Scorrendo un'immaginaria
raccolta dei testi che parlano di omosessualità, dal trionfo del
cristianesimo ad oggi, la prima cosa che si nota è la preminenza
dell'aspetto sessuale su quello affettivo. Di sesso si è sempre
parlato e scritto, anche nelle epoche in cui più forte era il tabù.
Ma di amore, questo
povero amore, si sente parlare solo da un secolo o giù di lì.
Colpa dell'oppressione, che
non ha lasciato spazio ai nostri amori: il sesso nudo e crudo è
il "grado zero", il livello minimo a cui si può vivere la
propria omosessualità.
Ma colpa anche della millenaria
separazione
fra mondo del sesso e mondo dell'amore, che infesta la cultura occidentale.
L'amore, si sa, è "buono"; invece il sesso è "cattivo".
Ci vuole un po' di pazienza
per scoprire dove si fosse nascosto fino a qualche decennio fa l'amore
tra persone dello stesso sesso.
Dove? Ovunque, fuorché
dove lo cercheremmo oggi. Con che tratti? Non importa quali, purché
non quelli dell'omosessualità. Si trattasse di "amicizia", "comparaggio",
"amor platonico", "amicizia spirituale", "sodalizio Romantico", "cameratismo"
o altro ancora, per millenni l'amore che non osa dire il suo nome ha vissuto
spesso indisturbato, ma sempre in incognito.
Così, quando si getta
l'amo nel mare del passato, abboccano prede a dir poco inattese. Come ad
esempio un trattato cristiano quale lo Speculum charitatis di Elredo
di Rievaulx (scritto nel 1142-1143), dal quale ho tradotto il brano
che segue [1].
Elredo
abate di Rievaulx,
monaco inglese vissuto dal 1110 al 1167, è più noto per lo
stupendo dialogo intitolato L'amicizia
spirituale
[2], testo prediletto dai gruppi dei cattolici gay. Si tratta
di uno sforzo per esprimere con concetti cristiani una teoria dell'amicizia
che partendo dai classici latini (il De
amicitia di Cicerone)
arrivi al modello di amicizia espresso da Gesù stesso.
È un'opera appassionante,
di grande fascino, la cui lettura è raccomandabile. Tuttavia, mescolando
filosofia e teologia, non è proponibile senza timori di indigestione
a tutti gli stomaci...
Fortunatamente è più
abbordabile la digressione con cui Elredo interrompe bruscamente, a metà
di una frase, il capitolo 34 dello Speculum charitatis [3].
In essa Elredo piange
con accenti strazianti la morte del monaco adolescente Simone,
suo amico.
Le tendenze omosessuali
di Elredo oggi sono
date per scontate dagli studiosi, ma credo che importi
poco dei turbamenti erotici del buon abate (anche se non è mancato
chi fondasse
un "monastero di S. Elredo" a Manila, nelle Filippine).
O se anche importasse, io
credo che importi maggiormente la meravigliosa trasfigurazione che
l'amore di un uomo per un altro uomo subisce sotto la penna di Elredo.
Il "compianto per l'amico
Simone" è in assoluto uno dei brani più toccanti della
letteratura omoerotica.
Le vibrazioni mistiche che
percorrono lo scritto, il riverbero e il continuo rimando fra l'amore divino
e quello umano (che spesso si sovrappongono), la sapienza retorica dell'autore,
ne fanno un momento di poderoso e sincero sentimento, tale
da far rimpiangere tutto l'amore che per millenni noi omosessuali non siamo
stati capaci di dare e di ricevere.
Compianto per l'amico Simone
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(fra parentesi il numero del paragrafo)
(98) Ma il dolore mi impedisce di proseguire, e mi costringe violentemente a piangere la recente morte del mio Simone.
Da qui veniva forse quell'angoscia notturna, che agitava la mia mente. Da qui quei sogni spaventosi, che mi portavano via la necessaria quiete, perché il mio amatissimo stava per essere improvvisamente rapito dalla Terra.
Né c'è da meravigliarsi, se la mia mente presagiva per mezzo di un certo turbamento la morte di lui, della cui vita godeva con tanto piacere. Ecco infatti che il timore che si agitava in me è diventato realtà, e ciò di cui avevo paura è successo.
Perché fingo? Perché taccio? Forse è per questo motivo che rimane sopra di me questa tribolazione. Giunga agli occhi, giunga alla lingua ciò che si cela nel cuore!
Se solo, se solo, oh se solo il cuore di chi ha un dolore trasudasse con le goccioline delle lacrime, e con piccole stille di parole, la sofferenza raccolta nel profondo dell'animo!
"Compatitemi, compatitemi se siete miei amici, perché la mano di Dio mi ha colpito" [Giobbe, XIX 21]. Stupitevi perché lacrimo, ma stupitevi maggiormente perché vivo. Chi infatti non si stupirà del fatto che Elredo viva senza Simone, se non chi non sappia quanto sia stato dolce vivere assieme, quanto sarebbe stato dolce tornare assieme in patria? Perciò sopportate con pazienza le mie lacrime, il mio gemito, il grido del mio petto.
(99) E del resto tu, mio amato, introdotto alla gioia del tuo Signore, pranzi gioiosamente alla mensa di quel sommo Padre, e in quel regno del Padre ti inebrii del frutto novello della vite assieme al tuo Gesù.
Sopporta tuttavia che io ti offra le mie lacrime, che ti apra il mio affetto, che riversi su te, se ciò è possibile, tutto il mio animo. Non proibire queste lacrime che la dolce memoria tua, mio carissimo fratello, fa scorrere.
Non ti pesi questo gémito, che non è provocato dalla disperazione, ma dall'amore, e non frenare queste lacrime, causate dalla pietà, non dalla mancanza di fede.
E certamente se ricordi in che luogo tu sia giunto, ciò da cui sei fuggito, dove hai lasciato quel tuo amico, vedrai senza dubbio quanto sia giusto il mio dolore, quando sia da compiangere la mia piaga. Perdonami dunque, e lasciami piangere un pochino il mio dolore.
Mio, ho detto, mio; infatti non va pianta la tua morte, che è stata preceduta da una vita tanto lodevole, tanto amabile, tanto gradita a tutti.
(...)
(104) Per te, mio amato fratello, per te mi compiaccio, ma per me soffro. Tu devi gioire, io sono da compiangere, perché posso vivere ancora senza Simone.
Mi meraviglio però che si possa dire che io vivo, ora che mi è stata portata via una parte tanto grande di me, un sollievo tanto dolce del mio viaggio, un sollievo così unico della mia miseria.
Quasi strappate dal corpo sono le mie viscere, quasi dilaniata la mia infelice anima. E si dice che vivo? O vivere miserabile, o vivere da compatire, il vivere senza Simone. Pianse suo figlio il patriarca Giacobbe, pianse suo padre Giuseppe, pianse il santo Davide il suo carissimo Gionata. Tutte queste cose fu per me da solo Simone. Figlio per età, padre per la santità, amico per la carità.
Piangi perciò, infelice, il tuo carissimo padre, piangi l'affezionatissimo tuo figlio, piangi il dolcissimo tuo amico. Cédano le chiuse della mia misera testa, versino gli occhi lacrime di giorno e di notte. Piangi, dico, non perché lui è stato rapito, ma perché tu sei stato lasciato qui. Padre mio, fratello mio, figlio mio, chi mi darà di morire assieme a te?
(...)
(106) La mia anima desidera godere degli abbracci di Cristo assieme a quella sua parte, ma lo impedisce la mia debolezza, lo impedisce la mia iniquità, lo impedisce anche la divina Provvidenza. Certo, lui che era pronto entrò con lo Sposo alle nozze, ma per me miserabile finora la porta è rimasta chiusa. [Cfr. Matteo, XXV 10].
Magari, Signore Gesù, magari si aprisse un giorno! Spero tuttavia nella tua misericordia, Signore, perché infine mi sia aperta. Ho mandato avanti a me le mie primizie, ho mandato avanti il mio tesoro, ho mandato avanti una parte non piccola di me stesso. Verrà in séguito da te quel che avanza di me. "Dove è il mio tesoro, lì sia anche il mio cuore". [Cfr. Matteo, VI 21].
(...)
(109) Ecco quel che ho perduto, ecco quel che ho smarrito. Dove sei andato, o esempio per la mia vita, regola dei miei costumi? Dove sei andato, per dove sei partito? E io che farò? Dove andrò? Chi mi proporrò come modello? Come sei stato strappato dai miei abbracci, sottratto ai miei baci, tolto ai miei occhi?
Io ti abbracciavo, fratello amato, non con la carne, ma col cuore. Ti baciavo, non con il contatto delle labbra, ma con l'affetto della mente. Io ti ho amato, tu che fin dall'inizio della mia conversione mi hai preso come amico, che ti sei dimostrato con me intimo più di chiunque altro.
(...)
(112) Ma com'è stato, anima mia, che hai assistito così a lungo a quel dolce funerale senza lacrime? Com'è che hai congedato quel corpo da te amato senza baciarlo?
Soffrivo, misero, e gemevo e dal profondo dell'animo traevo lunghi sospiri, e tuttavia non piangevo. E comprendevo talmente bene che avrei dovuto piangere, da non accorgermi neppure di essere addolorato, pur essendo vivamente addolorato. Di questo mi accorsi solo più tardi.
Infatti lo shock aveva talmente invaso la mia mente, che persino quando il cadavere fu denudato per essere lavato, ancora non credevo che fosse morto.
Mi stupivo infatti che lui, che avevo legato a me con strette catene di un dolcissimo amore, all'improvviso fosse sfuggito dalle mani. Mi stupivo che quell'anima che era una cosa sola con la mia, potesse sciogliersi senza la mia dai legami del corpo.
Ma già ha ceduto quello stupore all'affetto, ha ceduto al dolore, ha ceduto alla compassione. Ora che fate, occhi miei, che fate? Vi prego, non abbiate riguardi, non dissimulate. Offrite come esequie del mio amato tutto ciò che avete, tutto ciò che potete.
Perché arrossisco? Sono forse il solo a piangere? Guardate quante lacrime esistono per ogni dove, quanti gemiti, quanti sospiri! E forse queste lacrime vanno rimproverate? Ma ci scusano le tue lacrime, Signore Gesù, quelle che hai sparso per la morte del tuo amico [Lazzaro. Cfr. Giovanni, XI 36], lacrime che esprimevano veramente il nostro sentimento, ma al tempo stesso lasciavano capire la tua carità.
Hai indossato, Signore, le passioni della nostra debolezza, ma solo quando hai voluto; per questo potevi anche non piangere.
O quanto sono dolci le tue lacrime, quanto soavi! Che dolce gusto hanno per l'ansia della mia mente, e quanto consolano! "Ecco", dicevano, "in che modo lo amava". Ed ecco in che modo il mio Simone era amato da tutti, era abbracciato da tutti, da tutti accarezzato.
Ma forse ora alcuni giudicano sfrontate le mie lacrime, stimando eccessivamente carnale il mio amore. Le interpretino come vogliono, ma tu, Signore, vedile, guardale.
Gli altri vedono ciò che accade al di fuori, ma non fanno caso a quel che patisco dentro di me. Qui vedono i tuoi occhi, Signore.
(...)
(113) Nessuno fra gli uomini sa che succeda dentro l'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è dentro quel corpo. Il tuo occhio però, Signore, penetra fino alla divisione fra l'anima e lo spirito, ed anche fra le articolazioni e le midolla, ed è capace di distinguere i pensieri e le intenzioni del cuore. E come dice un tuo ottimo servo, "guai anche alla vita lodevole degli uomini, se sarà giudicata lontana dalla pietà".
Ecco, Signore, da dove viene la mia paura, ecco da dove vengono le lacrime. Dai loro retta, o piissimo, dolcissimo, misericordiosissimo.
Accoglile, o unica speranza mia, unico e solo rifugio mio, scopo della mia intenzione, Dio mio, misericordia mia.
Accoglile, Signore, sacrificio che ti offro per il mio amico amatissimo, e se fosse rimasta nel suo animo qualche macchia, ignorala, o addébitala a me.
Io, io sia percosso, io sia frustato, io paghi: basta soltanto, ti prego, che non gli nasconda il tuo beato viso, che non lo privi della tua dolcezza, non ritardi a dargli la tua pia consolazione.
L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà eventuali errori contenuti in questa pagina. |
Note
[1] Elredo di Rievaulx, Speculum charitatis, testo latino nel Corpus Christianorum, vol. 1, pp. 5-161.
Traduzione italiana come: Lo specchio della carità, Edizioni paoline, Milano 1999.
[2] Ne esistono diverse traduzioni italiane, anche online:
Aelredo di Rievaulx, L'amicizia spirituale, Cantagalli, Siena 1982 (con antologia dallo Speculum caritatis);
Aelredo di Rievaulx, L'amicizia spirituale, Edizioni Paoline, Milano 1996 (a cura di don Domenico Pezzini);
Aelredo di Rievaulx, L'amicizia spirituale, Città Nuova, Roma, 1997.
Il testo latino, oltre nella "classica" edizione della Patrologia Latina, si trova ora anche come De spiritali amicitia nel Corpus Christianorum (Continuatio Mediaevalis), vol. 1, pp. 287-350.
Sono attualmente online sia il testo latino, sia una traduzione italiana di quest'opera.
[3] Una bella traduzione di questo capitolo è in appendice al volume della Cantagalli già citato. |