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Don Bosco, parte 2

18/01/2003

Carissimo Giovanni,

innanzitutto, grazie per il tempo che ha dedicato nel leggere la mia lettera.

E grazie, perché a questo è seguita la riflessione che l'ha spinta a dedicare ulteriore tempo (questo, sì, è ugualmente prezioso per tutti) per pensare e redigere una risposta che è di non facile lettura, non tanto per lo stile e l'impostazione, molto agili, quanto perché i suoi scritti hanno respiro ampio e sfiorano, seppure in sequenza ordinata, non uno ma tanti temi.

Lei, inoltre, gentilmente evidenzia la mia (presunta) capacità di poter sviluppare il mio ragionamento, guidato dallo svolgimento di un'idea che desidero enunciare... "Lei sapeva già la conclusione prima ancora di iniziare a scrivere"... Non è forse questo che ci avevano insegnato a fare negli anni del Liceo? Beh, sì... "rivendico" la possibilità di far capire agli altri che quanto dico e scrivo non è buttato lì in aria né è una concatenazione di frasi più o meno casuale.

Questo certamente ci accomuna - benché noi non sappiamo l'uno dell'altro nulla se non della difformità di vedute sulla presentazione della figura di don Bosco - perché anche quello che scrive lei è finalizzato a dar valore alle sue idee di fondo, ancorché non forzate ad entrare in ciò che si definisce "tesi". Chiamiamole idee, chiamiamole ricerche animate dalla spinta al vero, come emerge ad esempio da un suo interrogativo ricorrente e sofferto: "... Ma gli omosessuali santi, dove sono? Chi sono?".

Dunque, il suo punto di partenza o di fine; il mio. 
Divergenti.

Lei mi dice che io nel mio scritto, che lei ha gentilmente pubblicato, avrei insinuato (ma non dimostrato) "in una frase sola che le "sue" fonti storiche non sono attendibili".
Insinuare? Ho forse calunniato?

Nel mio scritto io mi sono semplicemente limitato ad ampliare alcune delle frasi che lei usa per descrivere la vita di don Bosco riportando fatti e persone.

E poi - poi - mi sono chiesto se siano stati sufficienti i mezzi che lei ha adoperato per giungere alle sue conclusioni, o meglio, per presentare la vita di don Bosco ponendosi più che un interrogativo sulla sua vera o presunta omosessualità. Tutto lì.


Lei rivendica il diritto a fare storia e non agiografia e fa benissimo, anche perché le librerie cattoliche sono già zeppe di scritti di quel tipo. Alcuni buoni, altri stucchevoli, altri faziosi, altri rigorosi... pure per un cattolico!

D'altra parte che "storia" è quella che può emergere da un agiografo "di parte", magari interessato più ad ammirare le stanze affrescate della città Leonina che ad applicare metodi "scientifici"? Ha ragione.

E però, mi chiedo, che "storia" è quella che lei pubblica e che lei indaga? Non è forse davvero semplicemente "un'antiagiografia", come lei stesso descrive la sua pagina su don Bosco che lei pubblica?

Se è così, allora potrebbe sorgere il dubbio che lei, di fatto, non sia uno storico, come pure si definisce, bensì un... "antiagiografo", con tutti gli "anti-pregi" e gli "anti-difetti" che i suoi "anti-colleghi" dimostrano nel compiere il loro lavoro.




Biografia di Pietro Stella, 2001Pure, per indagare nella vita di don Bosco (ed è questo ciò di cui si parla), posto che possano servire anche le fonti che lei cita, non si può prescindere dalle "Memorie" di don Bosco stesso, (un po' – mi si passi il paragone assurdo perché estremo - come lo storico non può trascurare il De Bello Gallico per studiare la figura di Giulio Cesare) dagli scritti di chi lo conobbe personalmente e a lungo nell'Oratorio (
  • Lemoyne-Amadei-Ceria-Foglio: Memorie biografiche di don Bosco; 
  • Lemoyne: Vita di don Bosco; 
  • Ceria: Annali della Società Salesiana, 
tanto per iniziare...) e da altro materiale.


Se però, tutte queste fonti che io cito fossero viste come faziose o di parte, o come non-documenti ma semplice ciarpame agiografico, allora si perderebbe, rinunciandovi, ad una consistente e preponderante parte di testimonianze (per di più dell'interessato stesso e di coloro che lo conobbero) che in uno studio storico – per quanto distaccato possa apparire - non possono essere trascurate.

Se la Storia debba essere solo una presentazione dei fatti per come sono avvenuti, improntata più alla fredda cronologia delle vicende, oppure se essa debba attenersi all'interpretazione dello storico di quanto è accaduto, è argomento vecchio e direi abbastanza aporetico. I manuali sui quali lei e io abbiamo svolto i nostri studi cercano di cogliere, non sempre riuscendoci, una linea di mezzo.

Lei mi scrive che io, in fondo la "rimprovero" di essere stato uno storico e non un agiografo. 

Ma – mi chiedo - è proprio schiettamente "storico" il suo metodo, o uno storico non ha forse l'"obbligo morale" di presentare i fatti con maggiore ampiezza, delegando (anche) il lettore a formulare un suo giudizio sulla vita di una persona il più libero possibile?

Per esempio e non per volontà di battere sullo stesso tasto: la questione circa i dissapori tra don Bosco e due Vescovi di Torino non è da minimizzare né però da enfatizzare oltre la sua reale portata. Per far ciò è opportuno inquadrarla nei rapporti che don Bosco ebbe con la "gerarchia cattolica" nell'intero arco della sua vita di sacerdote. Direi – forse con presunzione - che solo così facendo si permette all'ipotetico lettore "neutrale", o meglio al lettore che ignora nei particolari la vita di una persona, di avere un quadro di riferimento ampio, certamente più largo di un paio di trafiletti ove si liquidano (in questo caso il verbo credo sia pertinente) 47 anni di sacerdozio come un periodo di attività soggetto a "caparbia ostilità" delle gerarchie. Gli screzi ci furono, esaltarono la figura di don Bosco – e per certi versi anche esaltarono l'ortodossia dei due Vescovi - che ne uscì giustamente ingigantita e nessuno ne vuole tacere, né tantomeno è "scandalo" che dissapori ci furono ma, attenzione, furono due casi in 47 anni.

E, non è inutile ribadirlo, non ho scelto io questo argomento; non sono "sensibile" alle critiche (a volte giuste, a volte no) nei confronti della organizzazione strutturale della Chiesa (anche di quella che fu)... Ho parlato di questo semplicemente perché lei ha esposto questa materia in termini che io ho trovato insufficienti. Ma non era "la" questione.


Per questo mi è stato caro porre alcune (le più evidenti) precisazioni, non perché io desiderassi vedere in lei un ulteriore agiografo, ma perché è legittimo chiedere ad uno storico che esso lo sia davvero.

Questo non significa voler mettere il bavaglio e al bando coloro che non hanno uniformità reciproca di pensiero, ma esorta chiunque, a mio parere, a separare molto bene ed esplicitamente le proprie convinzioni dai dati oggettivi della Storia. 

Possono essere validi entrambi e a volte sovrapponibili, certo, ma devono necessariamente coesistere ed essere noti a chi li legge per non esporre colui che li riferisce a quello che può essere l'ammonimento di Wittgenstein - che è certamente meno peggio del rendersi conto che le proprie idee hanno eco e comprensione soltanto tra i propri alter ego, vanificando in un solo istante il senso stesso della comunicazione e della diffusione dei propri pensieri.


La sua cortese risposta tocca poi numerosi altri argomenti sui quali 
 – evidentemente - ho i miei precisi punti di vista ma che evito ora di esporre tutti per due motivi: mi sono dilungato già troppo e, in aggiunta, non riguardano l'argomento centrale che mi ha spinto a scriverle la prima volta e cioè la vita di don Bosco per come lei l'ha esposta.

Purtuttavia, qualche piccola osservazione mi sia concessa. Mi ha colpito, nella seconda parte della sua risposta, il passaggio che sposta il suo parlare di "Chiesa cattolica" a discutere su "i cattolici". Non è insignificante, a mio parere.

"Ma poiché i cattolici insistono ad arrogarsi il presunto "diritto" di dirigere la vita di tutti, non-cattolici compresi"...

Se la Chiesa cattolica (le sue origini culturali sanno dare il significato a queste due parole) è fatta dai cattolici, allora posso anche essere d'accordo con lei: "alcuni" (aggiungo io) cattolici hanno creduto e credono di avere il diritto di dirigere la vita di tutti.

Non è questo il compito della Chiesa. Basterebbe leggere i documenti del Concilio Vaticano II e in essi la Lumen Gentium per rendersi conto che missione della Chiesa è "proporre" la via tracciata da Gesù Cristo e non imporla.

Vero, alcuni non propongono questa via nemmeno a se stessi. E chi ha mai negato, fin dall'antichità, usando l'immagine della Chiesa vista come "vergine e meretrice", che la comunità dei credenti è una povera comunità di peccatori, di esseri imperfetti e in cammino?

Anche l'Italia – mi si permetta l'ennesimo esempio, forse poco pertinente, ma che forse aiuta - ha la sua Costituzione. Ma essa è ricordata e applicata con più o meno successo (e onestà, forse) dai rappresentanti dei diversi organi che presiedono il funzionamento dello Stato. Non per l'incapacità o ottusità di un politico si deve estendere il giudizio all'intera Costituzione o alle idee di democrazia che essa trasmette.

Ma la mente libera e adulta riesce a distinguere la Chiesa, vista (e creduta dai cattolici) come mezzo visibile per accostarsi a realtà trascendenti, come istituzione che è intermediaria fra l'uomo di oggi e l'eternità degli insegnamenti di Dio, dalla chiesa-comunità di peccatori che possono interpretare con grave danno (in buona fede? mah!) il ruolo che hanno.


La Chiesa, vista così (e d'ora in poi la si intenda vista così), dunque propone una sola Verità, unica, trascendente... "Ego sum via veritas et vita". Le maggiori contrapposizioni fra l'insegnamento della Chiesa e i cattolici (che ad essa devono fare riferimento per l'insegnamento, mentre per chi se ne chiama fuori, la voce della Chiesa è, di fatto, una voce tra tante e non una "intromissione" tangibile e visibile) nasce dallo scontro tra questa convinzione di un'unica Verità e il dilagante "pensiero debole".

"Quid est veritas?"

Il filosofo Gianni Vattimo al Gay Pride di Como 1999 - Foto G. Dall'OrtoSe esistono le "mezze verità" (certamente lei conosce, tra gli altri, Vattimo), allora non può darsi l'esistenza di una sola Verità che, attraverso le sfaccettature del quotidiano vive nel nostro agire. Allora, se si ripristina, in un certo senso l'"homomensura", negando assoluti universali, si deve necessariamente finire nel pronunciare, insieme a lei: "viva ognuno come crede, con la sua fede cattolica o non cattolica, o la sua non-fede, ognuno secondo i suoi criteri morali e la sua coscienza".

E questo si traduce, in molti cattolici, in un "agire ognuno come crede". Da qui i richiami voli a loro a una vita meno oppressa dal denaro, meno intenta a ricercare l'egoismo delle sue infinite modalità (e tra esse, le più vistose ancorché non le più importanti, quelle che mercificano il sesso anche all'interno delle famiglie).

Se, invece, esiste la Verità, l'Assoluto, e se sono "dati" e fondanti la religione, allora le cose cambiano e si è in grado di poter distinguere il bene dal male nell'etica basata sulla morale. E così, e solo così, si può arrivare a credere nell'esistenza di una oggettività e in chi è in cerca di verità diverse dalla Verità, che forse sono solo aspetti di questo diamante dalle mille faccette, che nessuno hic et nunc può "comprendere" ma che è dato, a chi lo cerca, di scandagliare.

La Chiesa crede fermamente – e i cattolici dovrebbero credere altrettanto fermamente - che prima ancora del Battesimo, ogni uomo possiede una "scintilla" dello Spirito ed è questo il valore che ogni uomo ha per la Chiesa e che ogni uomo ha (ma i fatti dimostrano che si deve dire "dovrebbe avere") per i cattolici.

Ed è tipico di chi vede nell'altro un "valore" e non una "valuta" (differenza sottile tra Cattolicesimo e capitalismo) prodigarsi a far capire come quel "valore" debba esser coltivato e orientato.

Compito della Chiesa è "orientare" a Cristo. Non "imporre" una strada, ma di indicarla. Sta poi all'individuo la risposta che è certamente quotidiana per tutti e che determina, passo per passo, la costruzione di quel cammino che porta (secondo la Fede) a vivere l'eternità con Dio.

E l'eventuale scelta non è una "rinuncia" od un'imposizione, bensì puramente "scelta". Che richiede coerenza e... coraggio, perché il mondo mette alla berlina tutti quelli che seguono e si sforzano di essere fedeli ad un'idea, ad una Persona. 
Tutti.


Questa è la santità, non quella dei vari "Ser Ciappelletti" più o meno votati a furor di popolo, con intenzioni più o meno didascaliche e probe; sarà il "dopo" a decretare l'effettiva riuscita del cammino. 

Ed è un cammino assolutamente personale, di dedizione, di rapporto con una Persona che si crede viva e vivente negli altri e dunque da amare negli altri.

Talmente personale che, dunque, riguarda ogni uomo nel suo intimo e chiede una posizione a chiunque: a chi è "dentro" e a chi non lo è (agere sequitur esse), e prescinde, nettamente, qualsiasi classificazione che gli uomini, di qualunque credo e di qualunque ideologia, possono inventare ed appiccicare sulle nostre spalle.

Riprendo - e concludo - per l'ultima volta le sue parole: nemmeno io ho ora scritto per edificare. 

Ho scritto per testimoniare una Verità che non presumo di comprendere tutta né di possedere.
Ma che so esistere. Questo sì.

Con i miei più cordiali saluti e vivi ringraziamenti per la sua apertura al dialogo.

Andrea Merli

Carissimo Andrea Merli,
adoro le volute capziose del suo ragionamento (il suo (falso-) sillogismo sul mio essere un anti-agiografo che quindi propone anti-verità è delizioso: non è vero, ma è decisamente "ben trovato"). A furia di avere avversari capaci solo di sbraitare "sta' zitto", trovare qualcuno capace delle sue sottigliezze retoriche e del suo tono cortese è un vero sollievo. Addirittura, un piacere.

Vero, non so nulla di lei (è un po' meno vero che anche lei non sappia nulla di me, visto che nel mio sito c'è una pagina biografica, ma non fa nulla: in fondo tra biografia e vita c'è differenza), ma che lei sia o non sia sacerdote (cosa che non ha la minima importanza ai fini della verità o meno del suo ragionamento) di certo lei ci sa fare con la retorica.
Accetti quindi un complimento da quello che lei sa essere, e che sa di essere, un suo avversario.


Ma passiamo al contenuto della sua replica.

Inizio prendendo il toro per le corna, tornando all'attendibilità della mia ricostruzione. E al grado di "verità" che può contenere una, o anche solo la mia, ipotesi storica.

Nella sua prima mail lei ha fatto un'affermazione che non avevo corretto perché la pensavo un lapsus, e perché ai fini di quel che stavamo dicendo era secondaria.
Questa volta lei ripete il riferimento, e allora trovo che sia interessante esaminarlo, perché penso che dimostri bene quanto sia aleatoria la sua richiesta di fornire, in un campo come la storia, oggettività, laddove ciò che la storia offre - e io so che lo sa anche lei - sono solo ricostruzioni "probabili" (nel senso etimologico della parola).
Che non sono più o meno "vere" (come lei implicava la volta scorsa), ma solo "più o meno rispondenti ai documenti".

E anche qui, non è detto che la ricostruzione più aderente ai documenti sia quella più vera, visto che i documenti mentono, sono spesso creati per tramandare una certa immagine piuttosto che un'altra. Senza contare il filtro della trasmissione dei testi: tutto ciò che è trasmesso è sempre, al tempo stesso, tràdito e tradìto.

Il filosofo Ludwig Wittgenstein (1889-1951)Ora, lei ha affermato che Wittgenstein avrebbe detto - cito testualmente - : "Di ciò che non si conosce è meglio non parlare".
Il punto è che Wittgenstein non l'ha mai detto. Non lo reputeremmo un grande filosofo, del resto, se fosse andato a dire in giro le cose che i bambini di cinque anni si gridano dietro all'asilo: "Ma stattene zitto! Se tu non sai mai gnente!" (un po' sboccatelli, questi bambini...).

Wittgenstein ha detto un'altra cosa. Ha detto che le domande per le quali non è possibile una formulazione secondo i moduli della logica formale (l'argomento di cui si stava occupando) è inutile formularle, perché tanto non daranno mai risposte "vere" secondo i criteri della ricerca della verità della Logica Formale. Tutto qui.

Ad esempio, domande come "esiste Dio?", "L'anima è immortale?" o "E' possibile evocare il fantasma di mia nonna?", sono domande che non possono essere risolte con il ragionamento "logico-filosofico" scientifico, anche perché non è possibile formalizzare (quantificare, misurare, definire....) concetti come "Dio", "anima" o "fantasma di mia nonna".

Ciò non nega in assoluto la possibilità di "conoscere" tutta questa parte dei discorsi umani, che può essere "conosciuta" in mille altri modi, come per esempio con l'esperienza mistica, la rivelazione, l'allucinazione, il sogno, la trance, l'intuizione, l'estasi, la possessione e l'invasamento, il reve eveillé... e ancora la poesia, l'ebbrezza bacchica, la masticazione dell'alloro, l'inalazione di gas vulcanici... Completi lei la lista: un metodo è intrinsecamente "valido" quanto un altro, dato che non è mai possibile valutare, al di là dell'aspetto soggettivo, la validità dei risultati.

Insomma, la frase che lei cita nega, non che sia possibile conoscerle, bensì che sia possibile conoscerle attraverso una certa modalità di ragionamento, cioè attraverso il ragionamento scientifico, "logico-filosofico".
Pace sant'Anselmo, la scienza e la Ragione non avranno mai nulla da dire sull'esistenza - o non esistenza - di entità soprannaturali. Negare l'esistenza di Dio, per esempio, per la Ragione è un atto di fede al pari dell'affermarne l'esistenza: né l'una né l'altra affermazione può pretendere di essere conosciuta attraverso un ragionamento "logico-filosofico"... Il quale quindi, su questi temi, ammonisce Wittgenstein, "deve tacere", perché questo non è il suo campo.

Mi sono dilungato su tutto ciò non certo per farle la lezioncina (lei avrà riconosciuto l'errore già alla parola tre della mia spiegazione) ma perché nonostante la sua citazione sia errata, la sua affermazione, presa in sé... è vera!
Su ciò di cui non si sa nulla, in effetti, è proprio meglio stare zitti. Concordo!

Ma allora, lei ha fatto un'affermazione vera, oppure un'affermazione falsa?
Metà e metà?
Dipende.
Dipende dal punto di vista, e dall'interpretazione.


E qui possiamo allora tornare alla mia lettura di don Bosco. Lei mi chiede, si chiede, "se siano stati sufficienti i mezzi che lei ha adoperato per giungere alle sue conclusioni, o meglio, per presentare la vita di don Bosco ponendosi più che un interrogativo sulla sua vera o presunta omosessualità".

La sua domanda non ammette un "sì" o un "no" incondizionato. La risposta cambia infatti a seconda delle condizioni da lei poste.

Se lei sta parlando dei mezzi che ci offre la Ragione umana, , quei mezzi sono sufficienti. Mi può rimproverare di averli usati male, e può farlo contrapponendo documento a documento (ma insisto, di fronte a tanti indizi l'onere della confutazione tocca a lei, non a me).
Questo è un metodo che accetto... anche perché è l'unico che io conosca.

Se invece lei sta parlando di altri mezzi che non mi offre la Ragione umana, ma che derivano da fede, intuizione, allucinazione, sogno, trance, estasi, invasamento... eccetera eccetera, allora la risposta può essere no.
Però è un "no" che non basta, perché prima che io lo accetti lei mi deve dimostrare che altri metodi di conoscenza della storia umana siano superiori a quelli che fanno uso della Ragione e della metodologia della ricerca storica.
In altre, banali parole, che un'agiografia sia migliore, più "vera" di una biografia.
Quod est tum demonstrandum.

Potremmo fermarci qui. Io riconoscendole il diritto di fare storia per mezzo della fede religiosa, lei, in cambio, riconoscendomi il diritto di, che so io , fare storia per mezzo di una speciale "intuizione mesmerica omosessualista"... che mi ha rivelato che don Bosco era davvero omosessuale. In fondo cos'è il "fiuto" che guida lo storico verso il documento giusto fra mille, se non intuizione, banale, irrazionalissima intuizione? Grazie per avere scritto e arrivederci.

Ma lei è disposto a riconoscere la validità del mio "fluido mesmerico omosessualista" se io riconosco la sua "storia fideistica"? Ne dubito seriamente...


Perciò torniamo coi piedi per terra e atteniamoci al solo principio che entrambi siano disposti a riconoscere come terreno di scontro - e si auspica, di scambio - all'altro: la Ragione.

Su questo terreno, in effetti, noi troviamo subito un punto comune. Così, il  suo suggerimento di consultare le biografie dei collaboratori e le autobiografie è perfettamente sensato. In effetti, anche se a sedici o diciassette anni di distanza (mi perdoni) non ricordo più quale, ricordo di aver consultato anche qualche fonte cattolica... ma senza risultato.

Perché, e qui invoco la testimonianza della nostra comune amica Ragione, anzi della sua figlioletta minorenne "Ragionevolezza", a lei è mai capitato di leggere biografie (e ho detto biografie, non agiografie) di santi che discutano delle loro tendenze omosessuali -- ovviamente non agìte, sia chiaro?

Se sì, potrebbe cortesemente citarmele?

Se no, le risulta che la Chiesa cattolica ritenga, o abbia mai ritenuto, un grave peccato censurare dati e dottrine in contrasto con le sue tesi, nei testi usciti col suo imprimatur?

Ancora, quale credibilità crede che abbiano le fonti che per essere pubblicate debbono prima passare attraverso un vaglio di censura preventiva, rispetto a fonti che non devono superarlo?

E poi lei mi chiede ancora perché io non faccia un uso maggiore delle fonti censurate (nel senso latino del termine, ovviamente)? La risposta è implicita nella domanda...

Ma non importa. Qui sono disposto a concederle io l'ampia facoltà di prova. Mi citi pure lei alcuni brani delle biografie che lei nomina e che discutano - ovviamente per confutarla in modo inequivocabile - l'omosessualità di don Bosco, ed io li ingloberò nel mio sito. Perché è giusto che sia così. Se ho sbagliato, ed ho "peccato di omissione", mi emenderò.

Mi mandi quindi i brani o l'indicazione della pagina dei brani che lei trovasse nei testi da lei sopra citati, ed io manterrò il mio impegno.


Continuando sul terreno della Ragione raggiungiamo un altro punto su cui addirittura è possibile l'assoluto consenso, laddove lei chiede "se la Storia debba essere solo una presentazione dei fatti per come sono avvenuti, improntata più alla fredda cronologia delle vicende, oppure se essa debba attenersi all'interpretazione dello storico di quanto è accaduto, è argomento vecchio e direi abbastanza aporetico".

La mia risposta è che il suo dubbio è assolutamente vero. La mera ricostruzione di quali siano "i fatti come sono avvenuti", o la decisione sul dubbio su cosa costituisca un "fatto", sono già di per sé frutti di interpretazione.

Ogni storia, è storia politica.

Ogni "fatto", è frutto di un'interpretazione: dello storico. E poi ancora, del lettore dello storico.

Ecco perché la mia ricostruzione è legittima. Di parte, da lei non condivisa, ma legittima. Ed ecco perché lei ha diritto di dire che l'omosessualità di don Bosco (se dimostrata, ed io non pretendo di averlo fatto: io ho solo posto la questione) non sarebbe comunque un "fatto storico", ed io ho il diritto di dire, che so, di sì.

Lo storico, ogni storico, è parte in causa della storiografia che scrive.

Non esistono ricostruzioni storiche oggettive, ed era questo che cercavo di dirle la volta scorsa.

La mia è una lettura di parte, ma anche la sua lo è, né più né meno della mia.

La nostra differenza di idee ruota attorno al fatto che lei chiede di "separare molto bene ed esplicitamente le proprie convinzioni dai dati oggettivi della Storia", mentre io sostengo che ciò è impossibile: si può solo avvisare il lettore di quali siano le "proprie convinzioni" (in modo che possa separare lui, con la sua intelligenza, la farina dalla crusca), tant'è che nel mio sito io:

  1. dichiaro che questo è un sito di parte (addirittura parte di un ring di siti di cultura gay, nell'ottica di un movimento di liberazione) scritto con un ben preciso programma politico. Cosa che non sempre i cattolici (a dire il vero, le religioni organizzate in genere) fanno, tanto che spesso si camuffano da improbabili "gruppi di cittadini" o "fondazioni culturali", o simili;
  2. pubblicando la sua lettera, con le sue smentite, la sua lettura diversa dalla mia, la sua bibliografia. Ho fatto un link a queste lettere in fondo alla pagina su Bosco (controlli pure) quindi d'ora in poi chiunque la leggerà potrà leggere anche il suo - opposto - punto di vista in proposito.
    Mi chiedo quanti siti cattolici e salesiani sarebbero disposti a pubblicare una mia lettera di smentita sul tema di cui parliamo. Vogliamo fare un scommessa su quale metodo lasci maggiori possibilità di giudizio autonomo ai lettori, se il mio o quello cattolico?

Infine, le concedo senza problemi il punto sui "contrasti di don Bosco con la gerarchie", punto che mi stupisce che le stia così a cuore, dato che per me era ed è totalmente marginale. Riporto il suo punto di vista, che d'ora in poi sarà a disposizione di tutti i lettori.

Non mi costa addivenire alla sua richiesta e dichiarare: gli screzi con la gerarchia non furono "poi" così gravi, e non "così" tremendi.

Anche perché, siano stati come siano stati, il mio punto era tutt'altro: don Bosco era o no omosessuale?
E se sì, è lecito dire che un omosessuale può essere santo, e un santo omosessuale?


E qui torno alla mia domanda (per nulla "sofferta": semmai polemica): i santi omosessuali, dove sono?

Mi spiace insistere, ma Hic Rhodus, hic salta. Le due cose non possono essere vere tutte e due: o ci sono santi omosessuali, o non ci sono. E se ci sono, chiedere chi siano, e ipotizzare il nome di uno di loro, non è irrispettoso, blasfemo. Sarà politicamente scomodo, questo sì (e non solo per la Chiesa, le assicuro) ma nessuno può impormi di non fare una domanda solo perché gli è scomoda.

Io ho trovato almeno un documento inoppugnabile: la vita di sant'Elredo di Rievaulx, scritta dal suo discepolo, che accenna ai rapporti omosessuali da lui avuti prima della conversione e l'entrata in monastero. Dove scrisse un capolavoro dell'amore (casto!!!!) fra uomo ed uomo, la Spiritalis amicitia.
Ma l'avere inserito nel mio sito il link verso un sito cattolico che ne parla mi è valso una lettera furibonda del webmaster (un religioso), che pretendeva inizialmente addirittura che togliessi il link al suo sito. Non l'ho fatto, ovviamente, ma ho pubblicato, col suo consenso, la sua smentita e protesta.

Come vede, c'è del metodo nella mia follia.

E quindi ripeto, metodicamente: ci sono o no santi omosessuali? Se sì, chi sono? Se no, perché?


Ovviamente io so che lei non può rispondermi, perché siamo di fronte a una verità doppia, bifida, che non si può ammettere apertamente. Non solo la Chiesa non ammette omosessuali fra i santi, ma adesso non li ammette più neppure al sacerdozio (la categoria che oggi fornisce il massimo contingente di santi, a parte i martiri). Li giudica "moralmente disordinati"... ed a questo punto è un po' difficile arrivare alla santità con una condizione che è "intrinsecamente" moralmente disordinata, indipendentemente dalla sua messa in pratica o meno. Non trova?

La verità, e io immagino che lei lo sappia quanto me, è che la Chiesa non ritiene che un omosessuale possa essere santo. E quindi, con un falso sillogismo che forse lei amerà, tutti i santi, per il solo fatto di essere santi, non possono essere stati omosessuali.
Don Bosco incluso.


Quanto alla sua distinzione fra Chiesa come Magistero e come ecclesìa (comunità dei cristiani), riconosco l'imprecisione del mio modo di esprimermi, e quindi le riconosco la ragione della sua osservazione.
Avrei dovuto dire "le gerarchie cattoliche". Ovviamente sono solo loro che possono inviare diktat al nostro Parlamento, non certo la "perpetua" del paesino di montagna di cento anime, per quanto fervidamente credente sia.


Per finire, le sua considerazioni sulla verità. Ovviamente non mi aspettavo risposta diversa dalla sua, che è la stessa di Gesù: EGO sum veritas. Traduzione spiccia: la verità è quella che ho in tasca io. Io lo trovo tremendo: il fondamento di ogni totalitarismo e di ogni lager o gulag. Ovviamente lei no.
Ma va bene, e sia. Lei è libero di crederlo, e di dirlo, e di scriverlo, e di predicarlo. Finché io sarò libero di scegliere se crederlo o meno, per me è OK.

Poi, no, non conosco bene Vattimo (non ho particolare simpatia per il "pensiero debole", che reputo una delle forme più totalitarie di pensiero forte, solo camuffato, lupo fatto agnello) ma so che il pensiero contemporaneo non conosce solo "mezze verità": conosce anche verità false. Cioè enunciati che se sono veri sono falsi, e se sono falsi, allora sono veri.
Come questo: "questa frase cotiene tre erori". Se è falsa, gli errori sono tre, ed allora è vera. Ma se è vera, gli errori diventano due soli. Quindi è falsa.
Eccetera eccetera: conoscerà certo anche lei questi trastulli, che però trastulli non sono affatto, perché sono in realtà serissime fondamenta di teoremi logico-matematici volti a dimostrare l'impossibilità di sistemi "chiusi" di certezze... Oibò.

Ma non discutiamone. Non mi nuoce il fatto che lei aderisca a un'istituzione totale che pretende addirittura di possedere, lei sola!, una verità assoluta, immutabile ed immutata (chi conosce la storia sa che quest'ultima affermazione è particolarmente falsa, ma, ripeto, tale convinzione non mi nuoce in nulla).

Lei ha il diritto di pensarlo. E di scriverlo. E di scrivermelo.
Benvolentieri quindi le ho lasciato lo spazio per dare la sua piccola ma sentita testimonianza di quel che secondo lei costituirebbe la "Verità". Non mi infastidisce che i visitatori possano leggere, sul mio sito, tale testimonianza. Proprio perché penso che nessuno possieda la Verità, penso di non possederla neppure io. Neppure lei, sia chiaro, ma neppure io.

Chi crede nella libertà di parola ci crede anche per coloro che sa che la useranno, poi, per chiedere la sua abolizione. Un paradosso che si ripropone da che esiste la libertà di parola.

Ma la vita umana, e la logica umana, pullulano di paradossi...

I miei più cari saluti.

Giovanni Dall'Orto

[27/9/2004 - Un commento di una lettrice a questo scambio epistolare si trova qui].

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