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Alessandro Barbero, Barbari, Laterza, 2010.
Copertina di ''Barbari''.

[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto
 


Quando gli "extracomunitari" si chiamavano semplicemente "barbari".

Non ha avuto tutti i torti l'editore a promuovere questo studio, che tratta del rapporto fra Impero romano e popolazioni stanziate oltre i suoi confini, come una riflessione sulla presenza degli "extracomunitari" ante litteram.

L'attualizzazione del tema ci permette di capire la fondamentale duplicità che caratterizza tutta la storia di questo rapporto: da un lato il barbaro è un nemico, sempre pronto ad attaccare e rapinare, e come tale va sconfitto e punito, anche - se necessario - con lo sterminio del suo intero popolo.
Dall'altro è un essere umano come chiunque altro, quindi adatto a diventare un suddito, un contribuente e negli ultimi secoli dell'impero anche un soldato, esattamente come tutti gli altri popoli che, prima del suo, l'impero aveva sconfitto e sottomesso.

Barbero non insiste più del dovuto su questo richiamo alle tematiche che fanno sgolare i leghisti odierni. Il suo interesse è infatti prettamente storico. E il suo compito è mostrare come l'integrazione degli sconfitti nell'impero sia sempre stata una strategia deliberata, che solo negli ultimi decenni scappò di mano, ma per ragioni che nulla avevano a che vedere con la tradizione in sé.


I romani facevano la guerra per conquistare terre, ma non sapevano che farsene di terre vuote, prive di contadini, bovari e vaccari che pagassero loro le tasse. I barbari sconfitti, le loro mogli e i loro figli erano prede altrettanto ambite dei loro greggi e delle loro terre.
Proponendo una lunga serie di citazioni degli storici antichi, Barbero riesce a dimostrare quanto spesso i generali e gli imperatori romani, inflitta una prima sconfitta ai nemici barbarici, si affrettassero a recuperare quanti più superstiti fosse possibile, concedendo loro terre e viveri in zone spopolate o sotto-popolate. Un comportamento assurdo, per chi ragiona in termini di guerra di sterminio, come si fa oggi, ma perfettamente logico per chi vedeva nella guerra letteralmente un metodo di gestione delle "risorse umane".

Barbero ricorda che esistevano tradizioni giuridiche di accoglimento (hospitalitas) per l'insediamento d'interi popoli che si presentavano alla frontiera, spesso incalzati da nemici troppo forti emersi all'improvviso dalle sconfinate steppe asiatiche.
A volte la richiesta era pacifica, altre la disperazione spingeva a credere che l'uso delle armi avrebbe ottenuto di più e prima, e allora la spietata macchina da guerra romana riusciva sempre a macinare ed annientare la "protervia" barbarica. Ma anche in questi casi si finiva per tornare alla tradizione: i superstiti venivano immancabilmente risucchiati nell'impero come schiavi, contadini, soldati, e nel giro d'un paio di generazioni erano romani tanto quanto gli altri sudditi.


La crisi demografica degli ultimi due secoli dell'impero, creando vuoti nei campi e nei ranghi militari dell'impero, spinse poi a considerare i barbari sconfitti o supplici sempre più come una "risorsa" da sfruttare.

Barbero ribalta la visione tradizionale d'un impero sempre più "infiltrato" dai barbari fino ad essere indebolito nelle sue fibre e quindi crollare. Al contrario: dati alla mani dimostra che le crepe sempre più larghe dell'edificio dell'impero furono rappezzate e cementate per due secoli con le iniezioni di cemento fresco fornito proprio dai barbari. Solo la sparizione progressiva del "muro", i soldati indigeni, fece saltare questa strategia, specie dopo la battaglia di Adrianopoli, quando i goti divennero talmente numerosi nell'esercito da comportarsi sempre più come "alleati", se non come "mercenari", che come "sudditi". Ma a questo punto la crisi era endogena.

Prima di allora, aveva sempre funzionato perfettamente il trucco d'integrare stabilmente nell'Ecumene romano i nuovi arrivati, al punto che nella propaganda imperiale divenne un luogo comune (perfino quando era ormai palesemente falsa) l'immagine del "barbaro sconfitto che ora gioisce sotto le miti e umane leggi romane", usando a fin di bene anziché di male la sua barbarica e sovrabbondante vitalità in qualità di coscritto nell'esercito.

Fu proprio all'esercito (che risucchiava barbari da mezzo mondo e li risputava cittadini romani, che magari masticavano pure un po' di latino) che fu affidato il compito principale di agire da melting pot. E finché riuscì a svolgere questo ruolo, fornendo uno "spirito di corpo" alle reclute e spingendole a identificarsi con l'Impero, tutto andò bene. (La situazione ai miei occhi non appare diversa da quella dell'esercito statunitense attuale, che arruola latinoamericani offrendo loro la sospirata green card al termine del servizio, ricevendo in cambio un servizio impeccabile).

Fu solo quando, per motivi endogeni, le istituzioni romane smisero di funzionare, che i barbari dilagarono al di fuori dei confini che erano stati tradizionalmente imposti loro -- con la forza, ovviamente, ma pur sempre imposti con successo.
Tant'è che proprio nel "fallimento dell'integrazione gotica" a cavallo fra IV e V secolo Barbero vede, nell'ultimo capitolo, la ragione dei guai passati dalla parte occidentale dell'impero, guai noti collettivamente come "invasioni barbariche".


Insomma, fino a che l'impero funzionò, in quanto istituzione, non solo la pretesa "infiltrazione" dei barbari non lo indebolì, ma al contrario lo rafforzò.
Ciò che innescò la crisi fu la crisi stessa delle istituzioni politiche, e il dilagare spaventoso della corruzione, che questa volta impedì, a differenza delle volte precedenti, una risposta adeguata a una nuova (non la prima, e neppure l'ultima) ondata di popolazioni provenienti dalle steppe asiatiche.

Da un lato latifondisti aristocratici che ricorrono alla corruzione per evitare che l'esercito utilizzi il proprio diritto di coscrizione dei "loro" contadini, ormai non più uomini liberi ma sempre più "servi della gleba". Dall'altro ufficiali, romanissimi, che vendono per proprio profitto personale i materiali destinati al nutrimento e alla paga dei soldati, e al mantenimento della struttura.

Su tutto, aggiungo io (non Barbero), incombe una classe dirigente sempre pronta a produrre usurpatori e a fare a pezzi lo Stato per i propri interessi personali, e che in ogni militare capace vede ora un pericolo, finendo per eliminare sistematicamente i generali che come Stilicone o Ezio avevano il solo torto d'aver vinto troppe battaglie contro gli invasori, mantenendo al comando solo quelli abbastanza incapaci da non costituire un pericolo...

L'ondata "barbarica" è un attore che arriva su questa scena ed effettivamente ne approfitta, sostituendo il proprio potere a quello d'uno Stato che si stava disgregando dall'interno.
Ma questa crisi è sfruttata, e non creata, come invece ha preteso per secoli la storiografia di marca nazionalista.

Se la storia insegna qualcosa, quindi, è che i veri barbari sono coloro che pongono barriere di tutti i tipi alla completa integrazione del "sangue fresco" portato dalle immigrazioni.


 
 
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