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[Saggio]
Recensione di Giovanni
Dall'Orto
(anche
su Anobii)
1. Recensione
Uno studio asciutto e concreto sul
funzionamento della "macchina da guerra" dell'impero romano.
Questo volume ormai classico (del 1976)
ha retto benissimo al passare degli anni, ed è sopravvissuto senza
danni allo sbarramento ostile con cui il mondo accademico aveva accolto
questo contributo di un "intruso", esperto di studi militari anziché
di poesia latina...
Luttwak (nella
vita reale personaggio inquietante e sinistro consigliere strategico di
tutte le peggiori nefandezze golpiste dei governi statunitensi...)
ha infatti analizzato la gestione del potere militare da parte dell'impero
romano, non più dal punto di vista di un esperto di poesie, commedie
e sermoni religiosi – come era avvenuto fin lì – bensì da
quello di un esperto di cose militari.
Il quadro che ne è emerso è,
a mio parere, d'estremo interesse.
Anche se ovviamente nessuno studio è
perfetto (e questo, oltre tutto, non pretende di rivolgersi ai soli specialisti,
ma anche al grande pubblico) Luttwak, affiancato da un fitta squadra di
esperti filologi e redattori, si muove con sicurezza tra le fonti. Trent'anni
di critiche anche cattivelle a questo testo non hanno trovato più
errori di quanti non ne contenga in media quelli di un qualsiasi altro
storico. Ci sono punti di vista un poco forzati, ma siccome non esiste
nessun saggio storico che non ne contenga,basta fare un po' di tara.
La novità di questo saggio è
stata, banalmente, applicare considerazioni di tipo strategico alle
scelte politiche e militari compiute dagli imperatori romani, in un
campo in cui erano state fin lì applicate in massima parte considerazioni
filosofiche o sociologiche (quando andava bene) o più semplicemente
morali (quando andava male, e ciò è accaduto fin troppo spesso).
Luttwak, nella vita reale come in questo
studio, della morale non sa cosa farsene, e quindi delle scelte militari
valuta in primo luogo l'efficacia, sia in rapporto alla risorse esistenti,
sia agli effetti ottenuti.
Se Luttwak riesce a produrre uno studio
così compatto, asciutto e concreto da essere diventato ormai un
classico lo deve a questo suo approccio.
D'altro canto, il fatto d'essersi concentrato
sul tema che s'era dato, cosa meritevole in uno studioso, lo porta a lasciare
ai margini molte questioni interessanti, e fra queste io metterei "la"
grande domanda che ha sempre mosso la curiosità del grande pubblico
nei confronti dell'esercito romano: se fu un'istituzione così efficace,
come mai alla fine fallì, al punto che la parte occidentale dell'impero
si disintegrò?
Da mezze frasi buttate qui e lì
si nota che Luttwak ha una sua spiegazione, ma che semplicemente non intende
abbandonare il terreno delle cose che conosce bene per affrontare la china
scivolosa delle interpretazioni politiche, filosofiche e morali...
(In appendice in
questa recensione ho aggiunto le conclusioni a cui, a mio parere, questo
saggio permette di arrivare, se a qualcuno interessano).
Luttwak individua nella storia militare
romana tre strategie fondamentali di difesa.
(Anzi, ad essere pignoli quattro, considerando
che fino a metà del primo secolo l'esercito romano fu prima di tutto
un esercito d'offesa e conquista... ed anche la conquista dei territori
dei nemici è pur sempre una strategia di, per così dire,
"difesa preventiva").
La prima fu la "difesa
avanzata", utilizzata nei primi secoli dell'impero, che in parte
delegava a stati clientes all'esterno delle frontiere il compito
d'intercettare gli attacchi, e in parte (dove tali stati erano assenti)
stabiliva guarnigioni militari anche a molta distanza dalla frontiera,
in modo che i contrattacchi o le rappresaglie avvenissero in territorio
se non nemico almeno neutrale.
Quando l'impero si consolidò, gli
stati clienti furono assorbiti, e il ricorso a postazioni avanzate fu generalizzato.
La vera arma segreta dell'esercito romano,
in questa fase, fu la rete di strade, che permetteva di spostare con grande
efficienza le truppe là dove erano necessarie.
Quando la grande crisi del III secolo (con la sua sequela d'usurpatori a raffica che distolse l'esercito dai nemici esterni) permise lo sfondamento delle frontiere, l'impero fu percorso da orde d'invasori che si riuscirono a tamponare solo con una (poco soddisfacente) "difesa elastica" che, se alla fine garantì la sconfitta di tutti gli invasori e la sopravvivenza del potere imperiale, non garantì affatto la sicurezza dei sudditi e delle loro proprietà.
Fu a questa situazione di crisi che risposero
le riforme di Diocleziano e di Costantino.
E fu l'esercito stesso a mutare: le celebri
e invincibili "legioni romane" furono sempre più sostituite da alae;
vexillationes ed armate comitatenses,
che garantirono ancora per molti decenni la necessaria sicurezza, ma con
in più un'elasticità ed agilità che mancava alla struttura
precedente. Ed oltre a ciò garantivano anche un miglior controllo
diretto del Potere sull'esercito, che evitò il riproporsi dell'anarchia
militare.
L'ultima fase dell'impero, dopo la riforma
dioclezianea e quella costantiniana, ripiegò quindi su una "difesa
in profondità", rassegnandosi a subire lo scontro all'interno
stesso delle proprie frontiere, e ricorrendo per questo alla fortificazione
di città e fortilizi per guadagnare il tempo necessario a radunare
le forze ormai troppo sparpagliate, senza che la popolazione venisse distrutta
nell'attesa (come nel periodo della "difesa elastica").
In questo periodo tornò il ricorso
ai clientes (alcuni territori furono sgombrati di proposito
per "razionalizzare" il fronte, e lasciati alla difesa di alleati indigeni)
ma soprattutto appare una milizia locale, limitanea, certamente di qualità
inferiore, ma più motivata a combattere per salvare la propria casa
e i propri beni.
Luttwak, nell'analizzare in estremo dettaglio
(mai però in modo noioso o prolisso) la maniera in cui si articolarono
ed evolvettero queste "grandi strategie militari", sottolinea con grande
lucidità come le scelte compiute furono sempre dettate da grande
senso pragmatico, adattandosi a quella che era di volta in volta la situazione
sul campo.
In questo tipo d'analisi si scontra inevitabilmente
con quella parte della storiografia precedente (al 1976), che aveva giudicato
le scelte politiche compiute dai romani soprattutto sulla base di criteri
morali, quando non addirittura razzistici (si pensi alla lettura dello
scontro fra romani e barbari come uno scontro fra "razze superiori" e "inferiori",
caro a certa storiografia dell'anteguerra).
E pur non avendo in simpatia l'autore,
trovo che il suo approccio cinicamente amorale sia più efficace
di quello di tanti accademici che hanno confuso i loro desiderata
morali con i fatti storici.
Curiosamente, il periodo del crollo militare
e politico dell'impero d'Occidente è assente da questo volume.
Lo si troverà però analizzato
in gran dettaglio in apertura del volume successivo, La
grande strategia dell'impero bizantino, nel quale si dà
conto anche del ruolo giocato nel crollo dell'Occidente dall'escalation
tecnologico-militare portata degli eserciti a cavallo barbarici armati
di quell'arco composito che riusciva a bucare le corazze, rendendo
obsoleti secoli d'esperienza strategica precedente.
Sono semplicemente entusiasta di questa
lettura.
Solido, compatto, documentato, concreto:
questo è uno studio che mi permette di capire di più e più
lontano di tanti altri che ho letto in precedenza.
Definirlo "illuminante" non è eccessivo.
2. Appendice.
Divagazione ispirata dalla lettura
del libro.
La causa del crollo della parte occidentale dell'impero fu duplice: una pressione militare (1) accresciuta (è del tutto probabile che le ondate di popoli "barbari" che premevano alle frontiere fossero quantitativamente superiori a quelle di qualche secolo prima, a causa di uno dei tantissimi movimenti di popoli provenienti dal lontanissimo Oriente) e (2) evoluta (l'impero persiano, organizzato come compagine unitaria, fu un avversario ben diverso dall'impero dei Parti, di cui prese il posto; le federazioni di popoli che il tardo impero dovette affrontare furono altro cosa delle tribù singole all'attacco in ordine sparso).
Ma ci fu anche una terza causa (e
su questo Luttwak evita di insistere più di tanto): quella politica.
Il tallone d'Achille dell'impero romano fu di non riuscire mai a darsi
un efficace metodo di ricambio dei vertici per tutti i quattro secoli -
e passa - che durò. Per lunghi periodi, quelli dell'anarchia militare,
l'esercito è distratto dai suoi compiti di difesa dagli attacchi
esterni per essere usato come strumento di nomina degli imperatori. Ben
pochi imperatori riuscirono nell'impresa di morire nel loro letto: la gran
parte di loro morì assassinata, o al fronte.
La tradizione che faceva dell'imperatore
il capo supremo dell'esercito (la parola imperator in latino significa
sia "imperatore" che "generale"), e non in senso simbolico, ma in senso
reale, trasforma l'esercito nel luogo più adatto in cui individuare
gli imperatori.
Come Israele oggi, l'impero romano non è uno stato che ha un esercito, ma un esercito che ha uno stato.
E in questa situazione sicuramente nocque
la riforma di Costantino Magno, ottimamente delineata da Luttwak, che mise
alla diretta disposizione dell'imperatore, come comitatenses,
parti consistenti dell'esercito sia per averle prontamente a disposizione
in caso d'attacco, ma sia anche per impedire che potessero essere a disposizione
di rivali ed usurpatori.
Questa precauzione permise a Costantino
d'essere uno dei pochi imperatori a non essere ammazzato entro pochissimi
anni dall'ascesa al trono, ma sguarnì le frontiere proprio nel momento
in cui la pressione di popoli esterni si faceva crescente.
In questo caso, una scelta politica decisamente
sensata sul breve periodo (forse c'erano meno soldati sui confini, ma almeno
servivano a combattere i barbari, e non altri soldati romani) incise negativamente,
sul lungo periodo, sull'efficacia dell'esercito romano.
Non fu l'efficacia della macchina stritola-ossa
dell'esercito romano a venire meno, quindi, fu il modo in cui veniva utilizzata
a diventare meno efficace, per motivi interni (politici).
E qui Luttwak si limita - prudentemente
- solo a sfiorare la degenerazione e lo scadimento delle élites
politiche romane nel secolo IV e V.
Un impero che diventa sempre più
uno stato totalitario, moltiplicando i ranghi d'una casta al potere sempre
più incapace di tosare le pecore senza ammazzarle.
Un bravo pastore non è più
"buono" di uno "cattivo": lo scopo finale di entrambi è ammazzare
le pecore e mangiarsele, ma il primo riesce a farle arrivare al macello
più sane, più nutrite e più belle possibile, il secondo
no.
L'impero, come emerge chiaramente da brevi
opinioni espresse qua e là nel libro, si trovò in mano ad
una ghenga di cattivi pastori, che riuscirono a perpetuare il più
possibile il loro potere, anche a scapito della stessa sopravvivenza dell'impero
(e il vizietto dell'ultimo impero d'assassinare i generali troppo bravi
nello sconfiggere i barbari, per paura che diventassero pretendenti al
trono, di sicuro di bene non ne fece).
I grandi latifondisti che ormai, dopo Diocleziano,
"possedevano" gli ex contadini liberi in una condizione simile a quella
della servitù della gleba, non volevano cedere la loro "proprietà"
di humiliores per darla all'esercito.
Per rimediare al fatto che i ricchi e
potenti honestiores rendevano via via impossibile la leva si provarono
varie soluzioni (rendere ereditario il mestiere di soldato, pagare mercenari,
inserire sempre più barbari nei ranghi dell'esercito al posto dei
cittadini romani) che come è noto finirono per rivelarsi controproducenti.
Fine della divagazione, che è farina del mio sacco, per quanto ispirata dalla lettura di Luttwak, quindi Luttwak non ha nessuna responsabilità su quanto in essa contenuto.