Da: Confessiones
/ Confessioni [397/398 d.C.][1]
Liber
II, caput 8
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Libro II, capitolo
8
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Quem fructum habui miser
aliquando in his, quae nunc recolens erubesco, maxime in illo furto, in
quo ipsum furtum amavi, nihil aliud, cum et ipsum esset nihil et eo ipso
ego miserior? |
Quale frutto, povero me,
raccolsi una volta da ciò [Rm 6, 21] cui, ripensandoci ora, arrossisco,
da quel furto dove amai moltissimo solo quel furto, nient’altro che una
cosa di nessun valore e di sentirmi ancora più infelice? |
et
tamen solus id non fecissem -- sic recordor animum tunc meum -- solus omnino
id non fecissem. ergo amavi ibi etiam consortium eorum, cum quibus id feci.
non ergo nihil aliud quam furtum amavi; immo vero nihil aliud, quia et
illud nihil est. quid est re vera? quis est, qui doceat me, nisi qui inluminat
cor meum et discernit umbras eius? |
E
tuttavia non lo avrei fatto da solo – così ricordo il mio animo
allora – da solo non lo avrei assolutamente fatto.
Quindi in quella situazione
mi piaceva anche la compagnia di coloro con cui lo feci. Quindi non amavo
niente altro che il furto; Davvero niente altro poiché anche quella
compagnia non vale nulla. Che cosa è in realtà? |
quid
est, quod mihi venit in mentem quaerere et discutere et considerare, quia
si tunc amarem poma illa, quae furatus sum, et eis frui cuperem, possem
etiam solus, si satis esset, committere illam iniquitatem, qua pervenirem
ad voluptatem meam, nec confricatione consciorum animorum accenderem pruitum
cupiditatis meae? |
Chi
è che mi insegna se non chi illumina il mio cuore [Sir 2, 10] e
squarcia le sue ombre? Cos’è che mi viene in mente di chiedere,
discutere e considerare, se allora amavo quei frutti che rubai e desideravo
goderne, avrei potuto anche da solo, se si poteva, commettere quella colpa
attraverso cui giungere al mio piacere, senza accendere il prurito del
mio piacere con lo sfregamento degli animi complici? |
sed
quoniam in illis pomis voluptas mihi non erat, ea erat in ipso facinore,
quam faciebat consortium simul peccantium. |
Ma
poiché in quei frutti non avevo piacere, esso era solo nell’impresa
che rendeva la compagnia di altri che peccavano insieme. |
Eventuale
dida di foto
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Liber
III, caput 8
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Titolo
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Numquid aliquando
aut alicubi iniustum est diligere deum ex toto corde et ex tota anima et
ex tota mente, et diligere proximum tamquam te ipsum? |
Forse
che qualche volta o in qualche luogo è ingiusto amare Dio con tutto
il cuore, l’anima e la mente, e amare il prossimo come te stesso [Mc 12.
30, 33; Mt 22. 37, 39; Lc 10. 27]? |
itaque
flagitia, quae sunt contra naturam, ubique ac semper detestanda atque punienda
sunt, qualia Sodomitarum fuerunt. |
Perciò
gli atti turpi che sono contro natura sono da esecrare e punire sempre
e dappertutto, quali quelli dei sodomiti. |
quae
si omnes gentes facerent, eodem criminis reatu divina lege tenerentur,
quae non sic fecit homines, ut hoc se uterentur modo. |
Atti
che se tutti i popoli facessero, sarebbero considerati con la medesima
colpa del crimine dalla legge divina che non fece gli uomini perché
si comportino in questo modo. |
violatur
quippe ipsa societas, quae cum deo nobis esse debet, cum eadem natura,
cuius ille auctor est, libidinis perversitate polluitur. |
Infatti
è violato lo stesso vincolo che noi dobbiamo avere con Dio, con
la natura medesima di cui Lui è creatore, è macchiata dalla
perversione della lussuria. |
quae
autem contra mores hominum sunt flagitia, pro morum diversitate vitanda
sunt; ut pactum inter se civitatis aut gentis consuetudine vel lege firmatum
nulla civis aut peregrini libidine violetur.
turpis
enim omnis pars universo suo non congruens. |
Questi atti impuri sono contro
i costumi degli uomini, sono da evitare adattandosi alla diversità
dei costumi; affinché il patto stabilito dalla consuetudine o dalla
legge dei cittadini e delle genti tra di loro non sia violato da nessuna
lussuria del cittadino o dello straniero. Infatti ogni discordanza di una
parte con il tutto è turpe. |
Cum autem deus aliquid
contra morem aut pactum quorumlibet iubet, etsi nunquam ibi factum est,
faciendum est; et si omissum, instaurandum; et si institutum non erat,
instituendum est. |
Poiché Dio impartisce
un ordine contro un qualsiasi patto o costume, anche se non è stato
mai fatto, si deve fare; e se fu trascurato, si deve restaurare; e se non
era stato istituito, si deve istituire. |
Si enim regi licet in
civitate, cui regnat, iubere aliquid, quod neque ante illum quisquam nec
ipse umquam iusserat, et non contra societatem civitatis eius obtemperatur,
immo contra societatem non obtemperatur -- generale quippe pactum est societatis
humanae oboedire regibus suis -- quanto magis deus regnator universae creaturae,
cui ad ea quae iusserit sine dubitatione serviendum est! sicut enim in
potestatibus societatis humanae maior potestas minori ad oboediendum praeponitur,
ita deus omnibus. |
Se infatti è lecito
per un re nella città in cui regna ordinare qualcosa che nessuno
prima di lui né lui stesso mai aveva ordinato, e obbedire non è
contro la società dei suoi cittadini anzi non ubbidire sarebbe contro
la società – poiché un patto generale della società
umana è obbedire al proprio re – quanto di più senza incertezza
deve essere servito Dio, sovrano dell’intero creato, nelle cose che ha
ordinato! Infatti come nei poteri della società umana il maggiore
precede il minore per l’obbedienza, così Dio rispetto a tutti. |
Item in facinoribus, ubi
libido est nocendi, sive per contumeliam sive per iniuriam, et utrumque
vel ulciscendi causa, sicut inimico inimicus, vel adipiscendi alicuius
extra conmodi, sicut latro viatori, vel evitandi mali, sicut ei qui timetur,
vel invidendo, sicut feliciori miserior aut in aliquo prosperatus ei, quem
sibi aequari timet aut aequalem dolet, vel sola voluptate alieni mali,
sicut spectatores gladiatorum aut inrisores aut inlusores quorumlibet.
haec sunt capita iniquitatis,
quae pullulant principandi et spectandi et sentiendi libidine, aut una
aut duabus earum, aut simul omnibus, et vivitur male adversus tria et septem,
psalterium decem chordarum, decalogum tuum, deus altissime et dulcissime.
sed quae flagitia in te,
qui non corrumperis? aut quae adversus te facinora, cui noceri non potest?
sed hoc vindicas, quod
in se homines perpetrant, quia etiam cum in te peccant, inpie faciunt in
animas suas, et mentitur iniquitas sibi: sive corrumpendo ac pervertendo
naturam suam, quam tu fecisti et ordinasti; vel inmoderate utendo concessis
rebus vel in non concessa flagrando in eum usum, qui est contra naturam;
aut rei tenentur, animo et verbis saevientes adversus te et adversus stimulum
calcitrantes; aut cum diruptis limitibus humanae societatis, laetantur,
audaces privatis conciliationibus aut diremptionibus, prout quidque delectaverit
aut offenderit.
Et ea fiunt, cum tu derelinqueris,
fons vitae, qui es unus et verus creator et rector universitatis, et privata
superbia diligitur in parte unum falsum.
itaque pietate humili reditur
in te; et purgas nos a consuetudine mala, et propitius es peccatis confitentium,
et exaudis gemitus conpeditorum, et solvis a vinculis, quae nobis fecimus,
si iam non erigamus adversus te cornua falsae libertatis, avaritia plus
habendi et damno totum amittendi, amplius amando proprium nostrum quam
te, omnium bonum. |
Ugualmente nei peccati dove
la lussuria è causa di danno, per oltraggio o per offesa, ed entrambi
o per vendetta, come il nemico con il nemico o di ottenere qualche bene
in più, come il brigante con il viaggiatore o di evitare un danno,
come chi è temuto o per invidia, come uno più infelice con
uno più felice o chi ha avuto successo in qualche cosa teme di essere
uguagliato o se ne duole, o per solo piacere del male altrui come gli spettatori
dei gladiatori o chi irride o schernisce gli altri.
Queste sono le origini dell’ingiustizia
che si diffondono con il piacere del potere, guardare, sentire [1
Gv 2, 16], o singole o da due o tutte insieme, allora si vive male
contro i primi 3 e gli altri sette del salterio a 10 corde [Sal
143, 9] il tuo decalogo, Dio altissimo [Sal 9, 3; 91, 2] e dolcissimo.
Quali atti turpi sono in te
che non sei corrotto? O quali peccati contro di te a cui non si può
nuocere?
Ma punisci ciò che
gli uomini commettono a loro danno perché mentre peccano anche verso
di te, agiscono empiamente verso le loro anime e si ingannano loro stessi
[Sal 26,12]: o corrompendo e pervertendo la
propria natura che tu hai creato e ordinato; o usando in modo smoderato
le cose concesse o ardendo in quelle non concesse nel loro uso che è
contro natura [Rm 1, 26]; o sono rei nell’animo
coloro che infieriscono a parole contro di te e recalcitranti al pungolo
[At 9, 5; 26, 14]; o gioiscono sfrontati dei limiti rotti della società
umana con unioni o rotture private, come se ogni cosa desse piacere o offesa.
E queste cose accadono quando
ti si lascia, fonte di vita [Ger 2, 13], che sei unico vero creatore e
signore dell’universo, e per superbia privata amando una parziale parte
falsa.
Perciò si ritorna con
umile pietà a te; e ci liberi dalle cattive abitudini, e sii benevolo
con i peccati di chi confessa [Sal 77, 38; 78, 9], e ascolta i gemiti di
chi ha i ceppi ai piedi [Sal 101, 21], e liberaci dalle catene che abbiamo
procurato a noi stessi, se non innalziamo più contro di te le corna
[Sal 74, 5] della falsa libertà, con l’avidità di avere di
più e il pericolo di perdere tutto, amando più il proprio
nostro che te, bene di tutti. |
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L'autore ringrazia
fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati
su persone, luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà
eventuali errori in essa contenuti. |
Note
[1]
Il testo latino delle Conressiones dal
sito della Universitätsbibliothek Freiburg im Breisgau.
Edizioni a
stampa come:
Confessioni,
Zanichelli, Bologna 1968; Rizzoli, Milano 1992 e in: Opere, Città
nuova, Roma 1975 (testo latino e traduzione italiana).
[fare link a culturagay]
La traduzione
dal latino qui proposta, inedita, è di Pierluigi
Gallucci, che ringrazio per il contributo.
La revisione
del testo italiano è mia, quindi eventuali errori sono da imputare
a me soltanto.
Vedi:
II 8, 16:
va probabilmente letto in chiave omosessuale questo brano, in cui Agostino
depreca il "furto" di un "frutto" compiuto da ragazzo con la complicità
d'altri (e per il gusto di essere complice), nonostante quei frutti non
gli destassero "piacere alcuno".
Molto acuta
l'analisi delle motivazioni;
III 8, 15:
i peccati contro natura violano la stessa "societas" che dobbiamo
avere con Dio, perché la natura, di cui Egli è autore, viene
pervertita (nel senso di per/vertere, "rovesciare sottosopra").
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