Home page Giovanni Dall'Orto > Scritti di cultura gay > Può esistere una "cultura omosessuale"?

OMOSESSUALITÀ E CULTURA
Può esistere una "cultura omosessuale"?

[Da: Giovanni Delfino (a cura di), Quando le nostre labbra si parlano, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, pp. 47-56.]

Di: Giovanni Dall'Orto

Copertina degli atti del convegno
Copertina degli atti dell'iniziativa.


[Nota del 2004.
Questo testo è la trascrizione d'una conferenza, facente parte di un ciclo dedicato alla presenza omosessuale nella cultura (all'epoca se ne facevano... altri tempi!) intitolato "Quando le nostre labbra si parlano", organizzato da Giovanni Delfino a Genova dal 27 febbraio al 28 maggio 1984. La trascrizione fu rivista prima della pubblicazione (si spiega così il riferimento all'Aids, di cui nel 1984 in Italia nessuno parlava). Ho deciso di lasciarlo com'era, senza aggiornarlo (avrò fatto una dozzina di ritocchi in tutto), per mantenergli il carattere di "documento d'epoca". Della serie: "Come eravamo, e come parlavamo"...

Per quanto sia divertente rileggersi a distanza di vent'anni, e scoprirsi a citare "celebri intellettuali" che oggi sono totalmente dimenticati, non è invece divertente scoprire che, a parte gli elementi legati alle mode (culturali e non) la situazione descritta è la stessa. I termini del dibattito sono ancora gli stessi e, cosa ancora più agghiacciante, in parte lo sono anche i protagonisti... (per dare un'idea di quali fossero le argomentazioni contro cui combattevo con questo testo, ho messo online qui un'intervista apparsa l'1/7/1984, su "L'Unità").
L'unica differenza è che oggi nessuno ricorda più il ruolo dell'interazionismo simbolico nella nascita di ciò oggi non si chiama più "costruzionismo storico" bensì "queer theory", e che il nome di Kenneth Plummer, un must read dell'epoca, è ormai dimenticato, sostituito da Foucault. Tutto qui.
Vent'anni per questo?

In Italia non abbiamo fatto grandi passi avanti rispetto ad allora, nonostante gli sforzi individuali di molte persone. E non solo per la crisi dell'Aids, che in quegli anni monopolizzò l'attenzione e le energie di tutti (anche le mie: c'erano vite da salvare, la riflessione sulla cultura poteva aspettare...). La crisi acuta però durò solo qualche anno, diciamo anche cinque... ma dopo?

O forse sono io ad essere troppo pessimista perché, come tutti coloro che hanno passato i quarant'anni, comincio ad avere "un grande futuro dietro di me"?
A ben vedere, per dirne una sola, oggi c'è Internet: uno strumento di comunicazione che nel 1984 non avremmo sognato nemmeno nei nostri sogni più rosei.

Tant'è che Internet ha reso possibile a me questo sito, e a tutti il sito Culturagay.it.
Ci abbiamo messo venticinque anni per riuscire ad avere una cosa del genere... però adesso c'è.
E scusate se è poco].

fregio spaaziatore

Nel prepararmi a questo incontro sulla "cultura omosessuale", avevo pensato di cominciare dando una definizione del tema da trattare, per poi esemplificare i campi a cui può essere applicato.
Con una certa sorpresa mi sono tuttavia reso conto del fatto che, nonostante l'espressione "cultura omosessuale" sia ormai usata perfino da quanti rifiutano concetti molto simili (come quello di "letteratura omosessuale"), tutti lo adoperano dando per scontato che si sappia già cosa vuol dire, ma nessuno ha mai cercato di definirlo chiaramente.

Per questa ragione il mio intervento non sarà focalizzato su quelle che sono, concretamente, le manifestazioni della "cultura omosessuale", ma si sforzerà di colmare almeno in parte questa lacuna. In questo modo spero di contribuire utilmente al dibattito in corso.


Inizierò cercando di dare un'idea schematica di quelle che attualmente sono le tendenze di ricerca principali.

Due sono sostanzialmente le posizioni che si fronteggiano nel dibattito sulla "cultura omosessuale", e questioni connesse.


La prima è quella che si è vista emergere anche nel movimento gay italiano negli anni di maggior politicizzazione, e che definirei dello "specifico omosessuale".
 
Il volantino dell'iniziativa (1984)
Il dépliant dell'iniziativa di Genova.
Secondo tale impostazione, esisterebbe nella storia umana un filo rosso che lega, secolo dopo secolo, tutti quanti gli omosessuali che hanno fatto cultura, marcandone l'opera con una sensibilità, un modo di porsi nei confronti della vita, un tipo di atteggiamento verso le convenzioni sociali, che sono peculiari.
Ciò costituisce appunto lo "specifico omosessuale" ossia quello che si trova negli autori omosessuali e solo in loro, anche quando nelle loro opere cerchino di non dare a intendere di essere "diversi".

A favore di tale impostazione si potrà citare l'esperienza diffusissima, che credo abbiano fatto tutti i gay, di trovarsi di fronte ad un libro, ad un quadro, e pensare (azzeccandoci): "Secondo me l'autore non può che essere omosessuale".
Perché càpita di pensarlo? Quasi sempre per un elemento non definibile a parole: non tanto per un indizio preciso quanto per una sensibilità diffusa, per la sensibilità dell'insieme, per un certo modo di dipingere un nudo, o di scrivere di amicizia, o di solitudine...

Nel corso del mio lavoro di ricerca mi sono trovato mille volte di fronte a questa situazione. Dopo un po' che si studia la letteratura che parla di omosessualità si comincia ad avere una specie di campanello d'allarme, che suona quando ancora non si è trovato nulla che, a livello cosciente, apparentemente giustifichi un sospetto del genere. È una specie di "rabdomanzia intellettiva", che dice dove vale la pena di scavare.

Questa esperienza è comune a moltissimi omosessuali: ci deve dunque essere un elemento che viene riconosciuto dal lettore o dallo spettatore "allenato".
Di che si tratta?
Io non saprei definirlo con precisione; tuttavia Hans Mayer nel suo libro I diversi ha fornito dati utili per una risposta in tal senso.
Secondo lui la "letteratura omosessuale" si distingue per una certa convenzionalità nel trattare personaggi di sesso opposto a quello dello scrittore, per una certa sensibilità camp, per un'esaltazione dell'amicizia e del sodalizio fra persone dello stesso sesso.

Più di recente il lavoro di Vita Fortunati ha contribuito a gettare altra luce sulla questione. Ad esempio, parlando di Radclyffe Hall nel libro Come nello specchio, ha analizzati i topoi di quello che chiama "l'autobiografismo omosessuale".
Per la Fortunati il "romanzo omosessuale" (con questo termine viene però da lei definito solo quello esplicitamente tale) si configura come un viaggio alla ricerca della propria identità, con una topologia ricorrente: in particolare appare come una costante il tema della solitudine.

Tutto questo è ancora troppo poco per essere considerato come una "prova" dell'esistenza dello "specifico omosessuale".

Eppure Allen Ginsberg ha dichiarato in un'intervista di aver capito che Federico García Lorca era omosessuale leggendo un suo verso che diceva: "Il sole che canta sugli ombelichi di ragazzi che giocano a baseball sotto i ponti", perché "un'immagine di tale bellezza erotica rivela immediatamente ciò che il poeta provava".

E anche questa potrebbe essere, in un certo senso, una risposta all'enigma.


Dall'altro lato del dibattito troviamo la posizione cosiddetta della historical construction of homosexuality, la "costruzione storica dell'omosessualità ", che ha preso le mosse da un gruppo di sociologi di Essex (soprattutto Kenneth Plummer) e facendo proprie molte "parole d'ordine" del Foucault di dieci anni fa.

La parte più interessante di questo approccio è indubbiamente quella che sottolinea il carattere storicamente dato, storicamente determinato, non solo del nostro modo di essere omosessuali, ma addirittura della condizione di "omosessualità" in sé e per sé.
Per questi studiosi l'"omosessuale" come figura umana è una "costruzione storica", è un'invenzione sociale degli ultimi due secoli.
Non esiste l'omosessuale: chi si definisce tale lo fa perché ha ricevuto dalla società un modello d'identità, e di comportamento sessuale, che ritaglia arbitrariamente, dal continuum della sessualità umana, una sola parcella, un solo modo di essere.
Con un approccio che John Boswell (un aficionado dello "specifico omosessuale") ha definito "nominalista", questi studiosi sostengono che gli omosessuali esistono solo perché la nostra società ritiene che esista una cosa che si chiama "omosessualità", e non il contrario.

John Boswell (1947-1994)
John Boswell (1947-1994).

Ciò pone ovviamente una seria ipoteca negativa sulla possibilità di parlare di "cultura omosessuale".

A favore di questa impostazione va citato il fatto che finora non si è mai riusciti a dimostrare che esistesse un'autocoscienza omosessuale prima del 1500.
Attualmente è in corso un dibattito acceso, proprio per definire i limiti temporali di questa "costruzione storica" (ed io sono fra coloro che ritengono che i tratti dell'"omosessuale" siano riconoscibili molto prima di quanto dicano Plummer e gli altri), ma il problema non è contrattare per un secolo in più o un secolo in meno.
Il problema è stabilire se gli omosessuali costituiscano un gruppo umano a sé, e se lo siano da un numero d'anni sufficiente per elaborare addirittura una "sottocultura".

Certo, neanche questa impostazione di ricerca va esente da peccati: a mio parere seguendo fino in fondo tale strada, alla ricerca di "cesure epistemologiche", si rischia di perdere di vista la continuità che esiste nella storia, si rischia di non fare più colloquiare l'uno con l'altro i secoli, e trattare come marziani coloro che in definitiva sono i nostri antenati.
Si rischia cioè di dimenticare il fatto banalissimo che ogni generazione umana esce, letteralmente, dal ventre di quella precedente, che le radici di ogni nostro concetto stanno nel nostro passato, e che quindi è fatale che anche in passato certi nostri punti di vista siano stati proposti nello stesso nostro modo, oppure in modo analogo.


Tuttavia credo che questa impostazione ci abbia insegnato la prudenza, per evitare l'imposizione delle nostre categorie mentali e del nostro modo di essere agli autori antichi.

È un po' la questione, per capirci, di due uomini che si baciano per strada. Sono due omosessuali? A tutta prima saremmo portati a dire di sì. Ma se poi andiamo a controllare scopriamo che sono in realtà due fratelli che si rivedono dopo dieci anni.

Ecco, il non tener conto del significato sociale di certi gesti, di certi modi di esprimersi porta a grossi errori di prospettiva. Gli stessi gesti, gli stessi comportamenti, hanno significati sociali e soggettivi diversi e spesso inconciliabili in epoche diverse. È evidente quanto sia rischioso cercare la "sensibilità omosessuale" nel passato.

Plummer, che è un sociologo interazionista, sottolinea che i significati sociali e soggettivi d'un fenomeno come la "omosessualità", sono il frutto di una continua "contrattazione" (bargaining), di una continua interazione fra il singolo e la società. Non è possibile trattare "in assoluto" del comportamento omosessuale, perché anche la sola definizione di ciò che è sessuale varia di secolo in secolo e di situazione in situazione.

Kenneth Plummer.
Kenneth Plummer.

Plummer fa questo esempio: un uomo che tocca i genitali di una donna è o non è coinvolto in quella che noi definiremmo come situazione "sessuale"? Noi saremmo portati a rispondere di sì. Ma se quest'uomo fosse un ginecologo...?
E per una donna il farsi penetrare da un uomo ha un significato soggettivo "sessuale"? Noi diremmo di sì. Ma se questa donna fosse una prostituta...?

Non insisto sulla questione, ma credo di avere dato almeno un piccolo saggio della ricchezza di stimoli e di questioni che entrambi gli approcci pongono sul tavolo in questo momento.


Arrivati a questo punto, ci rendiamo però conto di non avere ancora detto niente di quello che potrebbe concretamente essere una "cultura omosessuale".

E qui sta il problema. Una delle difficoltà maggiori che si hanno al momento è stabilire in modo chiaro e preciso cosa può rientrare in questo nuovo concetto.

Categorie troppo vaste ed onnicomprensive non servono a nulla: più il nostro campo d'intervento è chiaramente delimitato, più possiamo sperare di ottenere risultati chiari ed univoci.
Purtroppo ci troviamo un po' nella situazione di chi cerca di disegnare nel bel mezzo di un terremoto. Ogni volta che cerchiamo di dare una definizione corretta ed il più possibile empirica di quello che si potrebbe chiamare "cultura omosessuale", ci scontriamo con reazioni che dicono che non solo non esiste nulla del genere, ma che non potrà mai esistere, e che il nostro sforzo non ha senso, eccetera. Così, prima ancora di definire il campo che studiamo, dobbiamo batterci, come sto facendo io in questo momento, per giustificare teoricamente il fatto che esso può esistere.

Se gli intellettuali di professione accettassero almeno a livello di ipotesi di lavoro l'idea di una "cultura omosessuale", si potrebbe lavorare serenamente a una verifica in un certo senso "sperimentale"; si potrebbe dire: "Ebbene, vediamo se il riscontro dei testi ci dà ragione o torto". Ma purtroppo qui la battaglia è squisitamente ideologica, e non culturale.

La decisione di accettare o negare l'esistenza di una "cultura omosessuale" non ha nulla a che fare con una sua reale esistenza o non esistenza.

Pensiamo solo a come è stata accolta dalla stampa questa iniziativa genovese: col silenzio, l'ostracismo, addirittura con ironie. Non ci si è neppure preoccupati di venire a sentire se dicevamo stupidaggini o meno: la condanna era già pronunciata prima ancora che noi si aprisse bocca.
Queste non sono "opinioni culturali": si tratti di pregiudizi belli e buoni. Con buona pace della pretesa "neutralità" della cultura.


Nonostante le resistenze che nascono dal pregiudizio, io penso però che questo concetto sia utilissimo, perché richiama l'attenzione su quello che molte persone hanno in comune fra loro, piuttosto che di diverso dagli altri.

Esso mi permette di fare un'analisi sulla base di criteri interni alla logica che muove la vita di queste persone, e non sulla negazione della logica che muove la vita dei "normali".

Voglio dire che il cercare di capire cosa possano avere in comune gli omosessuali mi pare un approccio più positivo, più rivoluzionario del semplice limitarsi a cercare solo quello che hanno di stridente, di incompatibile, di repellente rispetto al mondo eterosessuale.
È un modo per uscire dall'eterna psicopatologia del "diverso", e per far capire come i nostri fili, anche se di colore diverso, sono stati da sempre tessuti assieme a quelli di tutti gli altri per formare un'unica tela, un'unica Cultura a cui tutti apparteniamo.

È per questa ragione che ora voglio proporre un tentativo di definizione - che per forza di cose deve essere preso come una semplice ipotesi di lavoro sulla questione.

Io definirei "cultura omosessuale":
 

il contributo dato alla cultura occidentale da tutto ciò che è stato prodotto da quegli individui omosessuali che si rendevano conto di essere "diversi", in seguito alla sperimentazione della "diversità".

In questo "contributo diverso" alla cultura occidentale individuerei almeno tre elementi.

  • Il primo è ovviamente l'elemento del "vissuto", cioè di "cultura" intesa nel significato che a questa parola dà l'antropologia culturale.

  • Sono i gesti, le esperienze umane, le credenze, le mentalità, il gergo, le nozioni comuni ad una minoranza.
    È l'espressione sottoculturale di una aggregazione fra individui "diversi" sulla base della loro "diversità". Di questa aggregazione esistono prove sicure a partire dall'inizio del Settecento, ed esistono indizi (ancora in corso di studio) di una sua possibile esistenza già nel Medioevo.

    Come tutte le sottoculture, anche questa è in grado di produrre un tipo peculiare di sensibilità nei confronti della vita (che non è innata bensì appresa, e quindi varia di secolo in secolo), di percezione del mondo, di modo di considerarsi, di stile di vita.
    Il caso più eclatante di tale elaborazione è certo il camp, quel tipico atteggiamento che mescola ironia, esagerazione, grottesco distacco dalla realtà "normale", e che è un modo per "disinnescare" gli elementi più sgradevoli della vita.
    Nelle manifestazioni esteriori di "eccesso di zelo", il camp è cugino del kitsch, con la differenza che il secondo cade nel "cattivo gusto" per incapacità di citare il linguaggio "alto" della società, mentre al camp questo succede per la sostanziale non-volontà di farlo.
    Il suo scopo è infatti la ridicolizzazione delle convenzioni sociali; il mezzo che usa per raggiungere lo scopo è appunto l'eccesso di zelo, il prenderle troppo sul serio, esagerando, applicandole maniacalmente, meglio se alla rovescia (per esempio con il travestitismo).

    Ma la micro-società della sottocultura ha funzionato anche - soprattutto nell'ultimo decennio - come "laboratorio di sperimentazione" (per dirla con Foucault) su quanto riguarda i ruoli e le pratiche sessuali, i modi di socializzare "fra maschi" e "fra donne", le relazioni di potere nelle dinamiche sessuali, gli stili di vita alternativi alla famiglia eterosessuale...

    Tutto questo è elaborazione culturale, e prima o poi arriva ad influire (poco, o molto) sulla società eterosessuale.

    Forse il campo in cui questo influsso è più immediatamente visibile è quello delle mode: la moda leather, la moda disco sono "partite dalla" (e non, "arrivate alla") sottocultura omosessuale...




    Certo, un tentativo di definizione come quello che ho appena proposto non è affatto esente da contraddizioni, che derivano dal voler semplificare e ridurre a un ordine una questione che attualmente è intricatissima, e dall'avere a che fare con concetti che sono in un certo senso ancora magmatici, "allo stato fluido", e cambiano caratteristiche di anno in anno.
    Lo stesso concetto di "omosessualità" subisce un'evoluzione vorticosa che di decennio in decennio aggiunge nuove qualificazioni senza eliminare quelle vecchie, facendo così convivere bellamente concetti assolutamente inconciliabili fra loro.

    Il "gay" di oggi non è più l'"omofilo" di dieci anni fa, né l'"omosessuale" di quarant'anni fa, né l'"invertito" d'inizio secolo, né tanto meno il "sodomita" dei secoli passati.
    E se prendiamo a caso quattro persone in Italia, scopriamo che anche se parlano tutte di "omosessuali" in realtà pensano a figure umane diversissime. Un napoletano penserà al "ricchione", un militante al "gay", un prete al "sodomita", mentre la signora che "si tiene informata" attraverso "Gente" saprà che vuol dire "ammalato".

    In questa situazione caotica e proteiforme ci troviamo a costruire sulle sabbie mobili: ogni anno fa crollare quello che si era costruito l'anno precedente.
    Per uno studioso questa può essere una situazione molto esaltante o molto frustrante, a seconda del fatto che poi alla fine si trovi ad avere costruito qualcosa di "perfetto", o ad avere distrutto senza costruire nulla.
    Io temo che oggi siamo più vicini alla seconda che alla prima ipotesi, e sono abbastanza stufo di dover ridefinire ogni sei mesi cosa vuol dire o non vuol dire "omosessuale", sulla base dell'ultima moda cultural-sessuologica che mi arriva dalla Francia o dall'America.

    In questo senso il concetto di "cultura omosessuale" può avere un'ulteriore virtù taumaturgica: costringere a mettere una volta per tutte le carte in tavola a proposito di quel che si intende con la parola "omosessualità", togliere spazio al "si sa" al "si dice" o all'ipse dixit, per obbligare a un approccio finalmente documentato alla realtà di vita dell'omosessualità. [Nota del 2004: pia illusione...]

    Ciò non toglie che i concetti che fanno da corollario a quello di "cultura omosessuale" soffrano della sua stessa incertezza, e siano impacciati dal peso che ha ancora il pregiudizio.
    Ad esempio, cosa vorrà dire, a sua volta, il concetto di "sensibilità omosessuale"? Forse sdolcinatura? Camp? Lagnosità?
    Se è piuttosto facile definire una "sensibilità omosessuale" in uno scrittore che fa volutamente penetrare il camp nel suo lavoro, dove lo collochiamo un Gadda: dentro o fuori la "sensibilità omosessuale"? E un Palazzeschi? E un Pasolini?

    A seconda dell'opinione (più o meno stereotipata) che noi abbiamo dell'omosessualità, daremo una definizione diversa del concetto di "sensibilità omosessuale".
    Ad esempio, se non ci saremo emancipati dallo stereotipo dell'omosessuale effeminato e scheccante, difficilmente riusciremo ad accettare l'idea che una "sensibilità omosessuale" possa esistere anche fra quegli omosessuali che non corrispondono ad esso.
     
    Carnevale Usa, anni Settanta: un travestito e un marinaretto
    Carnevale Usa, anni Settanta: un travestito e un marinaio, entrambi molto camp.

    Pensiamo ad esempio alla "scena leather", apparentemente così estranea a una "sensibilità omosessuale" com'è comunemente intesa.
    Ma non può forse darsi che anche il leather sia un modo nuovo, più "moderno", di esprimere una sensibilità antica, cioè una volta di più proprio il camp, che fin qui eravamo abituati a vedere associato con la sottocultura effeminata?
    Siamo sicuri che la sottocultura macho non esprima un tipo di sensibilità che anche se in apparenza si integra perfettamente ai comportamenti esteriori della società eterosessuale, in realtà è (almeno in parte) inconciliabile con essi, ed esprime una sua sensibilità, una sua cultura (in senso antropologico)?
    L'omosessuale adotta, sì, la camicia da rozzo cow-boy per non sembrare "omosessuale", ossia per liberarsi da un'immagine stereotipata, ma poi - è più forte di lui - la modifica per renderla più attillata, più sexy...
    E così ne fa qualcosa che non era prima.
    Aggiunge un requisito che non faceva parte delle esigenze di chi quel tipo di camicia ha creato o voluto in origine, interpreta attraverso il filtro di una sua visione del corpo maschile...

    L'aspetto altamente ritualizzato che aveva assunto la sottocultura leather prima che l'Aids le infliggesse un serio colpo, dimostrava ormai un ironico distacco dai "fantasmi" virili che ne sono stati l'origine.
    La camicia da cow-boy, partita come feticcio, è così diventata un'uniforme, che può essere fruita in entrambi i modi, anche contemporaneamente, se si vuole.
    La percezione di un aspetto piuttosto che dell'altro è immediatamente reversibile, in qualsiasi momento; viene così a cadere il valore "assoluto" del simbolo (cow-boy = virilità).
    Siamo sempre nell'area dell'ironia, del distacco dalla realtà vissuta, cioè di una delle componenti più chiare del camp.
    Ci si adatta a recitare un ruolo che la società considera un assoluto, però con la coscienza del fatto che si tratta di una recita, un vestito esteriore che si può togliere e mettere a seconda di quello che fa più piacere.
    E anche questo si ritrova, tale e quale, nel più puro atteggiamento camp.

    Non insisterò oltre su questo esempio, ma spero di avere spiegato come, a  volte, solo il pregiudizio ci impedisce di vedere in modo chiaro gli elementi costitutivi per così dire "onnipresenti" nell'esperienza omosessuale, che sono poi i mattoni della "sensibilità gay".


    spaziatoreBallerino inizio secolo XX
    Qui potete osservare una tipica "PERZONA" che NON si definisce gay, perché "Cioè, compagni, ddefinirzi è zempre 'nppo' llimitarzi". [Archivio G. B. Brambilla].

    Con questa conclusione potrei aver terminato il mio intervento, se non fosse per un'ultima difficoltà.

    In un Paese profondamente segnato dal neoidealismo come l'Italia, un paese in cui, quando si parla di cultura, anche i marxisti ragionano da crociani, la pietra di paragone di ogni discorso culturale ed artistico sembra ancora essere, purtroppo, la sua "Universalità", la sua vicinanza all'"Assoluto".
    Càpita così sovente di sentirsi dire che non ha senso parlare di "letteratura", o di "poesia" omosessuale, perché anche se esistessero non sarebbero "Universali", non sarebbero "Assolute".

    Ora, in un'epoca in cui ormai sappiamo che tutto è relativo, solo la "cultura" avanza ancora pretese di universalità, al di sopra della storia, del tempo, dei popoli, delle classi sociali... di tutto.
    Non sarò certo io a smantellare qui, sui due piedi, un modo di pensare che è tenacemente radicato, tuttavia voglio almeno puntare un dito sulla pretestuosità di tale argomentazione per quanto riguarda il discorso omosessuale.

    La mia tesi è presto detta: non ha senso sostenere che qualificare di "omosessuale" un autore o un'opera è "limitante", "non-universale", e ciò per il semplice fatto che l'omosessualità è un'esperienza universale.

    Credo di non aver detto nulla di nuovo o sconvolgente con questa affermazione: oggigiorno chiunque mastichi appena un po' di Freud è disposto ad ammettere la "bisessualità originaria" di ogni essere umano.
    Ma se la teoria è ormai accettata da quasi tutti (ormai non la contestano più nemmeno i preti…) le sue conclusioni pratiche fanno ancora paura, molta paura. Perché la maggior parte delle persone è disposta, oggi come oggi, ad ammettere la bisessualità originaria... degli altri: la propria, invece, genera ancora panico.

    Ebbene, io sostengo che è proprio questo che si ha paura di scoprire parlando di "cultura omosessuale", cioè che anche un eterosessuale cova dentro di sé i sentimenti e le passioni che animano un omosessuale e le sue opere (letterarie, o d'altro tipo).
    Qui crollano le barriere, non c'è più diversità fra i "normali" e i "diversi", signora mia: è uno scandalo! È come se allo zoo si segassero le sbarre delle gabbie: quegli stessi animali che inscatolati nella loro cella apparivano "carini" ed "affascinanti", farebbero solo paura, provocherebbero il panico.

    Rivendicare la specificità della nostra cultura, rivendicare come nostri gli uomini e le donne che hanno contribuito a fare crescere non solo gli eterosessuali, ma anche noi omosessuali: tutto questo fa paura, perché la società è disposta a riconoscere la nostra "diversità" solo a patto che sia inconciliabilmente tale, solo a patto che la linea di demarcazione fra il "normale" e il "diverso" sia netta e invalicabile.
    A patto che accettiamo di essere inscatolati in una gabbia.

    Un romanzo potrà quindi essere "omosessuale" solo a patto di essere rivolto esclusivamente ad una minoranza inconciliabilmente diversa dalla maggioranza "normale", e cioè a patto di essere un "sottoprodotto".

    Così definita, è ovvio che una simile etichetta sarà non solo "limitante", ma addirittura "parrocchiale".
    Secondo questa mentalità, Proust non potrà mai essere definito "scrittore omosessuale", e ciò perché la sua opera piace anche ai padri di famiglia per bene. Non è concepibile che una persona "normale" ami le stesse cose di una persona "anormale": ammetterlo vorrebbe dire accettare l'idea che, dopo tutto, fra le due condizioni non c'è molta differenza.

    L'alternativa (completamente fittizia) che ci viene offerta oggi, è insomma quella fra lo scrivere per la propria parrocchia senza guardare al di là del proprio naso, oppure come dio (cioè la maggioranza eterosessuale) comanda.

    L'ipotesi più logica, che è quella che rispecchia maggiormente la realtà, non passa mai per la mente dei nostri virtuosi intellettuali: uno scrittore può essere al tempo stesso un esponente della cultura omosessuale e della cultura tout-court, proprio come può essere contemporaneamente un esponente della cultura ebraica e di quella occidentale.

    E una verità lapalissiana, banale, perché ciascuno di noi omosessuali è già inserito, vive, lavora nel contesto della società eterosessuale, che non per questo funziona peggio, o in modo più "limitato".


    Una volta di più, insomma, il pregiudizio interferisce con la nostra ricerca di chiarezza.

    "Curiosamente" la qualifica di "Universale" viene infatti attribuita o alle opere che hanno l'etichetta di "garantito eterosessuale", oppure ad opere omosessuali che abbiano rinunciato a qualsiasi pretesa di farsi definire come tali.
    Chi ha mai sentito un autore od un critico dire: "Questo romanzo non ha nulla a che spartire con l'eterosessualità"? Invece abbiamo maree di autori e critici che si affannano a spiegarci che quel dato romanzo non è affatto "omosessuale", che le poesie di Penna non sono "omosessuali" ma "universali" (Cesare Gàrboli non ha sostenuto altro che questo per tutta la sua vita di critico penniano), o scrittori omosessuali che strillano istericamente che loro non sono scrittori omosessuali ma scrittori e basta... ecc.

    Il trucco sta nel fatto che nella nostra società per essere eterosessuali non c'è bisogno di fare nulla: fino a prova contraria lo si è automaticamente.
    L'omosessualità invece, in quanto "deviazione", "variazione", ha bisogno di gridare ad alta voce il suo nome per essere riconosciuta.
    Ne consegue che un'opera può essere eterosessuale fino alla nausea senza mai bisogno di dichiararlo, mentre un'opera omosessuale può esserlo solo se rivendica questa etichetta, cosa che, per ragioni di cassetta, gli intellettuali normalmente si guardano bene dal fare.

    Finché gli eterosessuali possono leggere o ammirare le opere che fanno parte della cultura omosessuale, senza per questo sospettare o ammettere di stare entrando in "simpatia", in "sintonia" con l'animo di un "pervertito" (e quindi d'essere in potenza "pervertiti" anche loro) tutto va bene.
    Ma se li si porta a toccare con mano il fatto che, se si canta Lauro anziché Laura la qualità del sentimento non cambia (mentre cambia l'esperienza sociale che da tale sentimento deriva, perché per aver cantato Lauro si poteva finire sul rogo, mentre per Laura no), si scatenano reazioni più o meno inconsce che portano al rifiuto.

    Eppure noi omosessuali sperimentiamo ogni giorno, ogni volta che leggiamo un libro o un articolo scritti da eterosessuali, ogni volta che ci muoviamo in una società che non è costruita a misura nostra ma a misura di eterosessuale, questa verità: che sono più le cose che ci avvicinano ai "normali" di quelle che ce ne dividono.

    Sottolineare la peculiarità della visione del mondo, della sensibilità, che la sperimentazione della nostra "diversità" ha forgiato in noi, non significa e non deve significare la pretesa di costruire nuovi "assoluti" solo per noi, ma al contrario nasce dal desiderio di abbattere una volta per tutte gli assoluti che la presuntuosa maggioranza non è disposta a mettere in discussione.

    Quando gli intellettuali etero ci accusano, neanche tanto velatamente, di volerci rinchiudere in una nostra logica "particolare", impermeabile a chi è diverso da noi, non fanno altro che proiettare su di noi il loro modo di agire, non fanno altro che percepire quello che farebbero loro se fossero al posto nostro.

    Invece noi abbiamo creato questo concetto, "cultura omosessuale", affinché la maggioranza si rendesse conto del fatto che il suo modo di sperimentare e descrivere la vita è senza dubbio maggioritario, ma è solo un modo, perché ne esistono altri. Per esempio: il nostro.


    Insomma, reclamare il diritto alla diversità non vuol dire, come sarebbe comodo per la maggioranza "normale", chiedere il "diritto" alla segregazione, ma proprio l'opposto: significa chiedere il diritto all'integrazione.

    Tuttavia come potrò integrarmi agli altri, se gli altri non sanno in cosa consiste la mia diversità?
    Come potranno rispettarla, se non ne conoscono i confini?
    Come potranno evitare di calpestare i miei sentimenti, se non sanno in che modo io percepisco, in maniera differente dalla loro, certe situazioni della vita?
    Ecco perché se vogliamo farla finita con l'etichetta di "diversi" noi dobbiamo rivendicarla ovunque (anche nel campo della cultura, quindi) affinché la gente vi si abitui, e finisca col non farci più caso.

    Solo quando ciò accadrà gli eterosessuali, la maggioranza, saranno disposti a riconoscere il valore "universale" del nostro modo di essere uomini, dei nostri sentimenti, dei nostri affetti, delle nostre speranze.

    Sarà questo il giorno in cui non avrà veramente alcun senso parlare di "cultura omosessuale", ma parleremo di una sola "cultura" di tutti.


    Tratto da: Giovanni Delfino (a cura di), Quando le nostre labbra si parlano, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, pp. 47-56. Ripubblicazione consentita previo permesso dell'autore: scrivere per accordi.

    [Torna alla pagina principale] [Torna all'indice dei saggi di cultura gay]
    [Mandami correzioni, suggerimenti o proponimi un nuovo link]