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Libro
II, capitolo LXI.
[Firenze,
1546]
[Cellini
ha così descritto [II
LVII] un suo garzone e modello, Vincenzo o Cencio: "Ero solo
con certi fattoruzzi [garzoni], in fra i quali ce ne era uno molto
bello: questo si era figliuolo di una meretrice chiamata la Gambetta.
Servivomi di questo fanciullo per ritrarlo, perché noi non abbiamo
altri libri che ci insegnin l'arte altro che il naturale".
Evidentemente
con Cencio Cellini aveva studiato anche anatomia maschile, e Gambetta pensò
di trarne profitto, chiedendogli o di mantenere il figlio, o di darle soldi.
Cellini la caccia insultandola…]
(...)
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Dettaglio del
"Mercurio" alla base del 'Perseo'. Si dice che per modello Cellini abbia
preso quel Bernardino Mamellini, "villanello" diciottenne che gli
curava... l'orto. [Foto G. Dall'Orto ]. |
E perché
sua Eccellenzia [il Duca] parlava continuamente e con grandissimo
favore delle mie saccenterie, il suo maiordomo, che continuamente cercava
di qualche lacciuolo per farmi rompere il collo, e perché gli aveva
l'autorità di comandare a' bargelli [ufficiali di polizia] e
a tutti gli uffizi della povera isventurata città di Firenze, che
un pratese, nimico nostro, figliuol d'un bottaio, ignorantissimo, per essere
stato pedante fradicio di Cosimo de' Medici innanzi che fussi duca, fussi
venuto in tanta grande autorità, sì come ho detto, stando
vigilante quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno
lui non mi poteva appiccare ferro addosso, pensò un modo di far
qualcosa.
E andato
a trovare la madre di quel mio fattorino, che aveva nome Cencio,
e lei la Gambetta, dettono uno ordine [si
misero d'accordo], quel briccon pedante e quella furfante puttana, di
farmi uno spavento, acciò che per quello, io mi fussi andato con
Dio.
La
Gambetta, tirando all'arte sua [agendo secondo la sua arte, da puttana],
uscì, di commessione di quel pazzo ribaldo pedante maiordomo: e
perché gli avevano ancora indettato il bargello, il quale era un
certo bolognese, che per far di queste cose il Duca lo cacciò poi
via; venendo un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne a trovare la
ditta Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l'aveva tenuto
parecchi dì rinchiuso per la salute mia.
Alla
quale io risposi che per mio conto lei non lo tenessi rinchiuso: e ridendomi
della sua puttanesca arte, mi volsi al figliuolo in sua presenza e gli
dissi: - Tu lo sai, Cencio, se io ho peccato teco - il qual piagnendo disse
che no.
Allora
la madre, scotendo il capo, disse al figliuolo: - Ahi ribaldello, forse
che io non so come si fa? - poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi
nascosto in casa, perché il bargello ne cercava, e che l'arebbe
preso ad ogni modo fuor di casa mia; ma che in casa mia non l'arebbon tocco
[toccato].
A questo
io le dissi che in casa mia io aveva la sorella vedova con sei sante figlioline,
e che io non volevo, in casa mia, persona.
Allora
lei disse che 'l maiordomo aveva dato le commessione [gli ordini] al
bargello e che io sarei preso a ogni modo; ma poiché io non volevo
pigliare il figliuolo in casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar
più di nulla, perché essendo il maiordomo tanto grandissimo
suo amico, io potevo star sicuro che lei gli arebbe fatto fare tutto quel
che allei piaceva, purché io le dessi li cento scudi.
Io
ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: - Levamiti d'innanzi,
vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo e per la innocenzia
di quello infelice figliuolo che tu hai quivi, io ti arei di già
iscannata con questo pugnaletto, che dua o tre volte ci ho messo su le
mane -.
E con
queste parole, con molte villane urtate, lei e 'l figliuolo pinsi [spinsi]
fuor di casa.
La testa di
Medusa del Perseo è, si dice, un ritratto di Cencio.
Libro
II, capitolo LXII.
[… ma
il giorno dopo fugge a Venezia a gambe levate, e torna solo dopo essersi
assicurato che il Granduca non intenda farlo processare].
Considerato
poi da me la ribalderia e possanza di quel mal pedante, giudicai che il
mio meglio fussi di dare un poco di luogo a quella diavoleria, e la mattina
di buon'ora, consegnato alla mia sorella gioie e cose per vicino a dumila
scudi, montai a cavallo e me ne andai alla volta di Vinezia, e menai meco
quel mio Bernardino di Mugello [2].
E giunto
che io fui a Ferrara, io scrissi alla Eccellenzia del Duca che se
bene io me n'ero ito sanza esserne mandato, io ritornerei sanza esser chiamato.
Di
poi, giunto a Vinezia, considerato con quanti diversi modi la mia
crudel fortuna mi straziava, niente di manco trovandomi sano e gagliardo
mi risolsi di schermigliar con essa al mio solito.
E in
mentre andavo così pensando a' fatti miei, passandomi tempo per
quella bella e ricchissima città, avendo salutato quel maraviglioso
Tiziano
pittore e Iacopo
del Sansovino, valente scultore e architetto nostro fiorentino
molto ben trattenuto dalla Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti
nella giovanezza in Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi
virtuosi mi feciono molte carezze.
L'altro
giorno a presso io mi scontrai in messer Lorenzo
de' Medici [3],il
quale subito mi prese per mano con la maggior raccoglienzia che si possa
veder al mondo, perché ci eràmo cognosciuti in Firenze quando
io facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io ero
al servizio del Re.
Egli
si tratteneva in casa di messer Giuliano Buonacorsi, e per non aver
dove andarsi a passar tempo altrove sanza grandissimo suo pericolo, egli
si stava più del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand'opere.
E sì
come io dico, per questa passata conoscenzia, egli mi prese per mano e
menòmi a casa sua, dov'era il signor Priore delli Strozzi,
fratello del signor Pietro, e rallegrandosi, mi domandorno quanto io volevo
soprastare [trattenermi
a] in Venezia, credendosi che io me ne volessi ritornare in Francia.
A'
quali Signori io dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione
sopra detta, e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a Fiorenze
a servire il mio gran Duca.
Quando
io dissi queste parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi si volsono
con tanta rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono:
- Tu faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e conosciuto;
che se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello che avevi guadagnato
in Francia, e di Firenze non trarrai altro che dispiaceri -.
Io
non risposi alle parole loro, e partitomi l'altro giorno più secretamente
che io possetti, me ne tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato
le diavolerie, perché io avevo scritto al mio gran Duca tutta l'occasione
[la ragione] che mi aveva traportato a Venezia.
E con
la sua solita prudenzia e severità, io lo visitai senza alcuna cerimonia;
stato alquanto con la detta severità, di poi piacevolmente mi si
volse e mi domandò dove io ero stato.
Al
quale io risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da Sua
Eccellenzia illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e' mi era
stato di necessità di menare un poco il mio corpo a zonzo.
Allora
faccendosi più piacevole, mi cominciò a domandar di Vinezia
e così ragionammo un pezzo; poi ultimamente mi disse che io attendessi
a lavorare e che io gli finissi il suo Perseo.
Così
mi tornai a casa lieto e allegro, e rallegrai la mia famiglia, cioè
la mia sorella con le sue sei figliuole, e ripreso l'opere mie, con quanta
sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.
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