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"CHIAMIAMOLI PROSCIUTTI": 
FRANCESCO BERNI (1497-1535)
e la sua strana cerchia di amici.

di: Giovanni Dall'Orto

Francesco Berni da Giovane ritratto da Rosso Fiorentino nel Chiostrino dell'Annunziata a Firenze
Francesco Berni da giovane, ritratto umoristicamente dal Rosso Fiorentino nel Chiostrino dell'Annunziata a Firenze.
Come direbbe La Palisse, le scoperte più sorprendenti sono quelle che arrivano inattese...

Leggevo più per curiosità di pettegolezzo che per altro le lettere, in sé piuttosto banali, del poeta Francesco Berni (1497-1536) [1].
Avrei interrotto rapidamente la lettura se non avessi notato un gruppetto di missive a un certo Vincilao Boiano (1485/1490?-1560) [2], nelle quali Berni insiste sull'invio di alcuni prosciutti, di cui afferma stranamente esserci carestia in Verona, dove si trova al servizio dell’austero vescovo riformatore Giovan Matteo Giberti (1495-1543) (datore di lavoro di entrambi).

Ora, tale insistenza avrebbe potuto essere solo una bizzarrìa se "prosciutto" non fosse anche un termine del gergo usato dalla poesia bernesca, di cui guarda caso il Berni è l'esponente più celebre: in questo gergo i prosciutti sono le natiche maschili.

Qualche esempio? Eccolo. Francesco Rùspoli (1579-1625) si scaglia contro un "pedante" (cioè un maestro) perché:

"Non mostra tante facce un arcolaio
né così presto si rigira tutto
come in cercar del giovenil presciutto
si volge quel pedante arciculaio[3].
E padre Francesco Moneti (1635-1712), inveendo contro il vizio sodomitico dei fiorentini, afferma:
"Molto soavi son di mele i frutti
al gusto fiorentino, e del trojano
coppier di Giove i teneri presciutti[4];
dove le "mele" sono ovviamente le natiche, e il "troiano coppier di Giove" è Ganimede.

Attratta dunque la mia attenzione dal termine "sospetto", ho provato a leggere le lettere con i criteri con cui avrei letto un sonetto bernesco, cioè decifrando i doppi sensi secondo il codice cinquecentesco dell'equivoco, e con sorpresa ho visto emergere dalle lettere, inatteso, un viavai di giovanotti marchettari.

La corrispondenza inizia il 15 maggio 1530: Berni chiede a Boiano due paia di prosciutti perché vuole donarli a un gentiluomo.

Il 6 giugno i prosciutti sono arrivati, e Berni ringrazia.

Il 14 agosto Berni aggiunge che ne vuole altri sei per sé, da mandare uno alla volta dato che in casa è l'unico a consumare quel tipo di carne, perché si è stufato "di carne di vacca" (dove le "vacche" sarebbero le donne/prostitute, ça va sans dire). 
Berni si raccomanda: i prosciutti non siano di eccessiva grandezza, come quelli già mandati, e che pure andavano bene in quanto da regalare; per le cose domestiche è però è meglio essere frugali. L'importante è che i "prosciutti" siano in carne. Per farglieli arrivare, li potrà dare a messer Marco [5].
Non so come sciogliere il codice: azzardo che questa sia una richiesta di prostituti di età meno adulta di quelli precedenti, purché già sviluppati o, banalmente, di ragazzi d'altezza meno imponente. Ma sono solo ipotesi che sto azzardando lì per lì.

Il 15 settembre, in risposta a qualcosa scritta dal Boiano (forse l'annuncio della condanna a morte di una delle marchette che avrebbe dovuto inviare?) Berni augura che Dio faccia pace con le anime di "quei peccatori", che sono stati così maltrattati da essere "morti martiri": se così è, della richiesta del Berni non se ne parli più.
Però il prossimo anno è meglio che Boiano faccia un po' d'attenzione, perché Berni vuole saturari carnibus eorum ("saziarsi delle loro carni") perché a Verona non c'è nulla da... mangiare, se non carne bovina, che è disgustosa.

Un anno dopo, nell'ottobre 1531, troviamo una lettera intenzionalmente oscura che allude di sguincio a fatti ben noti ai corrispondenti, ma che noi possiamo solo inferire.
All'inizio si intuisce, mi pare, che una donna (la moglie?) aveva obbligato Boiani a mandare via "quel giovine".
Un giovane (forse lo stesso mandato via dal Boiani?) era poi stato mandato ("è venuto il cane") al Berni e all'"abate di San Zeno" (che sottoscrive la lettera e rende esplicito di quale razza di "cane" fosse, definendolo esplicitamente: "questo bel giovine che ci avete mandato"...) [6].
Berni definisce "divino" questo giovane, e aggiunge che se l'abate prima conosceva Boiani per fama, grazie alle lodi fattene da un altro giovane ora morto ("quel poverino"), ora ne conosce la virtù per averla vista. La "virtù" sarà ovviamente quella di scovare ragazzi belli e "che ci stanno" (e si badi che nel gergo burchiellesco la "virtù" è anche il membro virile in erezione). 
L'abate di san Zeno aggiunge d'essere grato al Boiano che ha mandato quel "bel giovine", al quale spera di "trovar moglie" (o marito?, chiedo io) e che ha preso il posto dell'altro, quel poverino che è morto ma che è vivo nella memoria.

Per concludere, il 5 luglio 1532 è Berni ad inviare a Boiano (impegnato in opere d’architettura commissionate da Giberti), per incarico di "Monsignore" (Giberti) un muratore "eccellente per il pilastro vostro" ["pilastro" = "membro virile"]"e per ogni cosa", con l'autorizzazione a fare con lui ciò che vorrà.

Qui finiscono le lettere del Berni conservateci, ma credo che di carne al fuoco ce ne sia a sufficienza.

Francesco Berni in abito religioso. Incisione seicentesca.

Francesco Berni in abito religioso. Incisione seicentesca.

***

Incuriosito dalla vicenda ho cercato di sapere chi fosse Boiani, trovando alcune poesie latine scritte da lui. Mentre le leggo, anche qui più per curiosità che per altro, mi imbatto, guarda tu il caso, in due composizioni indirizzate Ad ingenuum adulescentem Johannem Matthaeum [7], scritte dal Boiani venti/venticinquenne (cioè verso il 1510/1515). E chi sarà mai l'"adolescente Giovan Matteo" a cui sono indirizzate? Ebbene sì: proprio il Giberti (che aveva cinque/dieci anni meno del Boiani).

La "coincidenza" è resa ancora più significativa dal fatto che in una delle composizioni Boiani parla... dell'amicizia amorosa e intensissima che lega lui e Giberti, paragonandola ai mitici esempi delle più belle amicizie dell'antichità classica.

Il cerchio si chiude. Berni, Boiano, "messer Marco" e l'"abate di san Zeno" costituiscono una piccola cerchia di "sodomiti" cortigiani e amici che si dà da fare dietro le spalle del severo vescovo Giberti e che, legati da vincoli di complicità, si scambiano il favore di segnalarsi (e inviarsi) a vicenda i ragazzotti "che ci stanno".

Succede molto raramente di imbattersi in documenti di questo genere, vere "prove a carico" che, nelle mani sbagliate, avrebbero potuto costare la vita a chi li scrisse. La sorte capitata a "quelli peccatori" (se davvero si tratta di sodomiti noti al Boiani, catturati e giustiziati) è un monito costante sul pericolo corso da chi aveva rapporti omosessuali in quel periodo, specie se non aveva "santi in cielo" come Berni e soci. Il gruppetto che ruota intorno al cardinale Giberti, infatti, appartiene ad un'elite nei confronti della quale di solito il Potere usa reti a maglie molto larghe...

***


Ciononostante almeno uno degli "allegri compari" della brigata dovette subire una (blanda) punizione per il suo eccessivo attaccamento ai ragazzi. Il 29 gennaio 1523 proprio Francesco Berni, allora venticinquenne, scrisse tre sonetti contro Amore da un'abbazia in Abruzzo, dov'era relegato per certe colpe d'amore omosessuale di cui si protesta innocente.
Salvo poi divertirsi a dire che lui sì "ha in culo" (cioè disprezza fortemente) Amore, però lo dice con una frase a doppio senso sessuale: "Marte ho nella brachetta e in culo Amore[8], ovvero: "davanti, nelle mutande" (brachetta) "ho la guerra, e nel culo lo stimolo d'amore".

Questo è il Berni, uno "spudorato" che approfitta del clima di tolleranza che esistette in Italia prima della Controriforma per promettere ai giovani "abati Cornaro" che:

"pur, per non star inutilmente cheto
vi farei quel servigio, se voleste,
che fa chi suona a gli organi di drieto[9].
È lo stesso che scrive un "Capitolo d'un ragazzo" a proposito del ragazzo regalato da Mecenate a Virgilio, che se ne era innamorato, aggiungendo serafico:
"Io non son né poeta né dottore,
ma chi mi dessi a quel modo un fanciullo,
credo che gli daria l'anima e 'l cuore[10].
È lo stesso che parlando delle "pesche" non esita a beffarsi della convenzione burlesca, che permetteva di scherzare solo sulla sodomia "attiva" (giudicata più "virile"), esaltando come massimamente fortunato ("avventurato") colui che riesca a godere tanto della sodomia attiva che di quella passiva:
"che sopra gli altri avventurato sia
colui che può le pèsche dare e tòrre",
cioè "darlo e prenderlo" [11].

Altri documenti, se lo spazio non mi imponesse di fermarmi, confermerebbero la straordinaria "sfacciataggine" con cui Berni e quelli del suo ambiente sociale vissero la loro omosessualità nei decenni precedenti la Controriforma. E sono certo che curiosando sull'"abate di san Zeno" e su "messer Marco" emergerebbero altri elementi su questa buffa cricca di sodomiti rinascimentali.

Per non farla troppo lunga mi fermo qui, per ora, limitandomi a riportare di seguito il testo originario delle lettere del Berni, a dimostrazione di quanto materiale riservi, per lo storico dell’omosessualità che abbia la pazienza di mettersi a ricercare, la letteratura e la storia italiana.


Appendice: Il testo delle lettere.

[Per semplificare l'eventuale stampa della versione online di questo articolo ho scelto di pubblicare i testi originali qui di seguito, anziché nasconderli separatamente dietro a link].

Lettera del 15 maggio 1530 
(...) Vi pregherò vi piaccia mandarmi, come prima vi è comodo, due paia di prosciutti belli, che li vorrei donare ad un gentiluomo.
Sono privo della speranza, in che ero entrato, di potermi venire a stare con voi questa state, ed allora fornitemene. (...)
Il signor ser messer Marco darà ricapito alli prosciutti, se vostra signoria non ha altro modo.
Bàciovi la mano.
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Lettera del 6 giugno 1530 
(...) De' prosciutti vi ringrazio sommamente (...). 
[Torna al punto in cui hai interrotto]

Lettera del 14 agosto 1530 
(...) Ma per tornare a proposito, io vorrei de' prosciutti, perché m'è venuto un vizio, che non mi piace più carne di vacca, e bisogna che vada aguzzando il gusto con queste ribalderie.
Però mi vi raccomando; ma non vi sgorbiate. Mandatemene sei, e ad uno ad uno, perché in casa non se ne fa guasto se non da me. 
Li vorrei non magri, né cosa operosa, cioè gran macchine, come furono quelli che mi mandaste, che stetton bene di quella statura, perché si avevano a donare; quelli che si hanno ad adoperare in casa magis frugi esse debent.
Dirizzateli a messer Marco con un ordine che li mandi a me (...).
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L'Uccello di san Luca (il bovino alato) dal Mausoleo Galla Placidia
L'Uccello di san Luca (il bovino alato) dal Mausoleo Galla Placidia

Lettera del 16 settembre 1530 
(...) Dio facci pace all'anima di quelli peccatori, che si può dire siano morti martiri, poiché sono stati così maltrattati.
Se così è, non se ne parli più; e siate pregato quest'anno che viene ad averci un poco l'occhio, perché volo saturari carnibus eorum, poiché qui non si magna se non l'uccello di san Luca [12]; ed è la più ladra cosa che sia nel mondo.

E ricordatevi che siano grassetti, non operosi, come vi dissi per l'ultima lettera (...).
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Lettera dell'ottobre 1531 
Addio quel giovine [13]. Voi fate fatti e state cheto. Così piace alle donne.
È venuto il cane, che se non fosse peccato, direi che fosse divino. Monsignor di san Zeno vi aveva prima per quel che sete, ma adesso vi tiene per molto di più, e dove vi conosceva solo per nome e relazione di quel poverino, a cui Dio perdoni, adesso vi conosce per prova e per la vostra virtù.
Vi ringrazia e vuole tutto l'obbligo per sé (...). 
Servitor vostro.
Francesco

Affermando quanto il Berni ha scritto di sopra, non farò altre cerimonie con voi, messer Vincilao mio, che potrei dire molte cose dandomene occasione questo bel giovine che ci avete mandato; al quale ancora speriamo di avere a dar moglie per mano vostra, innanzi che venga la settuagesima, che si farà l'alleluia. 
Intanto state certo che questo è stato un presente degno dell'animo di quello che più volte mi dipinse quel poverino, la cui amara memoria fa che io interrompa qui lo scrivere, affermandovi che quel ch'è morto in lui vive in me, per quello ch'io posso, verso di voi e di tutta la casa vostra (...). 
Alli servizi vostri. L'abate di san Zeno.
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Lettera del 5 luglio 1532 
Eccovi un muratore eccellente e uomo dabbene, per il pilastro vostro e per ogni cosa.
Viene mandato da monsignore, e indirizzato a vostra signoria con ordine di fare quanto li comanderete in tutto quello che resterete d'accordo con lui.
Vedrà il lavorio, e squadrerà bene quello che ha da fare; et si res exiget che torni in qua per provvedersi di cose necessarie, che non abbi portato seco, lasciatelo tornare, chè ritornerà poi più risoluto e più stabile; e si non exiget, lasciatelo fermare, e datevi drento a far una bella fabbrica, restando prima, come dico, d'accordo seco, perché noi l'abbiamo rimesso a voi in omnibus et per omnia; et quello che voi farete aremo per rato e fermo (...).
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L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà eventuali errori contenuti in questa pagina.

Note
[1] Stanno in: Opere di Francesco Berni, Sonzogno, Milano 1928, pp. 307-313.

[2] Sul Boiani si veda: Riccardo Della Torre, Un amico del Berni. Vincislao Boiani umanista cividalese del sec. XVI, "Memorie storiche forogiuliesi", VII 1911, pp. 141-160. 

[3]-Sonetti inediti di Francesco Ruspoli, Fava, Bologna 1876, p. 5.

[4] Francesco Moneti, Della vita e dei costumi dei fiorentini, Giornale di erudizione, Firenze 1888, p. 11. Anche in ristampa anastatica: Forni, Bologna s.d.

Si veda anche il sonetto 9 di Silvio Stampiglia (1664-1725), "Eccoti, amico, un poco di prosciutto", innocuo ma con alcuni doppi sensi burchielleschi: "amico" e "fratello" indicano il membro virile, l'"osso" ovviamemente lo stesso in erezione, "ghiotto" e "gentile" stanno per "sodomita"...

[5] Una nota (in: Opere di Francesco Berni, Sonzogno, Milano 1928, p. 309) lo identifica in Marco Contarini, a cui Berni scrisse il capitolo "A Messer Marco veniziano", e che possedeva una villa vicino al luogo in cui Berni voleva incontrare Boiani.
Tuttavia fra le lettere (Ibidem, pp. 305-307), purtroppo senza data, appare anche Marco Cornaro, abate di Vidor a Padova, che a quanto si legge a p. 305 si trovava a Padova in compagnia del cardinale al cui servizio era il Berni. È uno dei tre abati Cornaro, che appaiono in: "Alli abati Cornari" del Berni (in: Francesco Berni, Rime, Rizzoli, Milano 1959, pp. 94-96), pieno di doppi sensi omosessuali.
Comunque sia, chiunque fosse anche questo "messer Marco" era della congrega.

[6] Uno dei tre abati Cornaro, precisamente Andrea Cornaro (1511-1551). 
Ricordo però che Dante in Purgatorio XVIII, 118-120, colloca fra gli accidiosi Gherardo II da Verona, abate di san Zeno, quindi l'uso di questo titolo fra amici potrebbe avere anche un tocco scherzoso.

[7] Le due composizioni latine vedile in: Riccardo Della Torre, Op. cit., pp. 146 e 147.

[8] Vedili in: Francesco Berni, Rime, Op. cit., pp. 49-51.
Le Rime sono 
disponibili online presso il "Progetto Manuzio" e presso il sito "Nuovo Rinascimento", con interessanti commenti. 

[9] "Capitolo agli signor abbati", Ibidem, p. 95.

[10] "Capitolo d'un ragazzo", Ibidem, p. 47.

[11] "Capitolo delle pesche", Ibidem, p. 34.

[12] È un'ulteriore allusione alla "carne bovina" cioè "di vacca", intendendo irrispettosamente per "uccello di san Luca" il simbolo apocalittico dell'evangelista Luca: un vitello o toro (talvolta declassato a... bue) con le ali.

[13] I commentatori ipotizzano che questo "giovane" morto o giustiziato sia il fallito attentatore alla vita di Pietro Aretino, attentatore che era un servitore del "virtuoso" vescovo Giberti (quando si dice il caso!). 
Non conosco la sorte dell'attentatore, tuttavia l'attentato ebbe luogo il 28 luglio 1524, mentre qui si parla della morte del giovane come di cosa appena accaduta. E la giustizia antica, decisamente sbrigativa, non teneva in sospeso un processo capitale per sette anni.
Ecco perché ipotizzo si possa essere trattato di un amante giustiziato per altri motivi (e non necessariamente per sodomia: i prostituti venivano dagli strati più disperati e marginali della società).
Il fatto che Berni parlando di "quel poverino" dica "a cui Dio perdoni", implica ovviamente che avesse fatto qualcosa per cui era necessario il perdono. 


Apparso originariamente in "Babilonia" n. 123, giugno 1994, pp. 71-73.
Ripubblicazione consentita previo permesso dell'autore: scrivere per accordi.

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