s'aspettavano da te? Che tu ribattessi. Che so, chiedendo "se avessero la figa che gli aveva dato alla testa perché nessuno gliela sbatte mai, sgangherate com'erano". Speravano cioè che tu intrecciassi con loro qualche arguta volgarità, come i burini di una volta che prima se le davano e poi andavano all'osteria a bere assieme. Infatti in questo modo un po' bizzarro tu avresti rotto il ghiaccio ed avresti iniziato a parlare con loro, e qui si sarebbe fatto avanti quello a cui interessavi (e che aveva tanta paura quanto te: per questo s'è nascosto dietro al branco, coinvolgendolo nel suo gioco di desiderio per non esserne preso in giro). Nota che non ho detto che questo sarebbe stato il comportamento giusto: sto solo cercando di indovinare il comportamento che io immagino che loro s'aspettassero da te.
Concludendo: sei capitato in mezzo ad un rito, sei stato messo alla prova e non l'hai superata perché al primo insulto hai dimostrato che la parola "checca" ti fa male, e che soffri se ti chiamano "cupio". E qui un poco poco di torto lo hai anche tu: perché mai offenderti? Io, per esempio, sono frocio, culattone, finocchio, cupio… embe'? E allora? Che c'è di male nell'essere frocio, scusa? Tu che me lo rinfacci hai da ridire, per caso? Ma ti sei visto allo specchio che pari Marilyn Monroe a novant'anni dopo essere finita sotto un tram? Saresti maschia tu? Ma lo sai che pure tu sei così finocchio che devi stare lontano dai campi durante la raccolta degli ortaggi se no finisci all'Ortomercato?
Eccetera…;-)
Purtroppo quando il gruppetto ha capito che non sarebbe riuscito a coinvolgerti nel gioco, perché essendo alle prime armi non ne conoscevi le regole, ha deciso crudelmente di fare un altro gioco: quello del gatto col topo. Come potenziale amante non eri utilizzabile, tanto valeva rottamarti per un gioco di "nonnismo". Perché l'han fatto? L'ho già detto: per nonnismo, per lo stesso motivo per cui i loro coetanei tormentano le reclute appena arrivate in caserma. Questo non ha nulla a che vedere con l'omosessualità, ma solo con la logica del branco. In questo senso i tuoi interlocutori hanno anzi dimostrato d'essere fin troppo addentro alla logica del branco maschile: altro che troppo effeminati!
Questa è la spiegazione che mi chiedevi, così come riesco a dartela io. Non pretendo sia l'unica o che sia quella giusta, ma visto che l'hai chiesta a me, ti ho risposto io.
Restano da trarre le conclusioni, se me lo concedi.
Da sempre i nuovi arrivati fanno una fatica pazzesca ad accettare la complessità e la diversità del mondo omosessuale. Ed è logico: ci hanno educati insegnandoci che la diversità è un male, che è schifosa. Molti gay non ci riusciranno mai, e sono quelli che scrivono le lettere a "Pride" dicendo che bisognerebbe far fuori i gay che ci "disonorano" (senza pensare che per altri gay sono certamente loro i "disonoranti": infatti non manca mai un "buon" motivo per disprezzare un altro "frocio"). Ma esiste una certezza: tu non sei obbligato a vivere secondo quel folclore, se non ti diverte. Il mondo gay è molto variegato, e basta cambiare bar per trovare un ambiente diverso.
In compenso esiste un problema che non puoi ignorare: se uno è "checca", se è effeminato, o addirittura transessuale e si sente donna, con che diritto tu glielo rinfacci? Questa persona ha il diritto a essere se stessa così come ce lo hai tu, anche se tu trovi sgradevole il suo modo d'essere proprio come gli etero trovano sgradevole il tuo. "Ad ognuno il suo": appunto…
La conclusione è allora che, come giustamente tu dici, la tolleranza deve iniziare all'interno del nostro mondo. E all'interno di te stesso. Il giorno in cui un gay "checca" smetterà di darti fastidio, vorrà dire che avrai imparato ad accettare gli altri (e te) per quel che sono, e che nessuno riuscirà più a offenderti.
Quello sarà un bel giorno perché, sappilo, non esisterà un "diverso" più difficile da accettare, un intruso più assurdo, un alieno più bizzarro… dell'uomo che tu amerai, e che ti amerà.
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