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[Saggio]
Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un testo appassionante sul copyright (e i limiti che deve avere).
Questo splendido libro tratta della vexatissima quaestio della tutela della cosiddetta "proprietà intellettuale" e del diritto di copia (copyright) nell'epoca in cui la tecnologia digitale ha reso il costo di copiatura equivalente a zero.
Per
una volta tanto non ne parla dal punto di vista dei detentori di tali diritti,
come in quasi tutti gli altri testi in commercio in Italia, ma dal punto
di vista degli utilizzatori, prendendo come pretesto il caso di cronaca
di "Pirate bay".
Si
tratta di un sito svedese creato da un gruppo di persone sostenitrici del
libero diritto di copia per uso personale e non commerciale, dalla cui
esperienza è nato anche un partito che ha conquistato qualche seggio
alle ultime elezioni europee.
La
loro idea è che la produzione culturale è un fenomeno
collettivo, che nessun artista potrebbe creare senza "rubare" da un
linguaggio, un codice, un immaginario che sono condivisi e comuni a tutta
la società. Moltiplicare a dismisura le barriere su questo terreno
uccide perciò l'arte, anziché difenderla, come sostengono
coloro che chiedono di pagare pedaggio ad ognuna di tali barriere.
Aver
legato a questo fatto di cronaca il libro lo ha fatto, ahimè, invecchiare
precocemente nel giro di un solo anno (per dirne una, il successo elettorale
delle Europee era ancora al di là da venire), tuttavia il suo impianto
generale resta attualissimo.
Oltre
a questo, il solo altro difetto del volume è un fastidioso
uso del "tu" nel rivolgersi al lettore, che fa tanto "finto gggiovane",
yeaaaah! Ma è poca roba.
Fa comunque piacere il fatto che l'autore sia italiano, e quindi in grado di tradurre i discorsi generali in esempi di casa nostra, citando fatti di cronaca nostrana.
Il piacere raggiunge poi il culmine quando si scopre che questo non è il solito giornalista da tavolino, che riassume inchieste apparse a firma di colleghi stranieri: Neri i fatti se li va a cercare partecipando a riunioni e congressi, e intervistando i protagonisti dei fatti che descrive!
Il libro s'impernia sulla critica del fatto che in nome della difesa del copyright sono state proposte e ottenute limitazioni delle libertà civili assolutamente spropositate rispetto alla posta in gioco:
Neri
inizia con una buona ricostruzione delle origini e gli sviluppi del fenomeno
dello scambio di dati peer-to-peer, che ha il vantaggio di
massimizzare le potenzialità della Rete abbattendo i costi di trasmissione.
E il torto di essere il preferito da coloro che scambiano musica
e film, senza passare per il controllo degli editori.
Nel
2007 ormai quasi due terzi del traffico della rete erano generati dal
peer-to-peer.
E qui
s'inserisce la storia di "Pirate
bay", il sito che rivendica l'etichetta di "pirata", e dichiara guerra
alle majors.
Neri
ne ripercorre la storia, non evitando le domande scomode.
Copncludendo
che l'esperienza in questione ha mostrato che la tecnologia sta cambiando
il valore e il senso dell'informazione.
Il
capitolo a mio parere più interessante del libro è comunque
quello intitolato "L'underground degli eretici", perché riassume
idee e termini del dibattito che di solito non vengono riportati in altri
libri.
Le
majors affermano che qualsiasi copia "illegale" è un furto,
punto e basta. (Ricordiamo tutti l'irritante campagna che precedeva i dvd
che eravamo stati tanti scemi da comprare, per sentirci dare dei ladri
ogni volta che li vedevamo "Non ruberesti mai un'auto. Non ruberesti
mai una borsa..." Però un film sì, insinuavano.
Non
ho mai visto nessun'altra industria dire sfacciatamente ai clienti: "Siete
tutti una banda di ladri. Se non di fatto, nelle intenzioni").
Ebbene,
il punto è che se io rubo un'auto o una borsa, chi possedeva questi
oggetti non li avrà più. Ed anche se rubo un libro o un CD
accade la stessa cosa.
Ma
se io copio una musica, o un film, o un testo digitalizzato, nulla
viene fisicamente tolto a chi materialmente possedeva la
copia prima di me.
Ed è in questa differenza materiale che si cela il "problema", ovvero il motivo per cui la gente non riesce a percepire come "furto" quello della cosiddetta proprietà intellettuale. Con gran disperazione delle majors.
Neri va allora alle fonti del concetto di "proprietà intellettuale", e scopre una serie di cose.
Per esempio, che solo nella cultura occidentale contemporanea esiste l'idea che sia lecito "possedere" un'idea. Perfino i Padri fondatori degli Usa (la nazione più paranoica sul tema, oggi) ritenevano che le idee dovessero circolare libere, senza barriere o monopòli, per il bene della società tutta.
Poi (p. 102), che il controllo del "diritto di copia" (copyright) nasce in realtà (1557) come monopolio concesso dalla Corona alla Corporazione dei librai come strumento per censurare le idee sovversive. Solo in un secondo tempo diviene un "diritto di sfruttamento economico della copia".
Poi, che la proprietà intellettuale assume valore, anche economico, solo se è pubblica. Nessuno è compositore solo per il fatto che tiene chiuse a chiave in un cassetto pigne di musiche mai eseguite in pubblico:
Non posso riassumere l'intero capitolo, ogni pagina del quale contiene spunti, dati e informazioni decisamente "controcorrente", e mai campati per aria.
Citerò
quindi solo l'esempio del presunto stimolo che la protezione del brevetto
offre alla ricerca. La proliferazione dei brevetti oggi sta diventando
il principale ostacolo alla ricerca scientifica, specie da quando si
possono brevettare algoritmi, semi, animali, sequenze genetiche, e quant'altro.
Viene
presentato l'esempio dei brevetti ottenuti da James
Watt sulla macchina
a vapore. Durante la durata del brevetto furono installati circa 750
cv all'anno. Nei trent'anni successivi alla sua scadenza, invece, la media
balzò ai 4000 cv all'anno.
L'efficienza
del suo motore a vapore rimase invariata durante il (lungo) periodo del
monopolio, mentre aumentò di cinque volte fra il 1810 e il
1835.
Fu
la concorrenza, non il monopolio intellettuale, a permettere di valorizzare
quest'idea (p. 105).
I capitoli successivi trattano di temi altrettanto interessanti, come il destino futuro dell'industria discografica, i tentativi di "combattere la macchina con la macchina", il rapporto fra mondo politico e pretese della majors, "Il mito dell'artista affamato" o la vicenda dell'oscuramento del sito "Pirate bay" in Italia su semplice richiesta delle majors discografiche, senza neppure notificare gli interessati.
Che aggiungere? Avrei voluto riassumere tutti gli stimoli e le provocazioni di questo libro, ma sono troppi. L'autore sembra specializzato nel fare osservazioni centrate ed obiezioni ottimamente argomentate.
Raccomando
senz'altro questo volumetto, che per le dimensioni contenute si legge in
poche ore.
Vi
si troverà un approccio e un punto di vista che, se non tutti troveranno
condivisibili al 100%, per lo meno avrà il pregio di un'esposizione
chiara ed argomentazioni appropriate.