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[Saggio]
Recensione di Giovanni Dall'Orto
Moltissimi dettagli (anche interessanti), ma poco senso critico.
Non succede spesso di comprare un libro per saperne di più su una realtà da cui si è affascinati, e chiuderlo raccapricciati da quel che s'è appreso. Soprattutto se, come in questo caso, il libro in questione è apologetico.
Iniziamo col dire che Steven Levy è un giornalista, scrupoloso fino alla noia, competente nel campo del business informatico al punto da usarne il gergo senza preoccuparsi dei lettori che non lo capiscono... però è anche uno che ha venduto l'anima al diavolo. In cambio della garanzia che non avrebbe detto nulla che potesse presentare in una luce meno che entusiasmante Google, ha infatti avuto accesso a tutti i massimi dirigenti, al punto di potersi giustamente vantare di basare interi capitoli su interviste di prima mano ai protagonisti degli eventi narrati. Il che è al tempo stesso ottimo (il bravo giornalista cerca sempre notizie di PRIMA mano) e pessimo (il bravo giornalista cerca sempre almeno DUE fonti e punti di vista diversi).
Il
risultato è un libro che fornisce l'ampia informazione di cui ero
alla ricerca (a volte fin troppo ampia), ma lo fa usando la formula
stucchevole e ideologica della success-story all'americana (per
giudicare le quali ruberò l'ingenua osservazione di Leonardo, secondo
cui "salvatico è ciò che si salva", osservando da
parte mia che "successo è ciò che riesce a succedere").
Page
e Brin sono due re Mida che trasformano in oro tutto quello che toccano.
Hanno intuizioni che nessun altro al mondo ha. Sono genii dalla Visione
del Futuro unica e irripetibile. Sono paladini d'una filosofia e di uno
stile di vita che punta unicamente a renderci tutti più felici e
migliorare la nostra vita. Eccetera...
Il
fatto che Google possa avere avuto "problemini" con l'antitrust
o col garante della privacy è giusto un piccolo incidente di percorso
causato dal fatto che a 'sto mondo c'è gente tanto stupida da non
averne capito la natura benigna e profondamente positiva...
L'entusiasmo per i fondatori di Google è talmente smaccato che a tratti mi sono chiesto se Levy ci credesse davvero, a quanto scriveva, o se abbia semplicemente trangugiato l'amaro calice pur di pubblicare un libro "autorizzato" dai massimi dirigenti di Google. Cosa tutt'altro che facile, data la notoria paranoia del gruppo dirigente di questa azienda. Mi spinge a pensarlo il fatto che nonostante tutto a tratti Levy non riesce a nascondere i lati negativi di questa multinazionale, che proseguendo nella lettura emergono in modo sempre più prepotente. A pagina 302 Levy si lascia perfino scappare, alludendo al celebre slogan commerciale di Google "Non fare il male", che "Il male è ciò che Sergey [Brin] dice che è male". Il senso dello slogan passa così da quello d'esempio di atteggiamento etico e benevolente, ad esemplificazione delle protervia con cui Google pretende di decidere per noi tutti cosa sia il bene e cosa sia il male.
La
storia raccontata in questo libro vede fondamentalmente tre fasi. Nella
prima Google è una minuscola start-up che sfida e sconfigge
società molto più grandi di lei proponendo un prodotto sbalorditivamente
migliore e innovativo. Trionfa dando agli utilizzatori, banalmente, ciò
che essi chiedono (cosa che i concorrenti si rifiutano di fare, avendo
a mente unicamente i capricci degli inserzionisti paganti).
Questa
è la parte "gloriosa" del libro, e la ricostruzione degli inizi
(se si toglie il tono enfatico e adulatorio del trombettiere di corte Levy)
risulta quella più interessante e godibile.
Poi
in seconda battuta arriva il successo (con la pubblicità AdSense
e AdWords), e il denaro a fiumi: a miliardi di dollari all'anno.
Google (ci spiega Levy) lo tiene nascosto il più a lungo che
può, per non inquietare i concorrenti e diventare ancora più
grande e potente prima che costoro si rendano conto di dovere agire per
fermarlo.
La
descrizione di come la giovanissima società azzecchi una proposta
geniale dietro l'altra, rendendo gratuiti servizi che prima erano a pagamento,
si legge al tempo stesso con fascino e con orrore. Con fascino, perché
Google ha davvero rivoluzionato in una manciata d'anni il mondo di Internet
(e la nostra vita). Con orrore, perché il piccino ha dimostrato
la stessa velocità di crescita che hanno solo certe cellule tumorali,
espandendosi in ogni direzione senza badare se il tessuto che divorava
fosse sano o no.
E infine
si arriva alla terza fase, l'attuale. I dirigenti di Google sono riusciti
a diffondere per un periodo sorprendentemente lungo l'immagine della start-up
scanzonata anche quando Google era ormai una multinazionale con un fatturato
superiore al PIL di certi Stati, ma a un certo punto è diventato
visibile a tutti come Google ormai fosse una corporation di pari
rango (e d'identica mentalità) di Microsoft o Apple, se non altro
per il fatto che la sua presenza stava invadendo qualsiasi aspetto della
nostra vita che avesse a che fare con l'informazione.
Da
questo punto di vista colpisce il lettore il culto del segreto coltivato
da chi, come Google, pretende da un lato di non svelare all'utente neppure
i criteri in base ai quali gli fattura i suoi annunci pubblicitari, dall'altro
invece di entrare a conoscenza di ogni singolo dato della sua vita (nei
giorni in cui sto scrivendo queste righe Gmail sta pretendendo che io gli
comunichi il mio numero di telefono con una tale insistenza asfissiante
da farmi seriamente considerare l'ipotesi di cambiare servizio di posta).
Anche
qui Levy sposa acriticamente il punto di vista dei padroni di Google, al
punto che a p. 372 si lascia scappare che Google ottenne una "vittoria
sulla privacy", con ciò ammettendo che Google è in guerra
contro la privacy e che la privacy è un suo nemico. Coloro che criticano
Google per questo atteggiamento sono invece i "saccenti professionisti
della privacy" (p. 373) e così via, con una faziosità
sempre più fastidiosa ad ogni pagina che passa.
E non
si tratta solo di omissioni (pur sempre un peccato, ma veniale): si arriva
proprio a distorcere i fatti. Come nel punto in cui Levy, accennando un
po' svagatamente ai processi in corso per massicce violazioni della privacy
da parte di Google, afferma che "nessuna legge impediva la combinazione
di tutte queste informazioni in un unico file". Purtroppo per lui,
e per Google, nell'Unione Europea ci sono invece fior di leggi (chiamate
"Leggi sulla privacy") che proibiscono esattamente
questo..
Levy esagera a tal
punto nel prendere sempre le parti dei padroni dell'azienda da descrivere
in questo modo incredibile come lo "snellimento" e la ricerca d'efficienza
portarono Google al primo licenziamento in massa: "Alla fine del 2008,
per esempio, (...) i googler notarono che molti dei lavoratori distaccati
presso le reception degli edifici intorno al campus erano
improvvisamente scomparsi, il più rapidamente e semplicemente possibile,
esattamente nello stesso modo in cui Google cancella lo spam dalle
sue classifiche di ricerca" (p. 283). Il problema è che questa
non è una critica per come Google tratti i lavoratori "in esubero"
come se fossero spam: è una lode alla sua efficienza...
Così, nel
racconto di questo innamorato di Brin & Page la vicenda di "Google
books", al tempo stesso un progetto visionario e il più grande furto
di "proprietà intellettuale" mai tentato nella storia umana, anziché
risultare istruttivo ed aiutarci a capire cosa accadde (Google fu bloccato
dal Congresso degli Stati Uniti dopo una serie di cause legali) diventa
una specie di frigno su quanto il mondo non capisse il povero Google. Le
legittime (in senso letterale) pretese di autori ed editori diventano nel
racconto di Levy meri "cavilli legali", la legge sul diritto d'autore che
Google ha infranto diventa stupida e ingiusta (ma in tal caso avrebbe dovuto
battersi per cambiarla, e non fregarsene ed infrangerla sperando di farla
franca) e le azioni per imporgli di rispettare la legge diventano azioni
ottuse ed oscurantiste. Eccetera.
Di fronte a tale
e tanta piaggeria vengono i nervi, anche perché il libro di Levy
è pubblicato con tanto di nota che avvisa che se io ne voglio fotocopiare
alcune pagine devo pagare la Siae per farlo, dunque quella legge, quando
lo riguarda, a Levy tanto stupida e tanto ingiusta non sembra (volendo,
avrebbe potuto pubblicare il libro gratis in Rete con licenza Creative
Commons).
Questo caso di "doppia
morale" è un ottimo indicatore di tutto quanto non va con Google:
grande e rivoluzionario quando spezzava posizioni monopolistiche e svecchiava
il mondo, è oggi un monopolista che lotta contro i rivoluzionari
che cercando di spezzare la sua posizione.
Ci sarebbe molto
da discutere sul motivo per cui gli ultimi anni di Google sono ricchi di
scelte sbagliate, da Google books (idea geniale, ma portata avanti in modo
talmente imbecille da renderla una sconfitta epocale), a Knol (l'alternativa
professionale a Wikipedia -- mai decollata), fino alla bocciatura, da parte
dei tirannelli autoproclamati onniscienti che sono al comando di Google,
dei servizi di social networking creati dai dipendenti di Google
(come Orkut), il che ha offerto a Facebook a Twitter la possibilità
epocale di prendere una rincorsa tale che ormai Google non riesce più
a colmarla (come dimostra l'ennesimo flop con di g+).
Per questi motivi nelle ultime pagine la fede acritica e adorante di Levy ha infine qualche cedimento, e qualche critica (oibò) fa capolino qui e là sotto il suo mare di melassa.
Il
libro, in conclusione, si rivela una fonte di dati preziosa ma acritica
e sbilanciata per partito preso dalla parte di Google.
Ciò
che è errato è il tentativo di far sopravvivere per qualche
anno o mese ancora l'immagine della compagnia "buona", che "non fa il male"
e ci aiuta a vivere meglio, quando l'appetito monopolistico e il disprezzo
per qualsiasi cosa che non rientri nei propri interessi economici di Google
sono ormai visibili anche ai più ingenui ed entusiasti.
Da
questo punto di vista Google non è affatto peggiore, o diversa,
da Facebook, Microsoft o Apple: tutte cercano di rinchiuderci nel loro
"giardino cintato" nel quale saremo "liberi" dal bisogno di ricorrere ai
prodotti di altre aziende (e "quindi" felici); la differenza sta nel fatto
che fra queste aziende Google è quella che insiste con la massima
petulanza sul fatto che lo vuole fare esclusivamente per il nostro bene
(cito dal libro: "Saremo il vostro reparto IT", ha detto Upson, "non
avrete più bisogno di preoccuparvi di aggiornamento del software
o roba simile. Ci prenderemo cura di tutto noi al posto vostro" , p.
234: l'esatta promessa del Grande Fratello in 1984...).
E
la tragedia è che leggendo questo libro sorge il sospetto che forse
Brin e Page credano per davvero a questa stronzata, quando la enunciano...
In più Google
è in mano a gente capace di lanciare (p. 374) un "servizio" che
memorizza, attraverso il cellulare, tutti gli spostamenti che una persona
ha fatto, giorno dopo giorno e anno dopo anno.
E che si aspetta
pure d'esser ringraziata per questo meraviglioso "servizio" di spionaggio.
Paradossalmente,
è proprio l'aspetto di acritica approvazione dimostrato da Levy
che finisce per rendere interessante la lettura di quest'opera, a chiunque
sia interessato alla storia e alla vicenda di Google. Leggendola, infatti,
si riesce ad entrare nei meandri della psiche di coloro che stanno letteralmente
progettando il nostro "destino" futuro (cito: "Google aveva dichiarato
che il cloud era il suo destino. E il nostro", p. 234).
Da
questo punto di vista Google non è né ne peggiore né
migliore degli altri attori in gioco. Il fatto che, come racconta Levy,
la società abbia scelto di non inserire il riconoscimento dei volti
nei suoi telefoni (punti il cellulare, fotografi la faccia, e Google ti
svela l'identità di quella persona) per non ricordare troppo il
Grande Fratello, depone a favore della saggezza del dipartimento marketing
della società, e non certo del fatto che simili tecnologie non esistano
già (la Cia ha candidamente ammesso di averne finanziato la creazione).
Se
non lo fa Google, lo farà qualcun altro.
Il
problema, qui, non è ciò che la tecnologia rende possibile
(interessante da questo punto di vista il dettagliato capitolo su come
le autorità cinesi siano riuscite a "imbavagliare" Internet, e a
sconfiggere Google) ma l'uso che ne viene fatto e la regolamentazione che
rende necessaria. Cioè la questione delle leggi che regolamentino
gli usi (ed abusi) della tecnologia.
Ebbene,
spiace dirlo, ma questo libro non solo ignora questo aspetto, ma si colloca
nel campo opposto: Google si spaccia per paladino della libera informazione,
e lo è davvero quando organizza e rende accessibili dati fino a
ieri riservati a pochissimi, ma intende la parola "libertà" nel
senso che pretende di essere libero di schedare tutti noi in qualsiasi
modo possibile e immaginabile, senza nessun limite. E questo non è
"libertà": è la base per costruire il mondo di 1984.
C'è da dire a favore di Levy che questo libro è abbastanza buono da permettere al lettore non sprovveduto di raccogliere dati e mezze ammissioni sul fatto che Google predica bene e razzola male: tanto è esagitato nel chiedere il diritto di libera ripubblicazione di tutti i libri della storia umana, di tutti i filmati e di tutta la musica della storia umana, di tutte le informazioni, le notizie, gli articoli di giornali della storia umana... tanto è paranoicamente geloso della "proprietà intellettuale", del segreto, della riservatezza, della chiusura verso la richiesta di informazioni quando tutto ciò riguarda se stesso. Lo è stato perfino quando si è quotato in borsa, rifiutando di dare tutte le informazioni che in questi casi si forniscono, figuriamoci sul resto.
Dunque, un libro che non solo espone, ma contiene tutte le luci ed ombre di questa multinazionale. Fastidioso a tratti, per il tono apologetico, ma indubitabilmente utile al lettore.
Un
ultimo appunto riguarda la traduzione, che a tratti sembra fatta con "Google
translate" (si veda alle pp. 274-275 l'uso - ripetuto, quindi
non semplice refuso accidentale - della locuzione "milioni dollari", calco
sull'inglese "million dollars", anziché "milioni di dollari",
o a p. 388 il più banale ed elementare false friend inglese,
"eventually", tradotto come "eventualmente" anziché come "alla fine").
L'impressione
che si ha è quella d'un lavoro affidato a un traduttore sottopagato
e sottoposto a una pressione eccessiva affinché consegnasse in un
tempo troppo breve, che ha tradotto al volo senza avere neppure il tempo
di rileggere, e questo passi, ma a volte senza neppure comprendere cosa
stesse dicendo Levy.
Qui
la colpa è in parte di Levy stesso e del suo uso non necessario
del gergo geek, vezzo dal quale derivano letteralmente decine
di sigle ed abbreviazioni ed espressioni non tradotte, o non capite, dal
traduttore, nonché certi grovigli di parole sintatticamente corretti
ma privi di significato umanamente comprensibile. A volte ritraducendo
in inglese si riesce a capire cosa volesse dire Levy, ma spesso anche così
i brani oscuri erano ed oscuri restano.
Diciamo
allora che da un editore come Hoepli un minimo d'investimento per la revisione
redazionale del testo ce la si aspettava...
E
no, "purtroppo" Google non ha ancora prodotto nessun software che sia capace
di sostituire una buona cura redazionale... per ora.