Indice:
Von Gloeden
era un fotografo, dunque nella condizione ideale per lasciare un ampio
corredo d'immagini a ricordo della storia propria e di quanti lo circondarono.
Per ricostruire la sua figura,
e quel pezzo di storia gay, ma non soltanto, che si svolse a Taormina nei
decenni in cui Gloeden ci visse, ho pensato che il metodo migliore fosse
un "tributo in immagini". Grazie a due viaggi recenti a Taormina, più
che raccontarvi una storia posso mostrarvela.
Un ringraziamento a Malcom
Gain e Jacques Desse di Parigi, che hanno messo a mia disposizione
le loro collezioni gloedeniane e la loro consulenza per scrivere queste
pagine.
I
ritratti di Gloeden (1856-1931) [1].
Nato in Germania, Wilhelm von Gloeden (1856-1931)
frequentò per qualche tempo la scuola d'arte per diventare pittore,
ma non riuscì a completare gli studi perché colpito dalla
tubercolosi.
Su suggerimento del collega d'arte Otto
Geleng, il ventiduenne Wilhelm partì alla volta di Taormina,
nel 1878, per cercare di curarsi.
Guarito, si sarebbe stabilito nella località
che lo aveva salvato, fino alla morte.
Nei primi anni del suo soggiorno Gloeden
viaggiò per l'Italia e per un certo periodo visse addirittura a
Francavilla a Mare assieme
a Francesco Paolo Michetti, pittore affermato nonché
fotografo dilettante, che secondo la stessa testimonianza di Gloeden lo
incoraggiò a proseguire il lavoro iniziato nel campo della fotografia,
salutandolo (e a ragione, in questo caso) come vero artista (Matteucci,
p. 401 [2]).
Diverse foto di questo periodo, riconoscibili
per la presenza di modelli dichiaratamente abruzzesi, stanno riemergendo
da riviste a cui erano state inviate da Gloeden stesso per
illustrare articoli folcloristico-antropologici sui "popoli del Sud".
Sia prima che dopo aver preso casa a Taormina
Gloeden soggiornò a Napoli, come vedremo
più avanti, intrattenendo una fitta collaborazione col cugino
e fotografo di nudo maschile Wilhelm
von Plüschow (1852-1930).
I viaggi a Napoli (alcuni dei quali in
compagnia di modelli taorminesi, che appaiono in foto di Plueschow o fotografati
a Pompei e Napoli) dovrebbero avere avuto fine, attorno al 1894 o 1895,
per due avvenimenti coincidenti: il trasloco di Plueschow a Roma entro
l'inizio del 1895, e il tracollo finanziario del patrigno di Gloeden, che
causò la sparizione della rendita che gli permetteva di vivere con
agio (e di viaggiare a volontà).
Gloeden era nato infatti da una famiglia
ricca e introdotta a Corte, anche se non tanto nobile quanto egli
pretendeva presentandosi come "barone" o "conte": lui e suo padre non appaiono
infatti in alcun albero genealogico dei von Glöden.
E non certo per dimenticanza: Peyrefitte
(p. 143), ci fa sapere che il titolo fu de courtoisie, ovvero concesso
(secondo una tradizione prussiana e anche inglese) in soprannumero rispetto
al numero massimo che ogni signore feudale dell'impero tedesco aveva il
diritto di concedere.
Un titolo decorativo, dunque, ma
privo di valore effettivo in Germania, a differenza di quello della madre,
discendente dell'aristocrazia baronale degli Hammerstein (lo stesso Plueschow,
del resto, aveva il cognome nobiliare ma non il titolo, dato che il suo
ramo della famiglia discendeva da un figlio illegittimo).
Gloeden a Taormina visse oziosamente di
rendita fino al 1895, dilettandosi di pittura (con risultati alquanto scarsi)
e fotografia (con risultati pregevoli).
Quando però nel 1895 il patrigno
si vide confiscare tutti i beni e finì in carcere, quello che era
stato un hobby divenne per necessità - all'età di
quarant'anni - una professione.
Il resto è storia.
Di Gloeden è stato scritto:
Cinquant'anni di vita taorminese
ruotano attorno a questo singolare personaggio: Roger
Peyrefitte ne ha raccontato in parte la storia nel
romanzo Eccentrici
amori: prima che per i nudi degli efebi agghindati con corone di
lauro, Gloeden fu famoso per le sue stranezze, le bizzarrie di vita. Amava,
per esempio, fare in casa il bagno con acqua di mare, e ogni giorno schiere
di ragazzotti (ben pagati) rovesciavano nella vasca grossi barili riempiti
<al mare sottostante la collina di Taormina> e trasportati quassù
a spalla. (...)
I "peccati" di Taormina, sui quali
si è tanto fantasticato, sono nati con lui. Le notti di follia in
casa Gloeden (per soli uomini, è il caso di ricordarlo) stavano
alla pari con quelle
che a Capri divoravano l'esistenza di Fredrich Krupp. (...)
La quieta Taormina (...) fu
letteralmente sconvolta da questa ondata di follia gay (per usare un termine
di moda oggi). (Saglimbeni,
pp. 32-33).
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Autoritratto di Wilhelm
von Gloeden dipinto verso il 1880/85.
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Il celebre autoritratto
di Gloeden come "Nazareno", del 1890 circa.
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Autoritratto di Gloeden
in travestimento da arabo, del 1890 circa.
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Autoritratto di Gloeden
travestito in abiti turcheschi, circa 1890.
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Autoritratto di Gloeden
travestito da devoto cattolico in processione (Gloeden era protestante!),
attorno al 1890. Il sacerdote che gli è accanto è don
Intelisano, parroco di Castelmola e suo amico intimo.
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Gloeden 35enne nel celebre
autoritratto "ufficiale", per la rivista "Photographische Correspondenz",
del 1891.
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Gloeden assieme ad amici
nel 1894, all'inizio del periodo di massimo fulgore della sua vita.
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Foto di anonimo, dell'ultimo
decennio del XIX secolo: il fotografo Giovanni Crupi (vedi
sotto) e Wilhelm von Gloeden sulla scalinata della villa di
Gloeden a Taormina.
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Gloeden, un po' dandy,
in compagnia ancora di don Giuseppe Intelisano,
parroco di Castelmola. Dettaglio da una foto di Giovanni Crupi.
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Un secondo scatto di
Crupi a Gloeden in compagnia di don Intelisano. L'immagine è stata
colorita a mano in un secondo tempo per trarne una cartolina.
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Dettaglio dall'originale
dell'immagine precedente.
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Gloeden in un ritratto
(giovanile!) pubblicato dalla rivista "Varietas" nel 1910, al culmine del
successo.
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Autoritratto di Gloeden
come brigante, nel 1899, nel
chiostro del San Domenico. Esiste un altro autoritratto simile
a questo, ma inedito, nella collezione di Nino Malambrì, a Taormina.
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Gloeden senza barba
e con un bizzarro sombrero, negli anni o immediatamente precedenti
o (più probabilmente) seguenti la prima guerra mondiale.
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L'ultimo autoritratto
di Gloeden che conosciamo, usato anche per
la sua tomba.
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Gloeden ritratto da
un anonimo nel suo giardino, poco prima della morte, avvenuta nel 1931.
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Il
contemporanei di Gloeden.
1) Otto
Geleng (1843-1939)
Il pittore tedesco di paesaggi nonché
conte Otto
Geleng (pronuncia: "ghéleng") fece più di
ogni altro fra i suoi connazionali per lanciare Taormina (dove arrivò
nel 1863, innamorandosene a tal punto che qui si sposò, visse il
resto dei suoi giorni e morì) come paradiso terrestre e meta turistica
ideale.
Fu lui ad agire deliberatamente per "lanciare"
il turismo a Taormina, contribuendo a popolarizzare fra i suoi amici l'Hotel
Timeo, già esistente nel 1855 in vicolo La Floresta, ma spostato
nel 1865 in un prestigioso (e vandalico...) edificio addossato proprio
al Teatro Greco.
E fu lui nel 1878 ad invitare il
ventiduenne Gloeden, colpito da tubercolosi, a provare a curarsi
nel clima salubre di Taormina... dove effettivamente Gloeden guarì.
Tuttavia Gloeden sembrò trovare
in loco un paradiso terrestre di un tipo che l'eterosessuale Geleng
non aveva affatto preventivato. Il buon Ottone, che cogli anni diventava
sempre più cattolico e sempre più reazionariamente rigido,
iniziò così a criticare pubblicamente lo stile di vita omosessuale
di Gloeden, il quale per tutta risposta lo
querelò (assieme ad altri) per diffamazione.
Gloeden vinse la causa (il 31 luglio
1894), ma solo perché assai prudentemente si era ben guardato dal
concedere la "ampia facoltà di prova" ai querelati (cioè
di concedere la rinuncia alla querela se i querelati fossero stati capaci
di provare che quanto dicevano era vero [3].
Ecco quel che racconta dell'episodio "Il
nuovo imparziale" in data 1 agosto 1894:
La "Gazzetta di Messina" nel
suo n. 177 riferisce di una dichiarazione fatta in favore del chiarissimo
sig. W. von Gloeden dai signori Adolfo Werther Fischer, Otto
e Angelo Gelenz (sic), Pancrazio Siligato, che
erano stati con citazione direttissima querelati dal sig. Gloeden per diffamazione.
Il fatto è vero: ma ora che si
è avuta tanta fretta di divulgarlo, bisogna per debito di lealtà
che sia esso chiarito nei suoi precedenti e nella sua conclusione.
Il chiarissimo von Gloeden il giorno
11 ultimo luglio, querelava i suddetti signori, perché si erano
permessi di propalare che il querelante (il chiarissimo signor von Gloeden)
commetteva delle azioni infamanti ed oscene determinate dal vizio
della sodomia.
Per legge l'imputato del delitto di
diffamazione non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità,
o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa: Né
il querelante (il chiarissimo von Gloeden), che pur ne ha facoltà
per legge, si piacque ammettere i querelanti alla prova dei fatti.
Per tanto in tribunale non si sarebbe
potuto discutere intorno alla verità dello addebito e gentiluomini
provati, ch'erano stati mossi, in buona fede, da un nobile ed elevato sentimento
di pubblica moralità, avrebbero dovuto passare per diffamatori volgari.
Chi ha coscienza sicura di sé,
e va innanzi il magistrato per tutelare l'onor suo, deve volere una sentenza
che riconosca la sua onorabilità, dimostrando la insussistenza delle
accuse. Ma, nel modo come si è regolato il signor Von Gloeden, questo
risultato sarebbe stato impossibile e si sarebbe avuto uno scandalo inutile
e nocivo per tutti.
A scongiurare fin l'ombra dello scandalo
due benemeriti cittadini, che furono anche coadiuvati in Messina dall'opera
conciliante ed onesta degli avvocati del querelante e dei querelati, riuscirono
ad ottenere, da questi ultimi, la dichiarazione, che, come si è
detto sopra, fu pubblicata dalla "Gazzetta di Messina".
Con questa dichiarazione, che il chiarissimo
signor von Gloeden ritenne di competa riparazione, si ebbe la desistenza
della querela, dopo che dai querelati si pagò al signor Gloeden
la sommetta di L. 896!!!
Uno degli interessati in questa dolorosa
vertenza, il signor Adolfo Werther Ficher (sic), che solo o in compagnia
della sua nobile e bella signora, passa varii mesi dell'anno qui, ove possiede
un gaio villino, è partito da varii giorni per Vienna.[3].
Su Geleng si può leggere
anche il capitolo ("La scoperta di Taormina", pp. 61-65) che gli dedica
il libro di Roccuzzo.
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2a) Giuseppe
Bruno (1836-1904)
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Ritratto di Giuseppe
Bruno (collezione privata).
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Il suo timbro, in cui
si definisce "chimico-fotografo"
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"Porta dei cappuccinini".
Uno scatto di Bruno, del 1890.
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Il primo fotografo professionale attivo
(dal 1875 circa) a Taormina fu Giuseppe
Bruno (1836-1904), un onesto anche se oggi dimenticato autore di
nitide ed assai eleganti vedute paesaggistiche (Mirisola,
p. 19).
Di formazione ingegnere, sposò una
donna facoltosa di Capizzi e, potendo vivere di rendita, si dedicò
alla sua passione, la fotografia, che era allora un'arte relativamente
"nuova" e piuttosto complessa dal punto di vista tecnico. Amò sperimentare
nelle tecniche di impressione e stampa delle immagini, arrivando a firmarsi
"chimico-fotografo". Fu lui ad insegnare la fotografia (all'epoca un'arte
alquanto complicata) a Gloeden, al quale trasmise la passione per
gli esperimenti con le tecniche d'impressione e stampa.. Nonché,
con ogni verosimiglianza, a Giovanni Crupi.
La sua produzione fu dedicata soprattutto
ai paesaggi e ai monumenti della zona, con risultati particolarmente felici
nell'inserimento della figura umana in contesti paesaggistici. Essa è
sempre tecnicamente di alto livello, e pur spingendosi raramente al di
là di una nitida documentazione dei luoghi ritratti, rivela un gusto
sicuro e una competenza tecnica di tutto rispetto.
D'altro canto, i suoi ritratti di contadini
siciliani rivelano un'ottica nettamente classista, nella quale è
assente la denuncia sociale. I segnali della povertà (come nei bambini
luridi, vestiti di cenci stracciati) entrano a far parte d'un generico
"pittoresco" turistico, che suscita curiosità e magari sconcerto,
ma difficilmente solidarietà umana, in quanto i suoi modelli ostentano
un abbrutimento totale, senza dare alcun segnale di tentare almeno di raggiungere
una qualche dignità e riscatto. L'atteggiamento di Bruno in questi
ritratti è insomma troppo spesso quello della foto-ricordo del visitatore
d'uno zoo, e non quello di chi intende documentare ai fini di una denuncia
sociale.
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2b) Giovanni
Crupi (1859-1925)
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Foto di anonimo, dell'ultimo
decennio del XIX secolo, di Giovanni Crupi e Wilhelm von Gloeden sulla
scalinata della villa di Gloeden a Taormina.
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Giovanni Crupi ritratto
(con ogni verosimiglianza da Gloeden), nel giardino della casa di Wilhelm
von Gloeden. Prima del 1899.
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Non sappiamo da chi il fotografo Giovanni
Crupi abbia appreso la sua arte: è stato ipotizzato
che il suo maestro sia stato Giuseppe Bruno, ma non
sono per ora emerse prove né a favore né contro questa ipotesi.
Crupi, anch'egli ricco di famiglia, viveva
di rendita, e per lui la fotografia fu all'inizio (proprio come per Gloeden)
solo un hobby: fu solo nel 1885 che egli la trasformò in
un'attività.
Fu abbastanza naturale che facesse amicizia
con Gloeden, che condivideva il suo stesso hobby, che all'epoca era riservato
ad una élite molto ristretta. La frequentazione tra i due
artisti è documentata dalle foto che nel corso degli anni si scattarono
l'un l'altro.
Gloeden di Crupi fu dunque amico e collega.
E qualcuno (Falzone Barbarò,
p. 22) aggiunge anche "allievo", tuttavia Gloeden
stesso affermò nel 1898 in uno scritto autobiografico
di avere appreso i rudimenti dell'arte fotografica da Giuseppe Bruno; dunque
sulla questione non sono possibili dubbi.[3bis].
Non si può negare però che
nella produzione paesaggistica i due amici si influenzarono a vicenda,
al punto che i paesaggi non firmati dei due amici possono essere facilmente
confusi.
Il rapporto fra i due artisti/amici/concorrenti
è complicato dal fatto che una parte delle immagini di Gloeden riporta
in basso la medesima "banda nera" usata in tutte le sue foto da Crupi,
il che fa sorgere dubbi sulla reale paternità delle immagini del
catalogo gloedeniano con questa cartteristica (rimando chi fosse interessato
al problema allo
scritto che ho dedicato al catalogo delle opere di Gloeden).
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Un esempio delle foto
"B" di Gloeden. Si nota chiaramente che la firma è stata aggiunta
solo in un secondo tempo, e che il numero di catalogo è stato modificato,
con l'aggiunta di una "B", che è stata palesemente incollata in
un secondo momento.
(Fare clic per ingrandire).
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Crupi, a seguito delle sue vicissitudini,
espatriò, e nel 1899 aprì in Egitto uno studio fotografico
vicino al Cairo, ad Heliopolis (Pohlmann,
p. 15); un suo parente rilevò l'azienda (Mirisola,
p. 23). Al suo ritorno in patria nel 1910 Crupi lo avrebbe assistito
nella conduzione della ditta, ma senza riprendere più a fotografare
(Mirisola, pp. 23 e 25).
Dato curioso: Crupi sposò una damigella
della baronessa Stempel, il cui figlio fu uno dei
"baroni omosessuali" di Taormina e sarebbe stato l'informatore da cui Peyrefitte
avrebbe tratto le informazioni su Gloeden che avrebbe usato per il
suo romanzo breve.
In età più avanzata Gloeden
avrebbe avuto come assistenti (secondo Falzone
Barbarò, p. 25), oltre a Pancrazio
Buciunì, il sopra citato parente di Giovanni Crupi. (Per
un lapsus Falzone Barbarò (p. 25) elenca fra gli assistenti
di Gloeden proprio... Giovanni Crupi, che pure poche pagine prima aveva
citato addirittura come suo maestro, tuttavia si tratta palesemente solo
d'una svista).
Un catalogo cronologico della sue immagini
è online qui.
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3) Wilhelm
von Plüschow
(1852-1930)
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Presunto ritratto di
Wilhelm
von Plüschow sulla scala d'ingresso della casa di Gloeden a Taormina.
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Presunto ritratto di
Plüschow scattato da Gloeden a Taormina.
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L'ingresso della villa
di Gloeden alla fine del XIX secolo. Il personaggio seduto potrebbe essere
Plüschow (l'identificazione non è certa).
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Nella formazione artistica di Gloeden
ebbe un ruolo anche il cugino (per parte di madre), Wilhelm
von Plüschow, anch'egli fotografo, anch'egli omosessuale,
ed anch'egli abitante in Italia.
Abbiamo (forse!) di lui una foto dello
stesso Gloeden [6],
che ce lo mostra sulla scala d'ingresso della villa taorminese di Gloeden
mentre suona il mandolino, ed abbiamo anche foto di Plüschow che ritraggono
modelli di Gloeden a Pompei o col Vesuvio sullo sfondo, nonché foto
quasi
uguali di Capri
dei due fotografi; è quindi palese che i due cugini, fino al 1895,
si frequentarono non poco. Anche se il fatto che nel 1895 Gloeden fu costretto
a trasformarsi da fotografo dilettante in fotografo commerciale, e quindi
in concorrente del cugino, sembra avere raffreddato i rapporti tra
i due: l'ultimo lavoro comune risulta il
servizio edito nel 1898 ma scattato a Pompei nell'appena scoperta "Casa
dei Vettii", quindi attorno al 1896. In essa appare un modello taorminese
di Gloeden. Dopodiché, più nulla.
Se è vero che Gloeden non può
non avere imparato dal cugino la nozione per cui le foto di nudo
si potevano anche commerciare (invece di limitarsi ad esibirle in
prestigiose mostre accademizzanti e su prestigiose riviste estetizzanti)
oggi nessuno parlerebbe più di Plüschow come del maestro
di Gloeden (come fece Nicolosi,
p. 44).
Ormai ci è chiaro il fatto che
un rapporto maestro-allievo tra i due non ci fu mai. Anzi, perfino
nelle foto scattate a Napoli la condivisione si limita in genere alle sole
location, mentre i modelli raramente vengono scambiati (anche se
qualche caso si verirfica), come rivelano i timbri sul retro, ognuno
dei quali generalmente si accompagna solo a una parte dei modelli, e non
all'altra.
Da un lato, come ho già detto,
la
tecnica della fotografia Gloeden l'apprese da altri, dall'altro la
sua ispirazione fu sempre diversa da quella del cugino. Il quale subì
semmai lui l'influsso dei deliri arcadici di Gloeden, tanto da sperimentare
in questo senso durante il periodo napoletano, mentre nel periodo romano
avrebbe poi abbandonato le pastorellerie e l'accademismo di sapore gloedeniano,
per evolversi verso un maggiore e robusto "realismo".
Al contrario nulla
impedisce che possa corrispondere al vero un'altra ipotesi, secondo cui
potrebbe essere stato proprio Plüschow
ad avere interessato il cugino, durante una sua visita a Napoli
nel 1878, alla fotografia (che dopo tutto era ancora una forma d'arte
relativamente nuova e piuttosto "di élite"). Lo stesso Gloeden conferma,
in
un suo scritto autobiografico del 1899, la data del 1878 come
quella del suo primo interessamento alla fotografia.
D'altro canto il
1878 è anche la data del trasferimento a Taormina, quindi l'ipotesi
resta tale.
Ben presto i nudi di Gloeden (che riuscì
ad inventare un affascinante e idilliaco mondo di fantasia in
cui ambientare i corpi nudi dei suoi ragazzi sottoproletari), superarono
in qualità e in apprezzamento quelli di Plüschow, molto più
carnale e sessualmente esplicito (Plüschow smerciò anche vera
e propria pornografia, cosa che Gloeden non fece mai). Non a caso Plüschow
conobbe il carcere e finì
nel 1907 espulso dall'Italia per un brutto affare di prostituzione di minori,
mentre Gloeden vi terminò i suoi giorni indisturbato.
Di lui Vanzella ha scritto che:
in Plüschow, storicamente
antesignano del cugino, manca quell'ispirazione metafisica che spingeva
Gloeden sulle tracce del mito, ad inseguire un'autentica estetica della
purezza, e per quanto s'impegnasse nel calcarne le tracce, come un epigono
qualunque, i risultati furono modesti.
(Mirisola, pp. 33 e 35).
A mio parere la prima parte del giudizio è
corretta, mentre sarebbe un errore passare da un estremo all'altro, e dopo
averne fatto a torto il "maestro" fare di Plüschow, altrettanto a
torto, un "imitatore" di Gloeden.
Plüschow ebbe infatti una sua estetica
ben distinta da quella del cugino, tanto da farci chiedere come sia stato
possibile confondere nel dopoguerra la loro produzione. Quando Plüschow
produce, che so, la foto d'un ragazzo nudo visibilmente "contemporaneo"
(cosa che nel suo discepolo Vincenzo Galdi si spingerà fino al punto
d'introdurre una... bicicletta in una foto di nudo!), non lo fa certo certo
perché non sia capace di usare anche lui rose, pàmpini e
sandaletti greci. Al contrario, lo fa perché si dimostra un osservatore
della sua contemporaneità (e dei fantasmi erotici del suo mercato)
più attento di quanto non lo sia Gloeden.
Alcune
foto di Plüschow rivelano addirittura l'apertura a chiari influssi
art nouveau, del tutto impercettibili invece nell'opera
di Gloeden, che resta inchiodato al classicismo accademico di metà
Ottocento e al "pittorialismo fotografico" per la sua intera esistenza,
al punto che nella sua produzione non c'è alcuna evoluzione stilistica
dal 1890 al 1930 (anche se studiando
il catalogo emerge che dopo il 1903 Gloeden fotografò poco o nulla:
per l'85/90% della sua produzione il deposito legale risulta infatti eseguito
entro quella data, mentre i rimanenti 27 anni di vita e attività
videro l'aggiunta di appena un 10-15% della produzione).
Da questo punto di vista, e solo da questo,
Plüschow, sia pure con tutti i suoi limiti morali in quanto pedofilo
e ruffiano che non è il caso di discutere qui ed ora, si rivelò
un artista più attento alla realtà sociale e alla sua evoluzione,
anticipando coscientemente (sia pure con un anticipo eccessivo)
la produzione industriale di nudo rivolta al mercato omosessuale.
E su questo Vanzella concorda, anche se
dal suo punto di vista il fenomeno è negativo:
In un confronto tra i due autori
tedeschi, è riscontrabile, da parte di Wilhelm von Plüschow,
un'indagine fotografica attraverso la quale i giovani corpi giungono a
noi in un'atmosfera meno artefatta, in una sorta di maggiore autenticità
che li fa precipitare nella scarnificata realtà del loro mondo.
È un occhio crudamente carnale
quello che, sovrapponendosi ad un realismo esistenziale, ci trasporta in
un luogo dove quegli angeli hanno i piedi sporchi, in un'attenzione
interamente dentro la sua epoca dunque, mentre per tutte le generazioni,
galleggia nel sogno, Gloeden. (Mirisola,
p. 35).
Un catalogo cronologico della sue immagini
è online qui.
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4) Pancrazio Buciunì,
soprannominato 'u Moru (1879-1963)
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Quest'immagine di Wilhelm
von Gloeden è apparsa ad un'asta su ebay, e secondo il venditore
riportava scritta sul retro l'identificazione del ragazzo a sinistra (travestito
da ragazza) come Pancrazio Buciunì. Ovviamente l'identificazione
attende una conferma definitiva.
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Lo stesso modello della
foto precedente appare anche in quest'immagine di ragazzo travestito da
ragazza (un trucco usato spesso da Gloeden) in preghiera. Anche questa
immagine è apparsa sul sito d'aste "ebay", ma non riportava il nome
del modello.
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Un dettaglio ingrandito
dell'immagine precedente. Secondo quanto mi è stato detto a Taormina,
Buciunì non posò mai per foto di nudo di Gloeden. Oppure
- aggiungo io - se Gloeden ne scattò, non volle renderle pubbliche.
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Buciunì da vecchio,
negli anni Sessanta, ritratto mentre sfoglia un album di foto di Gloeden.
Quest'immagine e quella seguente sono apparse in: Charles Leslie, Wilhelm
von Gloeden, photographer, Soho, New York
1977 e JFL, New
York 1980.
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Buciunì mostra
l'apparecchio appartenuto a Gloeden. Produceva negativi di grandi dimensioni,
permettendo la stampa d'immagini di qualità insuperata. In compenso
pesava un bel po', e toccava a lui, in quanto servitore, scarrozzarlo su
e giù per le colline taorminesi...
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La foto di Buciunì
sulla sua tomba, a Taormina.
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Il retro di un'altra
foto messa all'asta su ebay, con il timbro, e la sigla "BP", con cui Buciunì
commercializzò anche nel dopoguerra le immagini di Gloeden.
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Pancrazio Buciunì (ma sui libri
è spesso citato anche come Bucinì) era detto in paese "'u
Moru" ("il moro", "il nordafricano") per il colore bruno della sua
carnagione (e i suoi figli e nipoti e pronipoti, a Taormina, hanno ereditato
il soprannome, anche al femminile: " 'a Moru").
Pancrazio fu per decenni l'uomo di fatica
e l'assistente tuttofare di Gloeden.
Zinaida Gippius, che ne parla nel
1899 dandogli il nome di "Luigi", dice di lui:
Luigi è il braccio
destro del barone. Si occupa della vita domestica e stampa le fotografie
(ha d'altronde anche un assistente, Mino).
L'aspetto esteriore di Luigi è
straordinario. Quando guardi questo volto selvaggiamente stupendo con il
naso corto, con le sopracciglia, che stranamente spiccano il volo - sembra
di vedere un fauno vivo di tempi immemorabili. (Gippius).
Durante la prima guerra mondiale, dato che
Gloeden tornò in Germania per evitare di trovarsi in un campo di
concentramento per residenti nemici (come accade a Geleng,
che pure era cittadino italiano e aveva due figli sotto le armi nell'esercito
italiano) fu a Buciunì che rimase affidata la casa
e la cura degli animali, per dare notizia dei quali continuò a corrispondere
con Gloeden tramite la Svizzera.
La censura militare, insospettita da tutte
quelle lettere che parlavano del "corvo", del "tacchino" e del "cane",
pensò che si trattasse di nomi in codice, e fece passare un brutto
quarto d'ora al Moro per spionaggio e connivenza col nemico (un reato per
cui era prevista la pena di morte). Fortunatamente le cose furono chiarite,
ma non senza che il buon Pancrazio avesse assaggiato il carcere. (Cfr.
Peyrefitte, pp. 159-160).
Buciunì fu anche l'erede dell'azienda
e delle lastre fotografiche (tutto quanto era rimasto del patrimonio del
vecchio datore di lavoro: la casa era stata - per sua sfortuna
- appena venduta). Si sposò ed ebbe figli.
Lavorando per Gloeden Buciunì era
diventato un esperto tecnico di laboratorio fotografico, e continuò
quindi senza problemi a ristampare e commercializzare il patrimonio di
negativi ereditato.
Inoltre sappiamo che egli eseguì
in proprio scatti fotografici, dato che nel
processo per oscenità che subì durante il fascismo per
le foto di nudo dell'ex padrone, egli dichiarò espressamente
che dopo aver subito il primo dei due sequestri
"egli dovette
rassegnarsi a continuare il suo lavoro coi residui dell'assortimento Von
Gloeden e con alcune più recenti - ma meno artistiche - negative
di sua produzione". (Falzone
Barbarò, p. 26).
Dunque, anche Buciunì
rientra fra i fotografi italiani di nudo maschile dell'anteguerra, anche
se la sua produzione autonoma non è mai stata studiata e riconosciuta,
fino ad oggi.
Io sospetto che
gran parte delle immagini che vanno sotto il nome di Gloeden, e che rivelano
un approccio più grossolano (il punto debole tende ad essere la
posa, e l'espressione del volto), e che oltre a ciò spesso esiboscono
pettinatura anni Venti o Trenta, siano opera di Buciunì.
Se Gloeden dopo
il 1903 smette di fotografare e si dedica a valorizzare la sua "banca d'immagini",
presentandosi infaticabilmente a mostre ed esposizioni che spaziano da
Parigi ad Algeri, è logico pensare che la gestione del laboratorio
sia stata di fatto delegata a Buciunì.
Il quale non avrà
certo aspettato la morte del padrone per sperimentare in proprio la foto
di nudo.
Durante il fascismo,
come appena detto, Buciunì subì due sequestri e un formale
processo per "oscenità" (da cui uscì assolto),
che tra confische espresse e rotture più o meno intenzionali (le
negative erano su vetro, all'epoca) ridusse il corpus gloedeniano
dai poco più di 3100 pezzi attestati nella numerazione del suo catalogo
ai 1300 circa conservati oggi dalla Fondazione
Alinari a Firenze.
Buciunì continuò comunque
a commercializzare fino alla morte ristampe dalle negative originali di
Gloeden, specie dopo che Peyrefitte ebbe tratto il nome di Gloeden
dall'oscurità in cui era caduto, grazie al romanzo breve Eccentrici
amori.
Che si spera possa averlo aiutato, dato
che lo stesso romanzo nel 1949 lo aveva, forse a seguito delle vicissitudini
della guerra appena conclusa, così descritto:
Il suo erede, il fedele Moro,
oggi semplice pescatore.
(Peyrefitte, p. 181).
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pagina
5) Sophie Raabe (1847-1930)
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Sophie Raabe detta Sofia,
figlia di primo letto della madre di Wilhelm von Gloeden.
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La tomba di Sophie Raabe,
alle spalle di quella di Gloeden, nel cimitero acattolico di Taormina.
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Sorellastra di Wilhelm (era figlia della stessa
madre, che rimasta vedova aveva sposato il futuro padre di Wilhelm) al
momento del crollo economico del patrigno Sophie Raabe raggiunse
Wilhelm a Taormina nel 1895
La sorellastra Sofia sovraintendeva
alla casa e preparava i pranzi per gli ospiti.
Ancora oggi [1980, N.d.R.] alcuni
dei taorminesi più anziani la ricordano, minuta di statura, sempre
affaccendata, molto semplice nel vestire e nel tratto, molto più
stile vecchia Fräulein che signora dell'aristocrazia.
La aiutava nelle faccende più
pesanti Pancrazio Buciunì, entrato proprio
all'inizio del secolo al servizio di casa Gloeden, con le mansioni di cameriere
tuttofare e di aiuto fotografo.
(Falzone Barbarò, p. 23).
La sua silenziosa impotanza nella vita di
Wilhelm è confermata da Giuseppe Vanzella:
Fortunatamente anche la sorella
Sofia Raab gli fu fondamentale aiuto, gestendogli con fedele dedizione
la casa per lunghi anni ed accogliendo magnificamente gli ospiti, senza
mai interporsi nelle sue scelte di vita. (Mirisola,
p. 31).
Più vecchia di lui di qualche anno,
premorì al fratello, l'11 novembre 1930.
Anche lei è sepolta a Taormina,
accanto al fratello.
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6) Don Giuseppe
Intelisano (18..?-prima del 1949)
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Giuseppe Intelisano,
parroco di Castelmola, accanto a un Gloeden intabarrato da fedele di una
processione cattolica. Si tratta probabilmente di una messa in scena, dato
che Gloeden era protestante...
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Uno scatto di Giovanni
Crupi che ritrae una casupola (oggi non più esistente)
in via san
Pancrazio. Davanti ad essa, a fare "colore locale" il parroco
di Castelmola e il suo amico von Gloeden.
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Dettaglio dell'immagine
precedente.
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Un secondo scatto di
Giovanni Crupi in via san
Pancrazio che ingloba ancora, sempre per il "colore locale",
don Intelisano e von Gloeden.
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Dettaglio dell'immagine
precedente.
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Maria Intelisano, nipote
del parroco, posò per alcune immagini di Gloeden. Per la bellezza
della ragazzina, queste immagini sono state spesso riproposte e antologizzate.
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Una delle molte immagini
scattate nel pergolato della "casa bianca" sul monte Ziretto.
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Cosa ci facesse il parroco di Castelmola,
uomo timorato di dio, assieme a un fotografo protestante e omosessuale
non lo saprei proprio dire. Avranno forse avuto degli interessi comuni,
che non ci sono stati tramandati.
Quel che sappiamo è solo che don
Intelisano fece parte della cerchia degli amici taorminesi di Gloeden.
Peyrefitte (che nel 1949 lo dà per
scomparso da molti anni) descrive folcloristicamente don Intelisano, facendone
una specie di macchietta, sotto il semplice nome di "don Giuseppe":
don Giuseppe e don Manuele
(...) seppero essere, insieme, buoni preti e buoni compagnoni. Robusti
contadinotti dalla fede solida quanto le montagne dove eran nati, ma non
per questo meno maschi: (...) don Manuele aveva quattro o cinque
figli e don Giuseppe ne vantava diciotto. (Peyrefitte,
pp. 132-133).
Questi buoni preti, già vicini
fra di loro di parrocchia, lo erano inoltre per una piccola proprietà
che ognuno di essi aveva sul monte Ziretto, alquanto indietro a
Taormina. (...) Quella di don
Giuseppe, spaziosa elegante e comoda, l'aveva fatta costruire per lui una
ricca svizzera che tornava ogni anno.
Questa casa, dipinta di rosso pompeiano
e detta la casa rossa, era circondata da begli alberi e godeva di una posizione
magnifica. (...)
Lassù i miei curati avevan l'abitudine
di cenare la sera, e questo soprattutto per aver l'occasione di incontrarsi
con le rispettive amanti: esse facevan la cucina, aiutate dal mio fedele
Moro e da due o tre ragazzi che conducevo con me, e se anche io li fotografavo
in costume adamitico le presenza di quelle brave contadine non c'imbarazzava
affatto. (Peyrefitte, pp.
133-134).
Accanto alla "casa rossa" sul monte
Ziretto stava la "casa bianca", costruita da un cantante tedesco
anch'egli omosessuale, che Peyrefitte chiama "Wullner".
Qui Gloeden andava, a dar retta a Peyrefitte
(e cfr. Falzone Barbarò,
p. 24) assieme ai suoi modelli, e nel suo pergolato tenuto a vigna
ha ambientato molte sue foto:
<"Wullner"> acquistò
da don Giuseppe una parte del suo terreno e vi fece innalzare una bella
casa, chiamata poi la casa bianca, cui aggiunse un grazioso giardino in
mezzo alle rocce.
Le nostre riunioni in casa sua non
avevano però la semplicità di quelle della casa rossa, con
tutta la servitù che c'era e ancora c'è, e che cerca di sottrarre
la futura eredità al cameriere favorito.
I preti però in queste feste
cui soltanto il cielo era testimone, non comparivano mai.
Mi sembra ancora di rivivere quelle
felici notti che riunivano ogni voluttà. (Peyrefitte,
pp. 136).
Peyrefitte stesso afferma che la "casa rossa"
fu distrutta durante il bombardamento che accompagnò lo sbarco inglese
nella seconda guerra mondiale (Peyrefitte,
p. 182), ma che la "casa bianca" sopravvisse intatta (e mi è
stato detto a Taormina che esiste ancora).
Per finire va aggiunto che fra le modelle
usate da Gloeden appare la nipote del parroco, Maria Intelisano,
dal viso molto bello, che Gloeden trovava somigliante a quello di Eleonora
Duse, al punto da fotografarla anche in una posa "dusiana".
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7) Karl von Stempel (1862-1951)
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L'unico ritratto di
Stempel che io conosca, in tarda età.
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La tomba di Stempel
nel cimitero acattolico di Taormina. Gennaio 2006.
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Sempre la tomba di Stempel
nel cimitero acattolico di Taormina. Gennaio 2006.
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La tomba nel settembre
2006.
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Il barone Karl (o Carl) von Stempel
(1862-1951) fu il principale informatore su cui Roger
Peyrefitte si basò per ricostruire la Taormina gay
d'inizio secolo raccontata nel 1949 nel suo romanzo Eccentrici
amori (Nicolosi, p. 8).
Dopo la morte di
Stempel, Peyrefitte passò lunghi periodi invernali a Taormina, facendosi
riservare deliberatamente la stanza della pensione Strazzeri (già
casa di Stempel), in cui si trovavano gli oggetti personali del barone.
Nato in Curlandia (oggi Lettonia) da famiglia
tedesca nobile e ricchissima, il barone von Stempel si trasferì
a Taormina assieme alla madre, e qui abitò
in quella "casa Rossa" che
ancora oggi è possibile ammirare proprio in fondo a una delle prime
curve della carrozzabile Villagonia - Taormina. Un'altra casetta che sorgeva
vicina - l'attuale "villa Caronia" - servì, invece, da magazzino-deposito.
(Nicolosi,
p. 8).
Sposato e con prole, Stempel ebbe una "crisi
della mezza età" decisamente robusta, che lo portò
a cercare di farsi "guarire" dalle sue pulsioni omosessuali da nientemeno
che Richard
von Krafft-Ebing (Peyrefitte racconta l'episodio con tono ironico,
e gli mette in bocca la frase, che possiamo immaginare autentica
vista la conoscenza diretta fra scrittore e personaggio:
"Io mi meraviglio ancora d'aver
potuto chiedere di guarire di questo male invece d'invocare che me lo dessero").
(Peyrefitte, p. 144).
La crisi lo portò infine a mollare,
a 43 anni, moglie e carriera, per inseguire le sue tendenze omosessuali
nella Taormina d'anteguerra:
divorziato, visse arditamente
secondo i suoi gusti e, poiché certi giornali curlandesi vi avevano
fatto allusioni, egli scrisse loro per confermare che tutto era vero.
Fu membro di quel "Comitato
scientifico-umanitario" fondato a Berlino <da
Magnus
Hirschfeld, NdR>, che si proponeva di ottenere la
revisione del Codice
<tedesco, NdR> in materia di costumi. (Peyrefitte,
pp. 144-145).
Stempel non aveva però trovato la felicità
negli amori non disinteressati che era così facile comprare
a Taormina in quegli anni, come confessò a Peyrefitte verso il 1947-1948:
Era stato sposato, aveva avuto due
figli che aveva perso, e si era separato da sua moglie per vivere secondo
i suoi gusti. Ne aveva avuto molte delusioni, e mi assicurava che al mondo
non esiste altro che la gioia della famiglia.
E poi aggiungeva: "Ciononostante, se
ricominciassi da zero, farei la stessa cosa". (Testimonianza
di Roger Peyrefitte in Nicolosi, p. 9).
Si legò insomma ai ragazzi del luogo,
ma con legami tali che negli anni a venire se ne sarebbe parlato malvolentieri:
la sua generosità non
ebbe confini e oggi [1959, NdR], più che ogni altro, potrebbe
testimoniare Francesco Strazzeri, il titolare di un'avviata pensione sulla
rotabile Taormina-Castelmola, che gli fu molto vicino e che per molti anni
curò la sua cucina. Non è abituato a parlare molto di Stempel,
lo Strazzeri, e pertanto non si riesce a cavare molte parole dalla sua
bocca.
Tale atteggiamento lo si giustifica
con il fatto che l'ex cuoco tiene molto alla memoria dell'aitante lettone,
per cui teme di poter agire da profanatore se ne parla.
L'ammirazione dello Strazzeri verso
Stempel è tale che ancora oggi egli tiene in casa un suo bellissimo
scrigno, una sua collezione di trofei da caccia. (Nicolosi,
pp. 74-75).
[Nota
di Dall'Orto: un erede dello Strazzeri, che qui ringrazio, mi ha scritto
un'email per specificare che contrariamente a quanto stampato nel libro
di Nicolosi il suo avo si chiamava Antonino, non Francesco, e che era il
titolare della pensione, non l'ex cuoco].
La famiglia Strazzeri
era stata al suo servizio per
trent'anni ed aveva salvato, nel corso dell'ultima guerra, gli ultimi resti
del suo patrimonio.(Nicolosi,
p. 8).
Stempel era giunto a
Taormina richiamatovi da Gloeden.
Era uno
dei pochi arrivati che non avesse nessuna pretesa di talento artistico
o di particolare competenza estetica. Ciononostante divenne un avido collezionista
dell'opera di Gloeden.
Arrivò
a 42 anni prima di riconoscere a se stesso la sua omosessualità
e separarsi dalla moglie e dai figli adulti. Residente in Curlandia (provincia
dell'impero russo con un'aristocrazia di etnia tedesca) lui e sua madre
ne fuggirono molto prima della rivoluzione bolscevica, attivando a Taormina
su suggerimento di Gloeden, con una fortuna in contanti e gioielli nelle
loro valigie.
Costruì
una grande villa sul sito dove <sarebbe sorto> il casinò
e una seconda casa con stalle per i servitori e gli animali.
Abbellì
la casa con oggetti d'arte scelti dalla madre e la sua biblioteca privata
con quella che fu probabilmente una collezione completa delle stampe di
von Gloeden.
Essendo entrambi
tedeschi, Stempel e Gloeden passavano assieme ore a discutere con entusiasmo
e Gloeden aiutò Stempel ad imparare il dialetto siciliano del luogo.(Leslie).
A Taormina Stempel fu
al centro della cerchia di personalità omosessuali che frequentavano
la località:
Stempel ebbe parecchie amicizie
fra gli omosessuali; tra esse la più celebre fu quella con il principe
Yusupof, l'assassino di Rasputin.
Stempel l'ospitò per qualche tempo in casa sua, ma resosi conto
del pericolo di tenere in casa un uomo a cui i servizi segreti zaristi
l'avevano giurata, gli consigliò di partire dalla Sicilia. (Nicolosi,
pp. 76 e 97-98, Saglimbeni p. 57).
Vissuto di rendita per tutta la vita, dopo
la seconda guerra mondiale il barone vide il suo patrimonio assottigliarsi
sempre più. Così
andò ad abitare in casa
Strazzeri, dove continuò a ricevere gli amici, ma dove, tuttavia,
non ebbe il conforto di vedere attorno a sé un solo famigliare,
nemmeno quel giovane taorminese che tanti anni avanti aveva adottato come
figlio e col quale, però, era da tempo in rotta. (Nicolosi,
pp. 77-78).
In realtà dietro
al tracollo economico ci fu un risvolto che Nicolosi aveva ritenuto opportuno
passare sotto silenzio:
Stempel
incontrò un ragazzo che in breve divenne la sua ossessione. Nel
corso degli anni e ben oltre la morte della vecchia baronessa madre il
giovane uomo, il cui cognome era Castorina, spogliò metodicamente
Stempel delle sue ricchezze. Nonostante gli ammonimenti dei suoi amici
e i pressanti richiami di von Gloeden (che peraltro riconosceva che Castorina
era pericolosamente attraente) la dipendenza di Stempel da lui non fece
altro che crescere.
Alla fine, quando
Stempel aveva letteralmente perso ogni cosa ed era molto avanti negli anni,
Castorina semplicemente lasciò la Sicilia senza nemmeno salutarlo.
Si venne a sapere che era partito per l'Argentina, dove a quanto si sa
mise su famiglia. A parte questi nudi fatti, non si seppe più nient'altro
sul suo conto.
Ormai impoverito
e incapace di badare a se stesso (era oltre a tutto diventato cieco) Stempel
fu salvato da un taorminese che aveva aiutato in passato. Il giovane uomo
e sua moglie si presero in casa Stempel e la colonia straniere fece quel
che potette per lui.
Sopravvisse di
vent'anni a Gloeden, sempre benvenuto nella rarefatta vita sociale di Taormina
e ricordato come uno dei più importanti primi collezionisti di von
Gloeden. Ma, ovviamente, la sua grande collezione di stampe di Gloeden
andò perduta assieme a tutto il resto. Morì nel 1951 all'età
di novant'anni. (Leslie).
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8) I ragazzi di Taormina
e "chiddi d' 'a tila"
È arrivato il momento di prendere
infine il toro per le corna e parlare di loro, dei ragazzi di Taormina
che Gloeden frequentava: ma Gloeden con 'sti ragazzi ci andava anche a
letto, o li fotografava soltanto?
Rispondiamo senza girarci intorno: sul
fatto che ci andasse a letto nessuno ha mai espresso dubbi. Mai.
E proprio qui sta il guaio: se Gloeden
ha subìto un lungo periodo di oblio a Taormina (che per ironia della
sorte ha coinciso col periodo della sua riscoperta e valorizzazione in
tutto il mondo), ciò fu dovuto ad una comprensibile rimozione dalla
memoria da parte dei nipoti e bisnipoti e trisnipoti dei suoi modelli,
che desideravano archiviare per sempre il ricordo del periodo in cui i
loro nonni e bisnonni e trisavoli erano stati costretti, per bisogno economico,
a scendere a compromessi con la rigidissima morale sessuale siciliana.
Mario Bolognari ha pubblicato nel 2011
un eccellente saggio (Falsi
miti di Belle Epoque. Ai tempi ''felici'' del fotografo Wilhelm von Gloeden,
''Illuminazioni'' n. 16, apr-giu 2011, pp. 13-63) che mostra, dati
alla mano, le condizioni di povertà della presunta "arcadia" taorminese
di Gloeden, dalla quale a inizio secolo un terzo della popolazione emigrò
alla ricerca d'un futuro migliore. Magari proprio per non sottoporsi al
"mercato di carne umana" grazie al quale invece alcuni giovani riuscirono
a rimanere.
Questo periodo di rimozione (umanamente
comprensibile) ha reso possibile l'inconcepibile dispersione di tutto quanto
era rimasto a Taormina di Gloeden (se si eccettua quanto ha potuto salvare
in loco, fra l'indifferenza di tutti e con mezzi economici non certo
all'altezza dei collezionisti forastieri, il collezionista Nino
Malambrì). Perfino le lastre delle negative superstiti sono
finite a Firenze, dopo essere rimaste per decenni sotto un letto a Taormina,
senza che nessuna autorità locale mostrasse il minimo interesse
ad acquisirle. Neppure quelle non di nudo: cancellate dalla memoria.
Nel 1951 lo scrittore gay Jean Cocteau
registrava acutamente questa fase nel suo diario:
Taormina cerca di vivere su
una cattiva reputazione, cosa più difficile che vivere su una buona
reputazione. Ho raccontato a Somerset
[Maugham]
la storia di un pescatore quarantenne, furioso contro una boutique
del centro perché esponeva fotografie di suo nonno completamente
nudo con una corona di rose.
La Taormina stile tahitiano non esiste
più. Anzi disgusta la nuova generazione che guarda i turisti di
traverso, credendo che tutti non pensino ad altro che fare loro delle
avances. (Citato in: Cocteau,
p. 441).
E in una lettera del settembre 1951 Cocteau
ribadisce:
Taormina cerca di sopravvivere
sulla sua antica fama, ma non ci riesce. Le rimane il "panorama" e qualche
cartolina di giovani inghirlandati di rose, che sono i nonni dell'attuale
gioventù la quale peraltro se ne vergogna. (Cocteau,
p. 239).
Il punto è che, banalmente, "si sapeva":
Taormina è talmente piccola che quando occorre darsi un appuntamento
ci si limita ad aspettare d'incrociare la persona cercata mentre passeggia
avanti e indietro su Corso Umberto, dove alla sera letteralmente tutto
il paese s'incontra. Incrociando un amico gli si chiede: "Vidisti a
Peppinu X?" ottenendo informazioni sulla sua localizzazione ("verso
Porta Catania", "verso...) degna di un sistema di posizionamento satellitare...
o della rete di spionaggio della CIA. In questo contesto si può
pensare che sfuggissero le manovre di certi turisti?
Nel 1906 Francesco De Luca, nel descrivere
la "corruzione" a suo dire portata a Taormina da turisti inglesi e tedeschi,
riferisce che gli omosessuali avevano tra gli indigeni un soprannome: "quei
della tela", ("chiddi d' 'a tila"), un nome che i miei amici taorminesi
conoscevano ancora nel 2006. E che non ha a che vedere con la tela di stravaganti
vestiti da loro indossati, come pensavo io, ma con la tela del ragno,
come mi è stato spiegato.
La cultura locale percepisce insomma i
turisti omosessuali come ragni che tendono la tela e aspettano che vi incappino
ingenui ragazzi locali per divorarseli.
Una visione un poco autoassolutoria, visto
che le testimonianze dell'epoca sono unanimi nel raccontare l'assalto di
sciami di ragazzotti e anche (ahimè) ragazzini indigeni, pronti
ad offrirsi come fattorini, guide e... tutto il resto, a chiunque all'inizio
del Novecento scendesse dal treno alla stazione di Giardini ostentando
un ricco bagaglio. Se gli omosessuali erano "ragni", allora sono stati
i primi ragni della storia a cui le mosche saltavano addosso come se fossero
miele...
Saglimbeni, che come storico è decisamente
raffazzonato ma che se non altro ha il merito di avere affrontato il problema
senza ipocrisie, ha scritto al proposito:
Una cosa è certa: Taormina
ha costruito la sua fortuna turistica anche sulle stravaganze, le
bizzarrie, le follie dei suoi ospiti, sugli eccentrici amori (per
dirla con Peyrefitte) e i vizi privati (ma
tutt'altro che segreti) dei suoi baroni. (Saglimbeni,
pp. 32-33).
Anche dopo che ricche straniere iniziarono
ad esibire i loro amanti indigeni, aggiunge Saglimbeni,
continuarono
ad esibirli anche i baroni, naturalmente, i loro boy friends locali.
Giovanotti, occorre precisarlo, assolutamente refrattari alla "diversità"
delle nuove mode sessual-salottiere (sic), per indole, cultura,
tradizioni (il gallismo siculo non sarà certo Brancati
a inventarlo), ma non insensibili alla straordinaria e incredibile munificenza
degli ospiti.
Furono in parecchi
i giovani taorminesi ad arricchirsi in quegli anni, assicurandosi assegni
vitalizi, partecipazioni azionarie in banche e pozzi petroliferi, ed ereditando,
alla morte dei vecchi e generosissimi amici, ville favolose.
Nobildonne e
baroni, insomma, finirono col gareggiare in peccati e stravaganze. (Saglimbeni,
p. 54).
Saglimbeni conclude:
C'è un'aneddotica molto colorita
sui personaggi di quegli anni. Gli ospiti, i famosi "baroni", arrivavano
con un treno speciale, appositamente istituito agli inizi del secolo, il
Londra-Parigi-Taormina, al quale, a Roma, veniva agganciata una vettura
proveniente da Berlino.
"Treno dei baroni" fu definito. I suoi
vagoni-letto (...) raccoglievano "il fior fiore del pederastismo
europeo". (Saglimbeni, pp.
56-57).
Quanto a Gloeden in persona, Falzone Barbarò
ci tiene a specificare che
visse sempre con molta discrezione
la sua condizione di "diverso" e nonostante l'appellativo di viziusu,
affibbiatogli da qualcuno, la sua presenza a Taormina non diede mai adito
a scandali, né egli ebbe mai rimostranze da parte della autorità
civili e religiose, con cui rimase sempre in buoni rapporti. (Falzone
Barbarò, p. 23).
Ciononostante, non può fare a meno
di ammettere la realtà, per lo meno il fatto che i pettegolezzi
erano una realtà paesana con cui fare continuamente i conti:
I suoi biografi parlano anche,
in tono scandalistico, di vere e proprie orge che egli avrebbe organizzato
in casa propria. (Falzone Barbarò,
p. 23).
Concordo con Falzone Barbarò laddove
osserva (p. 23) che si fatica ad immaginare che la rigida sorella
gli permettesse di organizzarle orge in casa, tuttavia come abbiamo
visto Gloeden aveva a disposizione sul Monte Ziretto la "casa rossa " di
don Intelisano e la "casa bianca", dove poteva
andare in tutta tranquillità assieme ai suoi modelli a... ehm, ...scattare
tutte le foto che voleva.
Inoltre non basta osservare, come fa sempre
lo stesso studioso:
Che ci fossero da parte del
barone tentativi di corruzione è stato argomento di piccanti dicerie
- per anni ci furono sempre allusioni a lui e ai suoi modelli - ma nessuna
protesta divenne mai una denuncia formale, né da parte dei parenti
dei ragazzi, né da parte del clero locale, piuttosto rigido a quei
tempi in materia di morale e di costume. (Falzone
Barbarò, p. 25).
Come dicono gli inglesi, "l'assenza di prove
non è prova di assenza".
La verità non è infatti
che Gloeden non diede mai scandalo, bensì che lo scandalo che diede
(e ne diede, al punto da essere sfrattato dalla prima casa in cui
aveva abitato), fu coperto dall'omertà, e dalla decisione
dei suoi concittadini di non
permettere a scandali di questo tipo di scoppiare, secondo una tradizione
tutta italiana.
Il tentativo compiuto nel 1908 da Umberto
Bianchi - che fosse giusto o sbagliato, qui la cosa ora non interessa
- di denunciare il "giro" omosessuale che circondava Gloeden, arrivando
addirittura, drammatizzando, a parlare di "mercato di carne umana", fu
accolto con fastidio e con attacchi a Bianchi, per avere sollevato temi
su cui i siciliani desideravano che non si parlasse affatto.
Che Gloeden le orge le abbia fatte o non
fatte, a me sinceramente non frega nulla saperlo.
Ciò non toglie che i contemporanei
fossero meno stupidi e meno ingenui di quanto li dipingono gli storici
di oggi. Avere scelto di non vedere non implica essere ciechi. Implica
solo avere appunto deciso che certe cose si preferiva non notarle.
Salvo poi spettegolare per decenni su
Gloeden e i suoi modelli, o appiccicare l'aggettivo di viziusu,
e chissà cos'altro, a chi "tesseva la tela" a Taormina.
Da quando è iniziata la rivalutazione
critica ed estetica dell'arte di Gloeden (e il valore commerciale dei suoi
lavori ha iniziato a salire alle stelle...) si è moltiplicato il
numero di critici d'arte, quasi tutti italiani (la bigotteria è
ancora il marchio distintivo degli "intellettuali" italiani), che
esprimono fastidio se non vera e propria isteria per la possibile
"lettura omosessuale" delle foto di Gloeden (come peraltro aveva già
fatto lo stesso Falzone Barbarò, p.
31).
Quale esempio fra tutti (ma ne potrei elencarne
parecchi) cito Mirisola:
Si è parlato molto -
troppo, a mio parere - dell'omosessualità di von Gloeden, e dell'influenza
che questa ha avuto sulla sua produzione artistica.
Guardare alla persona, considerane
vizi e virtù, inclinazione e comportamenti, scandagliarne la vita
privata per trovare una giustificazione alle immagini, è un modo
sbagliato e forviante (sic) di accostarsi all'arte. In
arte, e in fotografia, valgono le opere, e solo queste hanno importanza,
l'invenzione di forme e la materia plasmata e modellata dalla luce.
Dire che l'estetica di Gloeden è
un'estetica omosessuale, è negare gli stessi valori fondanti dell'arte
(sic!).
Essa non ha sesso, non esiste un'arte
maschile o femminile, e dunque (sic) non esiste nemmeno un'arte
omosessuale. Neanche in un piccolo centro lontano dai fermenti culturali,
come la Taormina di fine Ottocento, si avevano questi preconcetti.
Nella sua residenza, meta di innumerevoli
visitatori di tutto il mondo, alcuni (sic!) dichiaratamente
omosessuali, von Gloeden non diede mai scandalo [falso
- NdR]. Era intimo amico del parroco di Castelmola, e i suoi ospiti
erano spesso sistemati presso i frati del vicino convento di San Domenico
[che però all'epoca non
abitavano più lì: il convento era stato espropriato ed era
- come è - un semplice hotel, NdR].
I
taorminesi sorridevano della sua eccentricità e tolleravano le sue
piccole manie, rispettosi della diversità e di quella che intuivano
essere una grande individualità d'artista.
(Mirisola, pp. 9-11).
Ebbene: tutto questo è semplicemente
falso, e la benigna indifferenza morale dei taorminesi dell'epoca
è semplicemente un mito creato in epoca recente.
Tutti sapevano infatti cosa volevano dai
ragazzi del luogo i turisti omosessuali; soprattutto lo sapevano i ragazzi
del luogo, che se lo vedevano chiedere in modo sfacciato, e che nel giro
di qualche anno sarebbero diventati i padri del luogo.
La società quindi sapeva; chiedeva
solo che si agisse in modo discreto, richiesta che in genere venne soddisfatta,
anche dal buon Gloeden.
Tanto, i ragazzi in qualche modo si dovevano
pur sfogare senza "compromettere" li fimmini, quindi tanto valeva
che unissero utile e dilettevole "sfogandosi" coi generosi ricconi stranieri.
Non era considerato morale, non era considerato ammissibile,
non era visto di buon occhio... ma di fronte alla realtà
della miseria (quella miseria che svuotò Taormina
di un terzo della sua popolazione, emigrata in America proprio negli anni
dell'Idillio arcadico di Gloeden) chi sapeva fingeva di non sapere
nulla, e si faceva (relativamente: nei paesini sono tutti dei grandi impiccioni!)
li cazzi sua.
Uno studio antropologico sull'omosessualità
a Taormina prima del 1930 ha scoperto che a quell'epoca
l'omosessualità tra
giovani maschi appartenenti alle classi subalterne era, nel paese, certamente
diffusa.
I rapporti avvenivano in ogni luogo
dell'abitato e dei suoi dintorni e in circostanze diverse, e tuttavia,
era la spiaggia dello Spisone, tra Mazzarò e Letojanni, riparata
agli sguardi e frastagliata di rocce, deserta di barche ed equipaggi da
pesca, luogo tradizionalmente proibito alle donne, dove i bambini e i ragazzi
tra i cinque e i diciassette-diciotto anni si trovavano per fare il bagno,
lo scenario privilegiato delle curiosità delle tensioni, dei rituali,
delle esperienze omosessuali.
Era abitudine di (sic) bagnarsi
nudi. Il momento d'ozio, il calore solare, l'atmosfera di complicità,
i giuochi collettivi, centrati sulla lotta su forme di agonismo scherzoso,
favorivano uno stato di eccitazione che aveva come naturale orizzonte la
cerchia degli amici o di quanti, comunque, erano presenti.
Il partner poteva esser scelto
o per relazioni di solidarietà e tenerezza, preesistenti o manifestatesi
durante il tempo dello svago o, frequentemente, in base a rapporti di forza
e di gerarchia all'interno di un gruppo già formato. (...)
Relativamente poco praticati erano
gli atti di penetrazione (...) molto diffusa la masturbazione reciproca.
Affatto sconosciuta, nella cerchia dei coetanei e in ambito giovanile,
ciò che eufemisticamente definiamo fellatio. (Faeta,
p. 100).
Insomma, farle, certe cose, le si faceva.
Semplicemente, era
tabù parlare apertamente di cose tanto svirgugnate.
E visto che tanto i ragazzi certe cose
se le facevano comunque fra loro gratis, tanto valeva che fossero loro
a far "sfogare" i ricchi e generosi furasteri piuttosto che le loro
sorelle, dato che i ragazzi non ingravidano, e quindi non "disonorano"
le loro famiglie, a differenza delle loro sorelle...
Li fimmini, per fare le cose in
modo "morale", dovevano puntare al matrimonio, ma il rischio di essere
sedotte e abbandonate, cioè "disonorate", era enorme: sposare un
miliardario non era certo un obiettivo più facile nel 1886 di quanto
non lo sia nel 2006, specie se si è nata figlia di pescatori o di
contadini analfabeti che parlano solo dialetto siciliano... come i modelli
di Gloeden.
Al contrario il ragazzo poteva dedicare
qualche anno a barattare la sua irruenza sessuale con un capitale, utile
per sposarsi e iniziare un'attività lavorativa, per poi, una volta
diventato ufficialmente adulto, dimenticare tutto e lasciare il posto alla
generazione successiva.
L'accordo andava benissimo a tutti, ai
ricchi omosessuali, ai ragazzi (in massima parte "eterosessuali-che-però-ci-stavano"),
alle loro famiglie, ai loro concittadini, e resse fino a che la città
non fu abbastanza lanciata, dal punto di vista turistico, da non avere
più bisogno del turismo omosessuale. Che infatti, verso gli anni
Trenta, inizia a cercare altre, più esotiche mete.
L'atteggiamento verso Gloeden non faceva
eccezione. Al proposito Faeta ha compiuto la
suddetta ricerca antropologica sul campo, grazie
a sopralluoghi avvenuti a Taormina
nell'autunno del 1984.
Ho intervistato numerosi anziani, all'epoca
appartenenti ai ceti poveri, adolescenti (1910-1930) negli anni in cui
la vicenda di von Gloeden esprimeva una sua declinante maturità.
Tutti i miei informatori conoscevano
il fotografo, la particolarità del suo atelier e dei suoi
modelli.
Qualcuno lo ha frequentato, sia pur
occasionalmente.
Uno, in particolare, V. L.P., nato
a Taormina nel 1910, è stato per due anni, nella sua prima adolescenza,
amante di von Gloeden. (Faeta,
p. 104).
Da questa indagine è emersa infine,
e senza ulteriori reticenze, che come ci si poteva aspettare basandosi
sulla sua arte
la sessualità di von
Gloeden, così come traspare, pur attraverso il velo di atteggiamenti
autogiustificatori, dalle testimonianze raccolte, è estroversa,
spregiudicata, estrosa, felice, plasmata sui comportamenti raffinatamente
eterodossi che si affermavano in quei decenni negli ambienti colti europei.
Era, inoltre, sostenuta da un innamoramento
profondo ed estetico per la terra che nutriva i suoi modelli. Non siamo
in grado di sapere quanto il fotografo amasse ciascuno di loro, ma certo
li amava tutti insieme in quanto maschi di Sicilia: la sua vita e la sua
opera sono, infatti, sotto il segno di un'emozione prepotente ed esclusiva,
quella per l'isola e il villaggio di Taormina.
Guidato da un istinto seduttorio netto,
von Gloeden adopera argomenti che i giovani del luogo conoscevano, quello
della soddisfazione di un bisogno tra complici, quello del potere e del
fascino del più forte e del più anziano. Lascia loro, interamente,
l'alibi della propria virilità, li seduce con la sua estraneità;
offre piacere attraverso la sua consumata familiarità con il corpo
maschile.
Il paese adulto, tollerante e pettegolo,
vitale e sanguigno, registra che la dimensione dell'omosessualità
giovanile può essere ricondotta senza sforza all'interno dei circuiti
del proprio piacere. Ciò inquieta, divide, genera tensione, invidia,
incomprensione.
Il giovane che si dona all'anziano
in modo così esplicito ed evidente contravviene alle regole comunitarie:
e, infatti, diviene ozioso, intrigante, curioso. Télari (coloro
che, continuamente, ordiscono tela) vengono definiti quanti sono nella
cerchia di von Gloeden, e gli omosessuali in genere.
Il paese sa, tuttavia, che costoro rientreranno,
con il passar del tempo, nella norma, che il fenomeno von Gloeden, non
è che è una variante di qualcosa che è sempre esistito.
Concede loro, quindi, tutte le attenuanti, li accredita di una virilità
che farebbe felice il barone tedesco.
Il mito dell'insaziabile disponibilità
nordica - aristocratica - che si appaga dell'inesauribile eppur pacata
potenza meridionale - popolare - costante di certa cultura del Sud
negli anni del suo intenso rapporto con il Nord (turismo, emigrazione)
viene plasmato a Taormina in versione omosessuale.
La dialettica tra lo straniero, sicuro
oggetto di seduzione sessuale, perché già sedotto intellettualmente
e sentimentalmente, e il dongiovannismo autoctono, irrequieto e febbrile,
si dispiega qui, divenendo elemento di giustificazione e rassicurazione,
in una dimensione maschile. (Faeta,
p. 101).
Si sia d'accordo o no con questa analisi (io
lo sono), resta comunque il fatto, dimostrabile sul terreno, che da questa
esperienza di forte impatto con la realtà omosessuale al momento
della propria nascita come località turistica, Taormina uscirà
come città più tollerante delle altre verso le "diversità"
dei forestieri (mentre per e fra gli indigeni continuava a restare in vigore
una ben più rigida morale siciliana, e l'omosessualità non
era affatto benvista), al punto che per anni questa fu la sola realtà
siciliana ad avere locali gay, ben prima che li aprisse la ben più
grande e moderna Catania.
Ma questa è (già) un'altra
storia.
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9) I modelli
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Questo modello appare
in molte foto del primo periodo, vestito ora da greco, ora da arabo (come
qui, dove è chiamato "Ahmed"). Una delle sue foto si intitola "Peppino".
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Un altro modello molto
presente nelle foto di Gloeden, per una buona decina d'anni. Qui è
chiamato "Pietro".
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La stessa immagine,
trasformata in quadro da Gloeden, ci rende alcuni colori della sua scalinata.
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Lo stesso modello, negli
abiti che indossava nella vita reale.
Abiti non certo di lusso,
e non certo da "Arcadia". Questo è il volto vero del mondo che Gloeden
trasfigurò nelle sue immagini.
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Questo modello appare
in moltissime foto del primo periodo taorminese (circa 1895-1905).
Visti i tratti delicati,
e la sua presenza costante per molti anni, potrebbe forse essere lui il
Vincernzo Lupicino ("Virgilio") di cui parla Nicolosi?
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Ancora un modello molto
presente nelle foto di Gloeden, e addirittura in una celebre serie scattata
a Pompei da Plüschow. Fu lui ad essere portato al museo di Napoli,
come racconta qui sotto Gloeden. Non so dare un nome neppure a lui.
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"I miei soggetti erano contadini,
pastori, pescatori.
Ci volle molto tempo per entrare in
confidenza con loro prima di poterli osservare in mezzo alla natura, avvolti
in vesti leggere, per poi selezionarli ed ispirarli con racconti delle
leggende di Omero, aiutato dalla mia conoscenza del dialetto siciliano.
(...)
I modelli erano quasi sempre allegri
e contenti, avvolti nei loro abiti leggeri, si sentivano a loro agio all'aria
aperta e camminavano suonando il flauto e chiacchierando allegramente.
Non pochi di loro si divertivano a posare
e non vedevano l'ora che mostrassi loro le fotografie scattate.
Una volta per ricompensa portai uno
dei miei modelli più bravi al museo
di Napoli e rimasi deliziato dalla genuinità dei suoi
commenti e dalla sua autentica gioia nell'ammirare le sculture di epoca
classica".
Così Gloeden stesso descrive il suo
rapporto con i suoi modelli nel resoconto
presentato nel 1899 alla "Libera società fotografica di Berlino".
Chi erano costoro? Qualche nome ci è
stato salvato dal gran naufragio della memoria, nel 1959, da Nicolosi:
Pur essendo trascorsi tanti
anni, ancora oggi sono in vita molti di quei personaggi che servirono da
modelli.
Tra i nomi di questi ultimi fa spicco
Vincenzo Lupicino (un barbiere napoletano
al quale fu dato il soprannome d'arte di "Virgilio" e che il Gloeden fece
espressamente giungere dalla sua città natale perché attirato
dalle sue forme, delicate e gentili come quelle di una giovinetta).
E poi: Peppino Caifasso, Pietro
Caspano, Nicola Scilio, Giuseppe De Cristofaro... (Nicolosi,
pp. 52-53).
Nel romanzo di Peyrefitte c'è un altro
"Virgilio", taorminese, figlio di un asinaio e poi fotografo, morto durante
la prima guerra mondiale, che come molti altri persoangi dello scritto
di Peyrefitte è più un personaggio simbolico che una persona
reale.
Secondo Peyrefitte uno degli ulivi del
Viale della rimembranza della Villa
Comunale (i giardini pubblici) porta il suo nome (Peyrefitte,
pp. 178-179), che ovviamente non è "Virgilio" (ho
controllato di persona: l'unico Virgilio caduto nella prima guerra mondiale
commemorato nel viale fu il ten. Virgilio Rizzo, un ufficiale, il che all'epoca
implicava che fosse di famiglia almeno borghese).
Peyrefitte lo presenta, sedici o diciassettenne,
come primo amante del barone von Gloeden all'arrivo a Taormina e sua prima
guida. (Peyrefitte,
pp. 102-116 e 178).
Virgilio, che aveva concepito
per me una specie di passione, vedeva con dispetto il successo che ottenevo
coi suoi amici e il suo carattere giunse a incupirsi tanto da far temere
una malattia.
Un giorno, trovandosi solo con sua
madre, le confessò, dopo una crisi di pianto, di soffrire per causa
mia e la povera donna ebbe all'improvviso una strana idea; attribuendo,
e giustamente, a gelosia amorosa il dolore del figlio, gli domandò
se per caso io non fossi una donna travestita. Di colpo Virgilio smise
di piangere e cominciò a ridere, ma sua madre, cui probabilmente
per la prima volta veniva in testa un'dea così ardita, non si arrese:
dichiarò che potevamo essere tutti d'accordo e che avrebbe creduto
soltanto ai suoi occhi. (Peyrefitte,
pp. 111-112)
Il racconto prosegue con la madre che con
una scusa va sulla spiaggia, dove il barone e il figlio facevano il bagno
nudi, per verificare il sesso dell'innamorato del figlio: scoprendo che
è un uomo, se ne va sollevata. Una scena più comico-folcloristica
che storica.
Non è stata per ora fatta una ricerca
storica sui modelli di Gloeden (Faeta
è infatti più interessatio ai risvolti psicoanalitici ed
antropologici che a quelli storici). Ascoltare anche il loro punto di vista,
a mio parere, sarebbe stato interessante.
Negli anni Sessanta una rivista "omofila"
svizzera andò a cercarli, ma si limitò a fotografarli da
vecchi, ormai nonni. Non ho mai trovato quel documento, quindi non so se
contenesse o no testo. So che, calcolando che nell'ultima parte della sua
vita Gloeden fotografò poco o nulla, i suoi modelli dovrebbero essere
ormai morti tutti, o avere minimo cent'anni. La possibilità di chiedere
il loro punto di vista, quindi, ormai non esiste più.
Con un poco di pazienza si potrebbe interrogare
i loro discendenti, anche perché nel mio ultimo viaggio a Taormina
ho trovato un atteggiamento più aperto che un passato rispetto al
tema (quando la gente addirittura si stupiva del fatto che Gloeden fosse
noto al di fuori di Taormina). Ormai i "fattacci" sono talmente vecchi
(per i più giovani è roba da quadrisavoli), e il turismo
a Taormina si è talmente emancipato da quelle prime mosse, che parlare
della cosa suscita meno paranoia che vent'anni fa (quando feci i primi,
infruttuosi tentativi in tal senso).
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10) Gaetano
D'Agata (1883-1949)
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Non ho trovato nessun
ritratto del viso di D'Agata. Ringrazio chi
potesse aiutarmi a trovarne uno.
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Il timbro delle foto
di Gaetano D'Agata.
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Gaetano D'Agata, Nudo
maschile. Prima del 1929.
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Gaetano D'Agata, Nudo
maschile che imita la posa del celebre Caino di Gloeden. 1923.
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Qui parliamo della concorrenza a Gloeden.
Che a quanto pare ebbe anche imitatori. Quelli di cui Peyrefitte
ha scritto (e non senza buone ragioni), facendo parlare in prima persona
Gloeden:
Non basta, per ottenere un
nudo artistico, mettere un po' di fiori attorno al capo o fra le braccia
del modello, come ognuno può constatare dai tentativi dei colleghi
che non tardarono a pullulare sul luogo. Ma gl'imitatori mi han sempre
divertito, coi loro efebi che parevano esser pagati da un nemico di Taormina,
o dagli efebi stessi. (Peyrefitte,
p. 119).
Falzone Barbarò
segnala (p. 25) fra gli assistenti di Gloeden nel momento del suo massimo
successo, oltre a Pancrazio Buciunì
e al parente di Crupi già citato più sopra, anche un Gaetano
D'Agata (1883-1949).
Si tratta di un taorminese, che in un momento
imprecisato (ma le sue foto di nudo datate che sono venute alla luce fino
ad oggi si concentrano negli anni Venti) si sarebbe "messo in proprio"
cercando di far concorrenza a Gloeden.
Gaetano D'Agata cercò,
con personale impegno, di mantenere vivace un progetto di lavoro basato
sulla fotografia, non solo quale strumento di documentazione, ma anche
d'improvvisazione artistica.
Originario della provincia catanese
(proveniva da Aci S. Antonio), giunse giovanissimo a Taormina, trovando
nella località costiera stimoli ed interessi tali da stabilirvi
la propria residenza.
Sposò una ragazza del posto
e, alla morte di questa, una donna austriaca, avendo un figlio da entrambe.
Viaggiò molto in Spagna, Irlanda,
India e Stati Uniti d'America, arrivando ad aprire un atelier in
New York, studio che però rimase attivo per un solo anno.
Partecipò ad alcune esposizioni
di livello nazionale, come quella di Torino del 1923 e di Roma l'anno successivo,
riportando lusinghiere segnalazioni.
Il suo lavoro consistette, per la gran
parte, nella ripresa di tradizionali vedute di paesaggio, appena permeate
del fascino di un pittorialismo di maniera, adatte ad un pubblico di medi
interessi artistici. (Mirisola,
p. 37).
D'Agata registrò in effetti una più
che dignitosa produzione come paesaggista "da cartolina", e molte sue foto
"di genere" furono usate per cartoline che rimasero in circolazione per
decenni. In questo campo D'Agata si rivelò un buon fotografo commerciale.
Accanto a quella di paesaggi ci fu però
una produzione di nudo maschile (il cui catalogo è attestato
con numeri che vanno oltre il 200) che non merita certo di passare alla
storia dell'arte. Innanzi tutto, a colpo d'occhio si capisce immediatamente
che D'Agata era eterosessuale. Nei suoi nudi maschili si vede chiaramente
che egli non riusciva a percepire gli elementi che possano rendere erotico
un corpo maschile. Di conseguenza sbaglia spesso la messa in posa dei suoi
modelli, mentre Gloeden, fino alla fine, non ha mai sbagliato una posa.
Prendiamo per esempio l'imitazione che
D'Agata fa del celebre
Caino di Gloeden (del 1905 circa), una foto che
è stata ristampata innumerevoli volte ed imitata altrettante, e
che dal
processo a Buciunì sappiamo essere stata perfino esposta
come decorazione artistica negli alberghi taorminesi.
D'Agata, palesemente, vuole provare a
ripetere il "colpaccio", variando ovviamente un poco la posa perché
non si dicesse che aveva copiato.
E allora, cosa fa? Al posto di un giovanotto
muscoloso mette un ragazzotto che l'adolescenza ha appena prosciugato di
volume dandogli membra lunghe e sottili, carino di viso ma giraffesco nelle
proporzioni. Inoltre ne mette in primo piano i piedi, in modo tale
da farli sembrare sproporzionati, enormi.
Alla fine, il ragazzo è caruccio,
pov'rino, la foto è antica di quasi cent'anni quindi alle aste online
il suo prezzuccio lo spunta comunque, ma l'immagine in sé resta
comunque solo "una copia del Caino di Gloeden" e basta. Un "vorrei-ma-non-posso".
Il bello è che anche la foto di
Gloeden imitata era a sua volta una imitazione del Giovane
uomo seduto sulla riva del mare di Flandrin, oggi al Louvre
(una icona gay). Ma Gloeden ha abbastanza cultura artistica e dell'immagine
per rifarlo come cosa sua, come avrebbero fatto anche Fred
Holland Day, Robert
Mapplethorpe o Tony
Patrioli. D'Agata invece conosce solo Gloeden; quindi non imita
direttamente Flandrin, ne imita l'imitazione... col risultato inevitabile
dell'impoverimento del risultato.
Inoltre, come un cuoco che per coprire
le sue malefatte esagera coi condimenti, nelle sue foto D'Agata esagera
col principio secondo cui "giovinezza è bellezza", rifilandoci nelle
sue foto ragazzini spesso a malapena puberi, gracili, ossuti, adatti al
massimo a fare il puttino con le ali in processione...
Insomma, le sue, più che foto di
nudo, sono foto di ragazzini senza le mutande, nelle quali sia la sensibilità
omoerotica sia la poesia presenti in Gloeden sono assenti.
Date queste premesse, e dato che anche
lo stesso erede di Gloeden ebbe problemi con la stretta censoria innescata
dal regime fascista a partire dal 1930, e dato infine che il pittorialismo
fotografico di Gloeden che D'Agata imitava era passata di moda a partire
dal periodo della Grande Guerra, è improbabile che la produzione
di nudo maschile di D'Agata sia sopravvissuta oltre il terzo decennio del
XX secolo.
Ciò non toglie che di tanto in tanto
emerga sul mercato qualche scatto ben impostato (a volte nei luoghi di
Gloeden, ad esempio la sua casa, il che lascia sospettare un aiuto del
maestro nella concezione dell'immagine).
D'Agata è insomma un altro fotografo
di nudo maschile che attende di essere studiato e catalogato, ma che non
può aspirare alla fama artistica di Gloeden. Ne è un epigono,
brilla di luce riflessa, e la sua stagione si chiude al chiudersi di quella
dello stesso Gloeden.
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11) ...Nedda & c.
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Nedda cucciola. Incisione
da una foto di Gloeden, edita su rivista nel 1893.
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Nedda cresciuta,
in una foto successiva.
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Ancora Nedda mentre
fa le feste a un modello.
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Zinaida Gippius, nel 1899, nomina nel
suo racconto di una serata passata a casa Gloeden
Nedda, il cane nero,
che capisce perfettamente l'italiano ed è molto abituato a posare
per le fotografie.
(Gippius).
(In realtà, essendo "Nedda" un nome
siciliano femminile, vale a dire "Nella", sarà stata semmai una
cagna).
E Falzone Barbarò ha raccolto dalla
voce dei testimoni che Gloeden
aveva molti altri animali domestici,
tra cui un grosso cane nero a cui aveva insegnato a zampettare sul suo
pianoforte. (Falzone Barbarò,
p. 23).
Gloeden aveva infatti una vera passione per
gli animali, divertendosi ad ammaestrali e
lasciarli girare liberi per la casa. In molte foto della scalinata
di casa Gloeden si intravede sul retro perfino una voliera per gli uccelli.
Così scrive Nina
Matteucci, nel 1910:
È notorio ed anche sorprendente,
come egli arrivi ad ammaestrare i volatili, dal tacchino
al colombo, dal corvo all'usignuolo.
Egli riesce ad insegnare, col fischio,
una canzone ad un uccello, che la ripete subito dopo modulandola nella
piccola gola, in tutte le note alte e acute, basse e morenti. Ad un suo
cenno l'uccello gli salta sul dito, contento di venir portato a spasso,
lo bacia, gli va sulla spalla, e dopo un certo tempo ad un secondo cenno
rientra nella gabbia, e canta come di sfida alla libertà!
Uno stuolo di colombe vola riunito,
dal tetto della casa, e gira e rigira nell'aere libero nel medesimo
verso, fino a che egli non dica “basta” battendo due o tre volte le mani,
al che come
dal desìo chiamate con l'ali aperte e ferme ritornano
sul tetto; nel medesimo attimo. (Matteucci,
p. 404).
In questo zoo, Nedda fu il suo animale
preferito.
Appare cucciola in una foto sicuramente
anteriore al 1893 e quindi la sua presenza può essere d'aiuto a
datare al decennio successivo le foto in cui appare (Gloeden datava le
foto in base all'anno in cui le stampava via via, e non in base a quello
in cui le aveva effettivamente scattate, perciò datarle con esattezza
è problematico).
Oltre a Nedda, in altre foto di Gloeden
appare un cagnolino di piccola taglia, bianco e con una macchia nera su
un occhio.
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I
luoghi di Gloeden. Napoli, "Terra del fuoco".
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Il timbro usato da Gloeden
a Napoli.
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Il soggiorno di Gloeden a Napoli è
testimoniato sia dalle foto scattate in quella località, sia dal
timbro con cui le vendeva, che la menziona espressamente.
Nelle foto scattate a Napoli sono presenti
almeno due locations (oltre a quelle nei dintorni, come Pompei e
Capri).
La prima è la casa di Plueschow,
che è indicata nei suoi timbri all'indirizzo "Seconda rampa di Posillipo
55" (oggi "Rampe di Sant'Antonio").
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La terrazza di Plueschow
a Posillipo. Particolare interessante: ho assemblato questo mosaico a partire
da
un'immagine di Gloeden (in color seppia) e da
due di Pluschow
(in grigio).
La terrazza è
in primo piano, sulla destra si apre lo spazio della scaletta che scende
in giardino. A sinistra, l'imponente muro di contenimento.
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La casa ha un terrazzo che corre lungo
un massiccio muro di contenimento coronato da pini, e sbocca in un giardino,
da cui è separata da una corta gradinata.
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Il giardino della casa
di Posillipo, ricostruito con un mosaico di immagini del solo Plueschow.
La muraglia di contenimento
è alla spalle di chi guarda la foto.
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Alle spalle dei modelli, nelle foto, s'intravede,
ad un'altezza non eccessiva (un quarto piano) l'attuale imbocco di Corso
Gramsci, nonché (dal fondo del giardino) il campanile della chiesa
di Piedigrotta e il cornicione della caserma adiacente.
È possibile che questo edificio
con giardino esista ancora, almeno a giudicare dalle vedute aeree di "Google
maps".
La seconda location è una
casa che sembra essere stata a disposizione, questa volta di Gloeden, per
più anni, almeno a giudicare dal fatto che nelle foto l'intonaco
di alcuni punti (come la vera della cisterna) si sgretola progressivamente,
e soprattutto dal fatto che alcuni "affreschi" (in realtà "a secco")
con decorazioni grecizzanti dipinti da Gloeden attorno e al di sopra della
porta, fanno in tempo a sbiadire e a cadere in più punti.
Ho ricostruito, sempre con la tecnica
del mosaico, uno dei due lati corti di questa terrazza, molto caratteristico:
I miei corrispondenti Jacques Desse
e Malcom Gain hanno condotto una ricerca sulla localizzazione di
questa seconda casa, concludendo che probabilmente sorgeva nella zona oggi
fittamente segnata da case di recente costruzione, ed è quasi certo
che non esista più.
Desse ha comunque trovato due foto inedite
che gli hanno permesso di avere una panoramica completa a 360 gradi sulla
terrazza, scoprendo che il fotomosaico qui sopra publicato ritrae la stessa
terrazza da cui fu scattata la celebre fotografia "Terra del fuoco",
dal lato corto opposto, nonostante il coronamento in cemento del parapetto
presente solo su un lato facesse pensare a due terrazze diverse.
Alla fine la soluzione è arrivata mentre consultavo la collezione di foto gloedeniane della Civica raccolta di stampe Bertarelli di Milano, che
conserva una foto di WIlhelm von Pluschow (la numero 6172 del suo catalogo) che mostra la terrazza per intero, e che
sul retro la identifica a matita come "Villa Barbaja, Posillipo":
Concludo limitandomi a nominare la presenza
nelle foto di Gloeden di una terza location, una terrazza con un
lucernario dalle eleganti finestri ovali. Vi appaiono modelli taorminesi
in età ormai adulta (il che data le foto attorno al 1895/98), e
molti nudi femminili. La localizzazione di questo edificio non è
però certa e quindi per ora lo trascurerò.
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l
luoghi di Gloeden. Taormina, ieri e oggi.
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Giovanni
Crupi, Gloeden e il parroco di Castelmola davanti a San
Pancrazio, ca. 1900.
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La stessa immagine,
colorizzata per essere venduta come cartolina turistica.
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La stessa strada,
come si presentava nel 2006.
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Giovani Marziani, Palazzo
Corvaja, [circa 1900].
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Palazzo
Corvaja nel 2006 (mannaggia a tutti 'sti alberi cresciuti davanti
nel frattempo!).
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Palazzo Corvaja nel
2006.
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Il teatro
grecoromano in una foto di Gloeden.
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Il teatro
grecoromano nel 2006.
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Il teatro grecoromano
in una foto di Gloeden.
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Il teatro grecoromano
nel 2006.
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Giovanni Crupi, Panorama
dal Teatro Greco, ca. 1900.
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Panorama dal Teatro
Greco nel 2006.
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Anonimo, La chiesa di
santa Caterina di Alessandria nel 1900 ca.
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La chiesa di santa Caterina
di Alessandria nel 2006
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Giovanni
Crupi, Porta Messina all'inizio del secolo XX.
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Porta Messina nel gennaio
2006.
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Giuseppe
Bruno, Porta dei Cappuccini, 1890.
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Porta dei Cappuccini,
gennaio 2006.
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Giovanni
Crupi, Panorama, con vista di Castelmola. 1890/1900 circa.
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Panorama, con vista
di Castelmola. 2006.
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pagina
La
casa di Gloeden (Piazza san Domenico 10). Ieri e oggi.
Nei primi tempi del suo soggiorno Gloeden
a Taormina alloggiò presso il convento di san Francesco, dato che
a Taormina non esisteva ancora un'industria turistica (fu la sua generazione
a crearla).
Poi stette per alcuni anni in una villa
affittata sulla via del Teatro Greco. (Falzone
Barbarò, p. 22).
Nel frattempo si concedeva frequenti viaggi
a Napoli, dove come appena detto risiedeva il cugino Wilhelm von
Plüschow, Roma e Capri,
dove conobbe alcuni tra i maggiori
esponenti della vita culturale e artistica di quegli anni, da Matilde
Serao a D'Annunzio
a Francesco
Paolo Michetti, contatti che gli servirono per assimilare ulteriormente
le forme dell'arte classica, fino a modificare la sua vita artistica secondo
lo spirito e gli ideali dell'arte antica e raggiungere così una
purificazione e un potenziamento del suo senso artistico.
Spinto da questo ideale incominciò
a creare e a fotografare i suoi famosi "ignudi" e le sue "scene arcadiche",
come lui steso le definiva, all'inizio per puro divertissement e
senza alcuno scopo commerciale. (Falzone
Barbarò, p. 22).
Infine, quando fu sfrattato dalla casa appena
citata
per le rimostranze del proprietario
che non tollerava le chiassate notturne di quegli strani tipi (Saglimbeni,
p. 33),
acquistò appena in tempo, prima del
tracollo finanziario del padre, una casa con giardino in piazza san Domenico,
dove sarebbe vissuto (con la sorella Sophie
Raabe) fino alla morte.
Qui
Wilhelm von Gloeden visse di
fotografie. Non ritornò ad essere ricco, ma condusse un'esistenza
decorosa, avendo anche la possibilità di ricompensare quanti lo
avevano aiutato nei momenti difficili.
Un solo servitore (Pancrazio
Buciunì,
(...) soprannominato Il Moro) gli faceva da mangiare,
i mestieri di casa, e lo seguiva come un'ombra per la campagna di Taormina,
reggendo in spalla la monumentale macchina fotografica e la ancor più
pesante borsa delle lastre. (Saglimbeni,
p. 36).
Immortalato da Gloeden in decine
e decine d'immagini, specie nel
lussureggiante giardino, questo edificio, familiare a tutti
coloro che conoscono le foto di Gloeden... non esiste più [4].
Fu infatti distrutto durante
la seconda guerra mondiale (assieme alla vicina chiesa di san Domenico
e a un'ala dell'albergo San Domenico), nel luglio 1943, dai bombardamenti
inglesi, che miravano al quartier generale tedesco, comodamente installato
nell'hotel di fronte alla casa di Gloeden.
Ironia della sorte: la casa
accanto, di cui ci rimane una nitida foto di Gloeden, non solo esiste ancora
praticamente immutata dopo oltre un secolo (a parte un sopralzo
discreto), ma ospitava fino a pochi anni fa una discoteca gay (oggi
chiusa), il "Perroquet"!
A sua volta Gloeden pochi
mesi prima di morire aveva ceduto al taorminese Salvatore Bambara l'immobile,
in cambio di un vitalizio di 2000 lire annue, per far fronte alla
gran scarsità di denaro che lo afflisse in vecchiaia:
la sua arte (come del resto tutta la corrente artistica a cui apparteneva,
il pittorialismo fotografico) era passata di moda, come lo era l'ideale
estetico (ed erotico) del ragazzo androgino e languido in cui s'era specializzato.
Sul terreno che un tempo
ospitava la casa e buona parte del giardino di Gloeden sorge oggi un commissariato
di Polizia, un edificio a più piani anni sessanta, bruttarello anzichenò,
che è proprio il caso di definire "un casermone".
---***---
* L'interno della casa
Com'era questa casa?
Peyrefitte, che non la vide di persona,
la fa descrivere così al suo Gloeden:
Sulla piazza che lo fronteggiava
[il san
Domenico, NdR] trovai una graziosa casetta che acquistai
(...): di forma bizzarra e a un sol piano, sotto un tetto irregolarmente
scosceso, essa è abbastanza lunga per costituire pressappoco da
solo il fondo del quadrilatero racchiuso dal giardino. (Peyrefitte,
p. 115).
Anche Falzone Barbarò
specifica che
Si trattava di
un edificio medievale di stile mediterraneo a un solo piano, a cui apportò
alcune modifiche per renderlo più comodo e confortevole per sé
e la sorella. (Falzone
Barbarò, p. 22).
In realtà la prima delle
foto che pubblico qui sotto mostra che per esprimersi più esattamente
la casa di Gloeden era collocata su due piani, un piano terreno e un primo
piano, al quale ultimo si accedeva per una scala esterna in muratura. Oltre
alla scalinata era presente una balconata di un qualche tipo.
Zinaida Gippius la casa la vide,
e la descrisse così nel 1899:
Il barone G., che da
tanto si preparava a dare una serata nella sua piccola villa accogliente
e a mostrarci la vera tarantella, venne a invitarci.
- "Avrete molti siciliani?".
- "Che dite! Sarà la nostra
piccola cerchia. Tra i miei conoscenti non inviterò nemmeno tutti
gli stranieri. Ho anche poco posto. Il mio Luigi (Pancrazio
Buciunì, NdR) stampa addirittura le fotografie
in cucina".
Amavamo la villa poco spaziosa e accogliente
del barone G.
Una casetta bassa, appena visibile
dalla siepe del giardino lussureggiante, pieno di strane rose, lo stretto
balcone, la parete bianca sopra il balcone, coperta da grossi fiori violacei,
e i glicini pallidamente lilla, dolcemente piegati. (Gippius).
E Nina Matteucci, nel 1910:
Il suo
salotto, originalissimo, è un museo d'arte, ed è
là che egli passa il suo tempo, quando, non lavora, o quando il
suo grande amore agli uccelli non lo attira nelle diverse uccelliere situate
qua e là nel giardino. (Matteucci,
p. 404).
Falzone Barbarò possiede informazioni
più dettagliate, raccolte in loco da testimoni oculari all'epoca
(1980) ancora vivi:
La casa era in realtà
molto piccola.
Saliti alcuni scalini si accedeva
a un grande salone, dai muri semplicemente intonacati di bianco,
senza nessuna pretesa di arredamento, senza nessuno dei mobili di famiglia,
se non il pianoforte tedesco con cui Gloeden amava intrattenere gli ospiti.
Quel che balzava all'occhio era piuttosto
una ricerca di comodità: basti pensare ai grandi divani e poltrone,
ricoperti di tappeti turchi e di pelli di animali esotici, che spesso,
trasportati all'esterno, gli servivano per completare molte delle sue ricostruzioni
fotografiche
Dal salone si entrava direttamente
in una spaziosa sala da pranzo, su cui si affacciavano le camere
da letto di Wilhelm e della sorella. Unico lusso per quei tempi: una
vera stanza da bagno.
Secondo il modulo architettonico locale,
la cucina e la dispensa erano separate dal corpo principale
mediante un piccolo cortiletto di servizio su cui si apriva un ingresso
secondario.
Nel rimaneggiare la costruzione,
dalla dispensa venne ricavato il laboratorio fotografico, mentre
una specie di mansarda nel sottotetto, asciutta e ventilata, venne
utilizzata come magazzino per le lastre impressionate.
(Falzone Barbarò,
p. 22-23).
Sono riuscito a ricostruire, montando a mosaico
una dozzina di fotografie, il cortiletto di servizio di cui parla Falzone
Barbarò: ecco in che modo appariva
|
Il cortiletto della
casa di Gloeden ricostruito a partire da un mosaico di sue immagini. Fare
clic sull'immagine per un ingrandimento (per tornare a questa pagina usare
poi il tasto "indietro" del browser).
Il mosaico serve solo
per dare un'idea generale: non tiene conto infatti della prospettiva dei
due muri laterali, che qui non appaiono a 90 gradi come avrebbero dovuto,
e lo zoccolo è stato in parte ricostruito da me usando un pezzo
della foto centrale.
|
A sinistra, ad angolo con un muro che separa
da un secondo cortiletto, appare la porta della dispensa/cantina, come
rivela la griglia d'aerazione in metallo.
Segue una semicolonna, usata per appoggiare
le travi di sostegno per un eventuale pergolato. Al centro, la finestra
della cucina/laboratorio, sotto cui c'è uno sgabello che appare
in parecchie foto scattate in questo cortile.
Segue una giara decorata, anch'essa molto
presente nelle foto di Gloeden.
Poi la porta della cucina-laboratorio,
come rivela la
fotografia numero 3088, nella quale la porta è aperta e s'intravede
l'interno, con una piattiera da esposizione:
Completa il cortiletto una seconda semicolonna,
e sulla destra una parete nella quale si apre la porta di una stanza che
proseguiva fino ad incontrare il sentiero d'ingresso che correva parallelo
alla casa, chudendo il cortiletto da quel lato. Per qualche motivo (sarà
stata la camera oscura?), Gloeden "tappa" spesso questa porta con un lenzuolo
bianco (cosa che invece non fa con le altre porte), come avviene anche
nella foto che ho usato nel mosaico.
Sulla destra, tre scalini permettono di
superare il dislivello causato dallo zoccolo su cui sorge la casa.
Un sentierino brevissimo, lastricato in
schegge di pietra non squadrate, porta al giardino, come appare evidente
in questa foto, scattata tenendo la schiena verso il giardino e la faccia
verso la casa:
|
Foto numero 41 di Wilhelm
von Gloeden. Attraverso la porta aperta s'intravede la semicolonna di destra
e la parete (bianca: dietro e sopra il vaso) della stanza che chiude sul
lato destro il cortiletto.
Fare clic per ingrandire.
|
Sullo sfondo, dalla porta aperta nel muro
che divide il sentiero che corre parallelo alla casa dal cortiletto, si
vede la semicolonna di destra e la scalinata di tre gradini.
Quanto all'interno vero e proprio, Matteucci
pubblica nel suo articolo una foto di Gloeden al lavoro nel suo studio
(la sola che al momento può considerarsi una rappresentazione certa
dell'interno di questa casa), mentre ritrae un modello. Più che
un museo sembra un magazzino di bric-à-brac il cui proprietario
non riesce a decidersi fra gusto art nouveau e accademismo ottocentesco...
ma tutti i gusti son gusti.
Ecco le pochissime foto degli interni che
ho rintracciato fin qui:
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La casa di Gloeden in
una foto pubblicata nel 1910 nell'articolo di Matteucci, a p. 403. Gloeden
vi posa mentre fa il ritratto a un modello in abiti orientali. (Archivio
G. B. Brambilla).
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Già che ci siamo,
ecco un'altra foto dell'interno della casa di Gloeden. La si riconosce
come tale per la presenza della giara dipinta da lui, che appare in altre
sue foto ambientate nel giardino. Anche le palmette decorative saranno,
al solito, opera sua. Resta però da verificare che non si tratti
di un ambiente della casa di Napoli.
|
Questa foto era apparsa
su ebay come ritratto dello studio di Gloeden. Magari lo è, ma il
gusto strettamente art nouveau della mobilia rende improbabile l'attribuzione.
A giudicare dalle sue foto, il rapporto di Gloeden col liberty fu
infatti vicino allo zero...
|
Per concludere con le testimonianze, ecco
quella di Caroline
Atwater Mason che vide la casa nel 1913, un attimo prima che
la Grande Guerra ponesse fine alla fase più felice della vita di
Gloeden (e rubasse la vita a molti dei suoi modelli):
La prima volta che visitammo
San Domenico
facemmo una scoperta che ci spinse a cambiare strada. Quasi di fronte all'albergo,
notammo un'entrata che si apriva in un alto muro sommerso dall'edera: anch'essa
era coperta d'edera e decorata dalla rosea cascata di fiori di un mandorlo.
Un'insegna indicava che eravamo libere
di entrare, e, alquanto timide, ci facemmo avanti finendo per ritrovarci
in un giardinetto tappezzato di violette e circondato lungo il muro interno
da gabbie piene d'uccelli.
Di fronte a noi la facciata d'una casetta,
tinteggiata di color crema, era quasi nascosta da una sontuosa bougainvillea,
i cui ramoscelli cremisi ondeggiavano nel vento oltre la porta aperta verso
la quale ci volgemmo.
Sulla soglia di questa romantica dimora
fummo ricevute dal proprietario, il barone von Gloeden, con le
cui inimitabili foto avevamo già dimestichezza. (Caroline
Atwater Mason, p. 201).
---***---
* L'esterno della casa
Quanto segue è quanto mi è
stato possibile recuperare, dal punto di vista fotografico.
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Mappa di Taormina (dalla
guida Baedeker - Sud Italia) del 1912, con indicato l'isolato della casa
di Gloeden.
Cortesia Malcom Gain,
Parigi.
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La casa di Gloeden nel
1900 circa.
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La casa confinante con
quella di Gloeden nel 1900 circa.
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La casa di Gloeden e
quella vicina nel 1900 circa. Mio montaggio delle foto precedenti.
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Lo stesso fotomontaggio,
un po' colorizzato da me :-)
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.La
villa di Gloeden nel 1900 circa.
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L'edificio che sorge
oggi al suo posto, nel 2006, costruito anche su buona parte dello spazio
un tempo occupato dal giardino.
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L'isolato col giardino
di Gloeden, visto dal San Domenico, in una cartolina prodotta da Gloeden
(in basso a sinistra). Circa 1900.
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L'isolato nel quale
un tempo sorgevano la casa e il giardino di Gloeden, 2006.
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La casa confinante con
quella di Gloeden nel 1900 circa.
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La casa confinante nel
2006 (le piante ne impediscono oggi una veduta d'insieme). Se ne nota il
bovindo, pressoché immutato in oltre un secolo.
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Dettaglio del bovindo
della casa confinante con quella di Gloeden, nel 2006.
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Il vicolo che delimitava
il confine dell'isolato della casa di Gloeden. È possibile che la
casa di Gloeden avesse un ingresso anche su questa stradina.
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L'ingresso principale
alla villa di Gloeden nel 1900/1910.
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Lo
spiazzo davanti all'ingresso alla villa di Gloeden nel 1904. Acquerello
di Charles King Wood (1869-1942, collezione Malcom Gain, Parigi). Wood
viveva a Taormina ed era amico di Gloeden.
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L'ingresso alla villa
di Gloeden nel 1904. Dettaglio dal dipinto precedente. (collezione
Malcom Gain, Parigi).
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L'ingresso dell'edificio
attuale, nel 2006.
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Qui vediamo il lato
sinistro dell'isolato (mettendosi di spalle al San Domenico). Sull'estrema
destra si nota il giardino della casa di Gloeden verso il 1895-1890, sulla
sinistra la chiesetta di san Michele e, dietro, il palazzo dei duchi di
Santo Stefano.
La foto è del
maestro di Gloeden, Giuseppe
Bruno.
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La stessa chiesetta
di san Michele nel 2006, da un punto di vista diverso (la precedente è
scattata dai giardini dell'hotel, dove non potevo certo entrare). Si nota
che la casa a sinistra conserva il corpo di fabbrica già esistente
nel 1895, con variazioni minime, ma solo una piccola parte del giardino,
oggi edificato.
|
Un'altra veduta della
stessa area a inizio secolo scorso, in una cartolina colorata a mano. Sulla
destra il giardino di Gloeden. A quanto pare sul tetto c'era un terrazzo,
ma da questa foto lo si direbbe in uso alla casa dietro alla sua, che vi
si affaccia direttamente con porte-finestre. Non mi risulta in effetti
che sia stato usato nelle sue foto.
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La strada vista dal
lato opposto. Qui c'è l'edifico alla destra della casa di
Gloeden, fotografato nell'Ottocento, prima della costruzione del bovindo.
All'estrema sinistra si vedono le colonne da pergolato sul muro del giardino
di Gloeden; il giardino di questo edificio ne mostra la funzione.
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Il
giardino
Il giardino aveva un ruolo importante nella
vita di Gloeden. Come scrisse Nina Matteucci nel 1910:
Così egli vive: tra
i fiori del suo giardino, che dà una vera idea di vegetazione
tropicale, talmente le piante vi sono rigogliose, e intricate. (...)
Nella mattina egli lavora, quando non
è in giardino a curare i suoi fiori, che crescono rigogliosi, in
omaggio al panorama bellissimo, coll'Etna da un lato. (Matteucci,
p. 405).
Buona parte della proprietà
di Gloeden era occupata dal giardino, gremito all'inverosimile di piante,
alberi e fiori oltre che di "giare", i caratteristici, panciuti orci siciliani
di grandi dimensioni.
Senza essere enorme quanto
la scelta accurata dei punti di vista lo fa sembrare nelle foto, era comunque
un giardino di dimensioni degne di questo nome: fra casa e giardino la
proprietà di Gloeden occupava infatti un isolato.
Il giardino aveva la forma
di un rettangolo con il lato più lungo come base, al cui vertice
superiore era disposta la casa.
Il portone si apriva verso
il San Domenico, la casa stava sul lato opposto; fra il portone e la casa
stava il giardino.
Il portone non era al centro
del muro, bensì spostato verso il lato sinistro.
Il muro di cinta era di
un colore rosso mattone ed era sovrastato da colonne, che in passato erano
servite a reggere un pergolato, probabilmente di viti, simile a quelli
che
mostrano nelle foto le case adiacenti.
Il giardino era percorso
da un sentiero, o forse due, parallelo/i al lato lungo del rettangolo.
Parallelamente alla casa,
un muretto ritagliava dal giardino un cortiletto "di servizio", al quale
si accedeva da un varco il cui stipite sinistro era decorato (come anche
il portale principale della proprietà) di palmette grecizzanti dipinte
dallo stesso Gloeden. Dal varco si vedeva la porta (quella della dispensa
o della cucina), grezza e scura, decorata con spighe chiare, e sulla sinistra
una colonna bianca addossata al muro.
La casa occupava in lunghezza
uno spicchio del rettangolo, al primo piano, e vi si accedeva per mezzo
di una scalinata che davanti alla porta aveva una ballatoio decorato da
vasi, sulla quale si protendevano i fiori di un albero di Brugmansia,
più nota col nome di Datura (sì, quello da cui trae
la sostanza stupefacente!).
Da qualche parte nel cortiletto
era addossata a un muro (non saprei dire quale) una panchina decorata con
palmette. Nel cortile riusciva a trovare posto anche una voliera, che per
qualche tempo si intravede nelle foto di Gloeden.
Il cortile stesso era lastricato
con pietre quadrate e aveva una porta che dava sulla strada (anzi, sulla
piazzetta) sul lato sinistro (tenendo le spalle al San Domenico).
Ovviamente tutti questi luoghi
ci sono noti solo perché appaiono nelle foto di Gloeden. Ma appunto
per questo averli presenti è utile per riconoscere e attribuire
correttamente le decine di foto di Gloeden ma anonime che continuano a
spuntare sul mercato antiquario. Conoscendo bene i modelli e i luoghi è
più facile distinguere le foto davvero di Gloeden da quelle che
gli sono solo attribuite a capocchia (metà delle foto di "Gloeden"
che circolano sul web non sono sue!).
Ecco qualche esempio.
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Il vialetto del giardino
di Gloeden accanto all'ingresso (che si trova a sinistra, dietro il ragazzo
travestito da ragazza, ed è ricoperto dall'edera). La colonna sul
muro offre un facile punto di orientamento.
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Bambina con cesta, nello
stesso vialetto del giardino di Gloeden.
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Nudo maschile nel medesimo
vialetto del giardino di Gloeden.
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Un angolo del giardino
di Gloeden, quasi una giungla, in una foto del 1907, colorita da qualche
suo antico proprietario. Si notino le palmette dipinte sullo stipite del
varco nel muro, sulla destra: le ritroveremo nella prossima foto.
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Il passaggio nel muro
fra il giardino e il sentiero parallelo alla facciata della casa. Lo stipite
sulla sinistra è decorato dalle palmette dipinte viste nella foto
precedente, anche se questa è una seconda apertura nel muro di chiusura
del senteiro. Sul fondo si intravede la porta decorata da spighe. In altre
foto, sulla sinistra si intravede oltre il portale una colonna bianca addossata
al muro.
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Qui siamo già
dentro sentiero che corre parallelo alla casa, e si vede sul fondo la porta
decorata a spighe, oltre che lo stesso vaso della foto precedente.
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La semicolonna che s'intravede
nel cortiletto, quando ancora il muro non era ricoperto dai rampicanti.
Nella foto successiva si noterà che le colonne erano due.
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Ancora il cortile di
servizio, guardando verso la parte sinistra: qui si vede il muro della
casa fino al punto in cui incontra il muro di cinta.
S'intravede ancora una
colonna, collocata a sinistra della porta, ma i rampicanti hanno ricoperto
il muro.
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Usciamo dal cortiletto
e torniamo sul sentiero. A sinistra una porticina immette in questo cortile.
La presenza del glicine è testimoniata dagli ospiti della casa.
Ipotizzo perciò che sia questo il "piccolo cortiletto di servizio
su cui si apriva un ingresso secondario" (sul vicolo che corre a destra
dell'isolato), di cui parla Falzone Barbarò
(p. 23).
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La panchina decorata
da palmette stava in giardino, non so in quale punto. Forse alla base di
una finestra al pianterreno?
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La scala d'ingresso,
in un'immagine già vista in precedenza. Alle spalle del modello
s'intravedono, su due piani diversi, una porta e una porta-finestra che
danno entrambe su uno stretto terrazzino.
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Ancora il ballatoio.
Alle spalle del modello,
sulla destra, fa capolino la casa confinante, con un caratteristico sottotetto.
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Il fondo del terrazzino
d'ingresso. Dietro al modello, una voliera per uccelli.
Sempre alle spalle del
modello una veduta migliore della casa confinante..
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Lo stesso ballatoio,
sul quale nel frattempo si è affacciato coi suoi fiori un albero
di Datura.
La voliera è
sempre al suo posto.
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Sempre sul ballatoio,
ma stavolta con le spalle alla casa. Sullo sfondo, il campanile di San
Domenico. Assieme al ragazzo, l'altro cane delle foto di Gloeden.
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I
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Il
San Domenico di Gloeden
Il convento dei domenicani
di Taormina era disabitato, quando Gloeden si stabilì nel
paese.
Soppresso il convento con
l'Unità d'Italia, nel 1866, il neonato Regno non riuscì infatti
ad incamerare l'edificio a causa d'un presunto codicillo nell'atto di donazione
dei beni del nobile Damiano Rosso, nel 1430. Il codicillo avrebbe stabilito
che, se il convento fosse stato soppresso, l'immobile avrebbe dovuto tornare
agli eredi del donatore, che risultarono essere i principi Rosso di
Cerami [5].
Ne nacque una causa che durò
per ben vent'anni, e che si sarebbe conclusa con la vittoria dei lontanissimi
discendenti del donatore.
Costoro avrebbero prima
affittato (e infine venduto) lo stabile a investitori che intendevano farne
un albergo. Fu così che nacque alla fine dell'Ottocento l'Hotel
San Domenico, tuttora esistente, da sempre uno dei più
prestigiosi di Taormina, anzi, inserito tra i venti alberghi più
prestigiosi del mondo.
A noi questa vicenda interessa
in quanto, per tutto il periodo per cui si trascinò la causa legale
e né i privati né lo Stato potevano metterci mano, il convento
rimase in stato d'abbandono, e quindi fu
facile per Wilhelm von Gloeden usarlo come location per le sue foto
di nudo, fra il 1890 e il 1896. Oltre ad essere esteticamente splendido,
l'edificio gli era anche assai comodo, dato che si trovava esattamente...
in faccia a casa sua.
In occasione di un mio viaggio
in Sicilia per una serie di conferenze per l'Arcigay, sono riuscito, grazie
alla cortesia del personale dell'albergo, a scattare alcune foto al chiostro
maggiore.
Oggi il chiostro è
completamente ristrutturato, con grande eleganza ma anche rispetto delle
linee originali. Nel terreno (un tempo spoglio) della corte sono addirittura
cresciuti alberi, fra cui palme imponenti, ormai secolari...
Tuttavia, a parte questi
dettagli, vi si riconosce perfettamente lo stesso ambiente usato da Gloeden,
con quelle stesse colonne e con quello stesso pozzo che appaiono nelle
sue foto.
Nelle foto di Gloeden si
riconosce anche il secondo chiostro, più piccolo, nel quale le colonne
sono più basse e poggiano sulla base creata da un muretto che corre
tutto attorno. Non ho però potuto accedere a questo secondo
ambiente.
Le immagini che ho scattato
al San Domenico, che è un monumento d'arte interessante in sé
e per sé, sono
online qui.
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inizio pagina
Innesti
storici.
Una volta che ho potuto
confrontare le foto che avevo scattato a Taormina con quelle dei libri
che avevo lasciato a casa, m'è venuto il desiderio di vedere quanto
fosse possibile sovrapporle. Non ho quindi resistito alla tentazione di
praticare l'antica arte dell'innesto, incastrando alcuni scatti di Gloeden
nelle mie foto dell'ambiente in cui erano nati oltre un secolo fa.
Le mie foto sono state scattate
di fretta (avevo solo un paio di minuti a disposizione, per non
disturbare i clienti dell'albergo e non violarne la privacy), e
quindi nessuno scatto mio combacia esattamente con nessuno scatto
di Gloeden (del resto le sue foto non le avevo sottomano). Tuttavia anche
se ho dovuto stiracchiare un po' le immagini per farle combaciare, credo
che anche così il risultato, per quanto non perfetto, sia
intrigante. Lo considero l'equivalente fotografico dell'"archeologia sperimentale",
che punta a rendere l'idea di come potesse apparire un contesto o un oggetto
ai nostri avi che lo crearono, senza però pretendere di ri-crearlo,
perché la storia quando muore, muore per sempre.
A voi il giudizio [6].
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Autoritratto di Gloeden
nel 1899.
|
Il pozzo del san Domenico
nel 2006.
|
"Herr Gloeden torna
all'Hotel San Domenico per una foto ricordo".
Montaggio delle due
foto precedenti.
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Von Gloeden, Attorno
al pozzo del S. Domenico. Ca. 1900.
|
Il pozzo del san Domenico
nel 2006.
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"Fantasmi".
Montaggio delle due
foto precedenti.
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Von Gloeden, S. Domenico
nel 1890.
|
S. Domenico nel 2006.
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"Ricordando il futuro".
Montaggio delle due foto precedenti. |
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Von Gloeden, Nudo
nel chiostro del san Domenico, ca 1900.
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Dettaglio del chiostro
del san Domenico nel 2006.
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"Intrusione dal passato".
Montaggio delle due
foto precedenti.
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Von Gloeden, Nudo
nel chiostro del san Domenico, datato 1902.
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Dettaglio del chiostro
del san Domenico nel 2006.
|
"Intrusione dal passato".
Montaggio delle due
foto precedenti.
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Von Gloeden, Due
nudi nel chiostro del san Domenico, ca. 1900.
|
Dettaglio del chiostro
del san Domenico nel 2006.
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"Angolo di collisione".
Montaggio delle due foto precedenti. |
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Von Gloeden, Due
nudi nel chiostro del san Domenico, ca. 1900.
|
Dettaglio del chiostro
del san Domenico nel 2006.
|
"Sicut umbra homo
fugit".
Montaggio delle due foto precedenti. |
P.S. Un mio amico,
dopo aver visto questi "innesti", ed avere avuto un termine di paragone
con le colonne, ha sentenziato: "Se non altro adesso sappiamo che i
modelli di Gloeden erano nanetti di un metro e sessanta".
Ora, a parte il fatto che
non è che io svetti molto più in alto, spesso si dimentica
che la denutrizione ha fatto sì che gli italiani siano rimasti bassi
di statura fino al dopoguerra.
Quando si dice che i poveri
di Taormina nel 1890 erano disperatamente poveri (e perché
mai, se no, dieci milioni di italiani avevano iniziato ad emigrare
oltreoceano, in quel periodo?), non si sta giocando con le parole: mancava
loro letteralmente di che mangiare.
Il che spiega perché
i ricchi turisti omosessuali siano stati accolti con tanto tolleranza
a Taormina: se portavano di che mangiare ai più affamati, sia pure
in cambio di qualche servizio un po' speciale, erano stra-benvenuti...
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pagina
La
tomba di Gloeden. Requiescat in pace.
Wilhelm von Gloeden è
stato sepolto nella parte acattolica del cimitero di Taormina, dove c'è
tuttora chi si occupa della sua tomba, che appare ben tenuta, nonostante
i taorminesi non si curino affatto delle potenzialità turistiche
del "turismo della memoria". Ma questa è già un'altra storia.
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L'ingresso alla sezione
acattolica del cimitero di Taormina.
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La tomba di Wilhelm
von Gloeden vista dal lato dell'ingresso. Foto scattata nel gennaio 2006.
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La tomba di Wilhelm
von Gloeden nel gennaio 2006.
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La tomba di Gloeden.
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La tomba di Gloeden
vista dal cimitero cattolico adiacente.
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L'autoritratto
di Gloeden che appare sulla sua tomba.
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Bibliografia
(per tornare al punto che
si stava leggendo, fare clic su "indietro")
Opere a stampa citate nel
testo:
-
Cocteau Jean, Lettere a Jean
Marais, Archinto, Milano 1988.
-
De Luca, Francesco, "L'elemento
etnico nei reati di libidine". In: Studi storici e giuridici dedicati
a Federico Ciccaglione, II, Giannotta, Catania 1910, pp. 65-81.
-
Faeta, Francesco, Wilhelm
von Gloeden. Per una lettura antropologica delle immagini, "Fotologia"
(Alinari, Firenze), vol. 9, 1988, pp. 88-104.
-
Falzone
Barbarò, Michele, "Il barone di Taormina"; in: Falzone Barbarò,
Michele; Miraglia, Marina; Mussa, Italo (a cura di), Le fotografie di
von Gloeden, Longanesi, Milano 1980, pp. 21-31.
-
Gippius,
Zinaida (1869-1945), Una serata presso il barone G. [1899], "Babilonia",
febbraio 1999, pp. 62-63, a cura di Paolo Galvagni.
-
Mason,
Caroline Atwater, The spell of southern shores, The Page Company,
Boston 1915, pp. 201-202.
-
Matteucci,
Nina, William (sic) von Gloeden, "Varietas" n. 75, luglio
1910, pp. 401-406.
-
Mirisola,
Vincenzo e Vanzella, Giuseppe (a cura di), Sicilia mitica Arcadia. Von
Gloeden e la "Scuola" di Taormina, Edizioni gente di fotografia, Palermo
2004.
-
Nicolosi,
Pietro, I baroni di Taormina, Flaccovio, Palermo 1959, e Giannotta,
Catania 1973.
-
Peyrefitte,
Roger, Eccentrici amori [1949], Longanesi, Milano 1967.
-
Pohlmann,
Ulrich, Wilhelm von Gloeden - Sehnsucht nach Arkadien, Nishen, Berlin
1987.
-
Roccuzzo,
Toto, Taormina, l'isola nel cielo, Mimone, Catania 2001.
-
Saglimbeni,
Gaetano, I peccati e gli amori di Taormina, P & M, Messina 1990.
Il testo è stato inglobato successivamente in: Saglimbeni, Gaetano,
Album Taormina, Flaccovio, Palermo 2001.
Documenti online
citati nel testo:
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L'autore ringrazia fin d'ora
chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone,
luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà
eventuali errori contenuti in questa pagina. |
Note
[1]
Avviso: le foto di cui appaiono le miniature in questa pagina le ho caricate
non nel mio sito, bensì (salvo un paio di eccezioni) su WikiCommons
e su Flickr: quindi se fate
clic sulla miniatura per vedere la foto, uscite dal mio sito.
Per
tornare a questa pagina dovete perciò fare clic su "torna indietro"
sul vostro browser (mamma, vuol dire che è quella freccia lì
che sta nell'angolo in alto a sinistra...).
[2]
Per comodità ho citato i libri che ho usato come fonti elencandoli
una volta soltanto in fondo allo scritto, e citandoli poi di volta in volta
col solo cognome dell'autore e il numero di pagina. L'ho fatto per evitare
una tempesta di note, che online per forza di cose non avrebbero
potuto essere "a piè di pagina", e che avrebbero disturbato la lettura.
[3]
La legge italiana sulla diffamazione, contrariamente a quanto previsto
in altri Paesi (specificamente quelli anglosassoni -- si pensi solo al
caso di Oscar Wilde, la cui rovina iniziò appunto con una causa
per diffamazione che gli si ritorse contro), e contrariamente a quanto
credono molte persone, punisce le affermazioni diffamanti in quanto tali,
indipendentemente dal fatto che esse siano vere o false.
Se
io dico che tizio è un ladro, non importa che poi io sia in grado
di dimostrare, prove alla mano, che lo è: il giudice che deve decidere
su un'eventuale denuncia per diffamazione deve soltanto giudicare
se la definizione di "ladro" (o "omosessuale") sia tale da compromettere
la "fama" della persona presa a bersaglio.
Tuttavia
per la stessa legge la persona che si ritiene diffamata e che vuole dimostrare
oltre ogni ragionevole dubbio l'assoluta falsità delle affermazioni,
può concedere al querelato "ampia facoltà di prova", con
un gesto in un certo senso di pubblica sfida a provare, se ci riesce, quel
che afferma.
Ovviamente
chi sa che la "diffamazione" dice il vero si guarderà bene dal concedere
tale facoltà, come infatti saggiamente fece Gloeden.
[3bis]
La leggenda del Crupi "maestro" di Gloeden nasce a Taormina da una
lettura tendenziosa, basata su un campanilismo non sempre disinteressato,
che spaccia Crupi come il "vero" artista, gloria locale misconosciuta,
mentre Gloeden sarebbe stato solo un furastieru che ne usurpò
la fama grazie alla facile pruriginosità della sua arte.
Questa
lettura non corrisponde alla realtà: Crupi fu anch'egli artista,
ma di orizzonte locale, mentre la cultura artistica da cui partì
Gloeden fu di respiro internazionale. E si vede.
Tale
limite, riscontrabile anche in D'Agata e Galifi-Crupi, come in migliaia
d'altri ottimi fotografi che agirono in ambito locale in Italia fra Otto
e Novecento, spiega da solo il "vantaggio competitivo" di cui godette Gloeden
rispetto ai suoi concorrenti indigeni.
Su
una cosa però i denigratori-di-Gloeden / panegiristi-di-Crupi hanno
ragione: è stato il nudo a far conoscere Gloeden ieri, e
a farlo ricordare oggi. Senza di esso, oggi il suo nome avrebbe lo stesso
destino di quello di un, che so, Giuseppe
Incorpora, bravo paesaggista siciliano di successo, ma noto ormai solo
a collezionisti ed antiquari.
E
sfido chiunque a citarmi un solo nome di un fotografo paesaggista
del XIX secolo la cui opera abbia conosciuto la pubblicazione di una
ventina di monografie negli ultimi trent'anni.
Ma
anche parlando di nudo le cose non sono così semplici: come avrebbe
scoperto a sue spese Gaetano D'Agata, non basta tirare giù le mutande
ai ragazzotti indigeni per diventare un artista del nudo (al massimo si
diventa uno strazzamutànni, secondo una gustosa definzione
locale).
Se
Gloeden, in quanto paesaggista, fu solo un esponente fra i tanti
d'una scuola (che la si chiami "pittorialismo fotografico", "scuola di
Taormina" o altrimenti, poco importa) che sarebbe ingiusto fingere
non sia mai esistita, quando se ne parla in quanto fotografo di nudo allora
è lui la "scuola".
E'
lui il creatore d'un mondo fantastico di sua totale creazione, che ci affascina
per gli stessi motivi per ci affascinano il mondo di Harry Potter o di
Topolino: fantasia, coerenza interna, inventività, credibilità
apparente...
Crupi
e D'Agata guardavano i modelli di Gloeden lorocompaesani e ci vedevano
solo adolescenti inseguiti dalla miseria e dalla fame al punto da abbassarsi
a far marchette con Gloeden e i suoi compari, e non a caso nelle loro foto
anche noi vediamo (solo) la stessa cosa.
Gloeden
invece ci vedeva (voleva vederci, per autoassolversi!) i discendenti
dei pastori di Teocrito e Virgilio di cui aveva studiato a scuola, capaci
delle più nobili forme di "amore greco" da lui (guarda caso!) praticato.
E riesce a farci vedere tutto questo, in
massimo spregio della realtà storica ed umana, ma con una coerenza
e una capacità creative uniche. Essendo un artista, è riuscito
a creare una favola che è risultata credibile non solo per
se stesso, ma anche per noi, e a un secolo di distanza.
Ma
da che mondo è mondo, nessun artista ha mai raccontato la realtà:
un vero artista, la realtà la inventa. E riesce anche a farcela
sembrave "vera".
Qui
è dove Gloeden ha successo, e i suoi concorrenti falliscono.
Tanto
è vero che, se non fosse per il fatto che ci servono a interrogarci
su Gloeden, oggi nessuno farebbe piùi nomi di Crupi, Galifi, o D'Agata:
ottimi fotografi paesaggisti, premiati per il loro talento con il successo
commerciale delle loro cartoline, (vendute in centinaia di migliaia di
pezzi, per decenni) e però ricordati oggi al di fuori di Taormina
in primis per il loro rapporto diretto o indiretto con Gloeden.
La
riprova di questa mia affermazione sta nel fatto che la Taormina d'anteguerra
si fregiò di almeno un altro buon fotografo, oltre a quelli appena
citati e a Buciunì: Castorina. Il quale però non incrociò
mai, neppure indirettamente, la strada di Gloeden, e infatti non a caso
al di fuori dell'ambito locale e degli storici è ignoto ai più.
[4]
Una libraia di Taormina che tiene in vetrina libri su/di Gloeden mi
ha spiegato che sono numerosi i turisti, specie stranieri, che si rivolgono
a lei per chiederle dove si trovi la casa di Gloeden.
[5]
Preferisco questa versione della vicenda (che leggo in: Roccuzzo,
p. 109) a quella, poco credibile, su cui ricama Gaetano Saglimbeni,
pp. 123-126.
Qui
si sostiene che il testamento del nobile proprietario che aveva trasformato
il palazzo di famiglia in convento, per passarvi il resto dei suoi giorni,
prevedeva sì una donazione all'Ordine domenicano di altri beni,
ma non faceva menzione dell'immobile, che quindi per tale dimenticanza
sarebbe sempre appartenuto ai suoi ignari eredi.
Questa
versione è assurda: per il Diritto romano, base di quello italiano,
venti anni di uso esclusivo e non contestato di un bene costituiscono
titolo di proprietà (usucapione),
e qui l'Ordine aveva usato il bene per secoli, non per semplici
decenni!
La
presenza di versioni discordanti sull'accaduto, come pure la circostanza
che la famiglia Rosso di Cerami ignorasse completamente di possedere tale
diritto, mi fanno pensare che la pergamena "svelata" dall'ultimo fratacchione
che abitò il convento fosse in realtà un falso da
lui confezionato per vendicarsi dallo Stato senzadio che lo stava sfrattando.
Il
dubbio ha comunque oggi unicamente interesse come curiosità storica:
il diritto di usucapione è infatti valido anche per quanto riguarda
tutti i successivi proprietari.
[6]
Nota bene: tutte queste immagini o sono di pubblico dominio, oppure (le
mie foto) sono liberamente riproducibili citando il nome dell'autore sotto
licenza Creative
Commons 2.5 "attribution share alike".
Di
alcune immagini è disponibile anche l'alta definizione (il
che vuol dire che possono essere anche stampate tipograficamente senza
diventare minuscole, ma pure che pesano fino a 1,5 megabytes l'una).
Ripeto:
io non sono un grafic-artist, e questo per me è solo un modo
per avere un'idea di come potesse apparire ciò che vedevano gli
occhi di Gloeden.
Ma
se un vero grafico vuole fare dei veri fotomontaggi, usando
livelli e trasparenze e scontorni a regola d'arte, il materiale da cui
partire per farli gliel ho messo a disposizione qui sotto.
(Occhio
però al fatto che la licenza "Creative commons" è "virale":
cioè se usate le mie foto per lavori "derivati", potete farlo, anche
per usi commerciali, tuttavia nel farlo la mia licenza "Creative commons"
si trasferirà anche al vostro lavoro derivato, che sarà quindi
liberamente riproducibile a sua volta, alle stesse condizioni a cui è
disponibile il mio... e così via).
[6]
Questo ritratto è stato identificato per la prima volta come quello
di Plüschow nel 1997, nel catalogo antiquario n. 5 di Serge Planteux
al numero 193, e da allora accettato come tale.
Tuttavia, il Metropolitan
Museum di New York ha pubblicato sul suo sito una
foto del medesimo soggetto mentre suona il mandolino che sul retro
riporta una dedica che lo identifica come "Mico Lo Giudice-Berbiredolu,
il mago del mandolino".
Mario Bolognari, autore
di I
ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell'erotismo
siciliano tra Ottocento e Novecento (Reggio Calabria, 2102) lo
ha identificato in Domenico (detto "Mico") Lo Giudice (1871-1942), soprannominato
"Barbareddu" o "Barbireddu" ("Barbiredolu" è visibilmente una cattiva
lettura di "du" come: "olu"), soprannome che i suoi attuali discendenti
a Taormina hanno ereditato. Si tratta pertanto d'un personaggio reale,
e l'identificazione di questa foto come un suo ritratto ha le maggiori
probabilità d'essere quella giusta, dato che è improbabile
che la foto d'un personaggio celebre sia spacciata per quella d'un personaggio
non conosciuto, mentre il contrario è più facile.
Questo personaggio appare
anche nell'immagine storica pubblicata sul sito dell'Hotel Schuler di Taormina,
qui. |