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[Saggio]
Recensione di Giovanni
Dall'Orto
Grandezza e decadenza dell'impero americano, ehm, bizantino...
Un libro che dedica sette pagine a spiegarmi in cosa consistesse l'arco composito, innovazione portata nel secolo V d.C. dalle popolazioni della steppa al bacino mediterraneo, non può essere cattivo. Ma solo a patto che riesca a farmi leggere quelle sette pagine con vivo interesse, senza farmi rendere conto del fatto che mi sono appena sciroppato una mini-monografia su un tema delirantemente astruso...
Ho
comprato questo libro (25 euretti... ahi! :-( ) perché penso che
il ruolo e l'importanza dei bizantini sia stata deliberatamente sminuita
dalla storia che abbiamo studiato. Mille anni di vita d'un impero mondiale
- potenza militare, religiosa, culturale, politica, economica - liquidati
in poche frasi.
Be',
non mi sono pentito, perché vi ho trovato un affresco di grandi
dimensioni, che spazia dalle tecniche alle tattiche alla cultura alle riflessioni
storico-strategiche.
Il fatto che il suo autore sia un politico della destra statunitense, nonché consigliere militare del governo, a mio parere non fa che rendere ancora più interessante il testo, lungi dal diminuirne il valore, come taluno lamenta. Perché, come ci ricordava Croce, "ogni storia è storia contemporanea", e il fatto che un consigliere dell'impero egemone al mondo s'interroghi sulle ragioni della millenaria tenuta d'un altro impero offre un affascinantissimo esempio d'intelligenza politica e analitica al lavoro.
Luttwark
è infatti una di quelle raffinate intelligenze politiche di spicco
che di tanto in tanto la destra riesce a produrre (come ad esempio Henry
Kissinger prima di lui), tanto più pericolose e perniciose quanto
più acute e intelligenti sono.
Se
si possono esecrarne le teorie e soprattutto le azioni (Luttwark ha partecipato
a "interrogatori" di "terroristi"... e ho detto tutto), non si può
negare che esse siano in grado di creare "narrazioni" coerenti del reale,
tanto convincenti da non poter essere liquidate senza ribattere con narrazioni
altrettanto convincenti. Si possono amare o odiare, ma non ignorare. E
in ogni caso, obbligano a pensare.
La
tesi centrale del volume, svolta con estrema lucidità e intelligenza
per quasi 550 pagine, è che l'impero bizantino, a differenza del
suo predecessore (l'impero romano, alla cui strategia militare Luttwark
aveva dedicato un precedente volume) non s'illuse mai sul fatto che
la forza militare potesse dare da sola risposte "definitive" nell'incessante
lotta contro i popoli che premevano ai suoi confini.
La
strategia bizantina fu infatti sempre flessibile, alternando spedizioni
militari a trattati, ad alleanze (specie se mettevano due nemici l'uno
contro l'altro), all'influenza culturale tramite conversione al cristianesimo,
all'educazione degli ostaggi nella cultura bizantina (questo oggi lo chiamiamo
"soft power"), al pagamento di tributi... Anzi, ogni volta che pagare
tributi ai barbari si rivelava meno costoso che intraprendere un'azione
militare, i bizantini non esitarono a pagare, anche allo scopo di creare
potenze-"cuscinetto" ai propri confini, che combattessero per conto loro
la congerie di popoli che dalla Cina e dalla Mongolia continuavano ad arrivare
a getto continuo in direzione dell'Europa.
Non è difficile in quest'analisi cogliere subito lo spunto polemico verso la rozzezza d'analisi dei vari Cheney, che nel ricorso alla diplomazia vedevano solo vigliaccheria, nonché un cedimento da "femminucce" degno di quegli europei che "vengono da Venere", mentre gli americani vengono da Marte e quindi spaccano tutto e non trattano mai (e s'è visto poi come sia finita).
Con
un sorriso di compatimento Luttwark dimostra invece che nella situazione
creatasi a partire dal V secolo d.C. (soprattutto dopo Giustiniano,
la cui ripresa della strategia romana tradizionale naufragò nello
sterminio causato dall'epidemia di peste bubbonica che gli spopolò
l'impero) i bizantini si resero conto rapidamente del fatto che distruggere
completamente un nemico (come usavano fare i romani con tutti coloro che
"non avevano la saggezza di riconoscere la convenienza della sottomissione")
significava creare uno spazio vuoto che avrebbe attratto entro breve l'insediamento
di nuove popolazioni, e quindi nuovi nemici, magari più temibili
dei precedenti.
Il
nemico d'oggi poteva essere l'alleato, o la truppa ausiliaria, o la truppa
mercenaria, di domani. Andava battuto, ma non sterminato. E se poteva essere
placato con l'oro anziché col ferro, tanto meglio. Specie poi se
l'oro veniva usato (da chi aveva abbondanza di cavalli, carne di cavallo,
pelli di cavallo, latte di cavalla, e crini di cavallo -- e basta) per
comprare merci di lusso bizantine....
Anche qui non è difficile vedere il parallelo col "pasticcio" iracheno, nel quale la liquidazione totale di uno stato avversario, ma al tempo stesso nemico giurato dei fanatici sunniti e della teocrazia iraniana, ha creato un immenso "buco" geopolitico nel quale Iran e al Qaeda si sono ficcati a testa bassa, senza più nessuno che li contrastasse.
Si noti comunque che questo libro è perfettamente leggibile e godibile anche senza tener conto dei bersagli polemici del suo autore. Anzi, a volte il suo ragionamento è così sottile che il parallelo col presente sfuggirà ai più.
In altre parole, il saggio di Luttwark è del tutto godibile anche se ci si vuole limitare unicamente a ragionare sul fatto se sia o no storicamente corretto affermare, come fa lui, che so, che il cavallino mongolo e l'arco composito introdotti dagli Unni rivoluzionarono le tecniche di combattimento del mondo tardoromano...
E allora seguiamo questo ragionamento, per vedere come Luttwark argomenti, senza bisogno di paralleli col presente.
L'esercito romano professionista, imperniato sulla fanteria, era una "macchina assassina" (quasi) imbattibile sul campo, e tale rimase fino alla fine dell'impero (si pensi alle vittorie di Stilicone o Ezio). Tuttavia il costo del suo mantenimento si rivelò proibitivo contro popoli che non inviavano eserciti, ma erano essi stessi eserciti, per di più di cavalleria, per di più armati di un'arma dalla potenza perforante fin lì inaudita (in grado di bucare scudi e corazze e maglie di metallo).
La mobilità di questi nuovi nemici era stupefacente, e permetteva loro di sfuggire alle sconfitte semplicemente abbandonando il campo, salvo riapparire immediatamente dopo, intatti e soprattutto imbattuti.
L'esercito romano (e i bizantini erano i romani della parte orientale dell'impero) dovette essere ripensato, adottando armi e tattiche dei nemici, cosa che i bizantini riuscirono a fare in tempi relativamente brevi, o almeno sufficientemente brevi da evitare il crollo che invece colpì la parte occidentale, e il millenario medioevo che ne conseguì.
Ma
al tempo stesso, vista l'impossibilità di essere a loro volta popolo-esercito
(cosa pensabile solo per allevatori di bestiame nomadi), per i bizantini
si rivelò sempre utopistico riuscire ad avere un esercito professionale
sufficientemente ampio da sconfiggere tutti i popoli che attaccavano da
tutti i lati, spesso in contemporanea.
Da
qui la necessità di evolvere una raffinata capacità strategica
(riassunta in trattati di strategia a cui Luttwark dedica un'analisi
individuale assolutamente deliziosa) che permise all'impero bizantino di
sopravvivere mille anni.
E
soprattutto gli permise di sopravvivere a tutti gli altri imperi che cercarono
di abbatterlo, dagli alani agli unni, dai parti agli arabi, dai variaghi
ai bulgari, dai turchi selgiuchidi fino ai regni crociati... l'elenco è
lunghissimo. Anche se infine arrivò
la capitolazione davanti ai turchi ottomani... ma nessun impero è
eterno, e mille anni possono bastare, grazie.
(P.S.: Unica lagnanza: quando la pianteranno gli editori di raccogliere le note a fondo volume, quando per verificare la fondatezza d'una tesi provocatoria è molto frequente la necessità di andare a controllare in nota la fonte? Tutto questo andare avanti e indietro è un supplizio! :-( ).