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[Saggio]
Recensione di Giovanni Dall'Orto
Titolo recensione
Il
conflitto
israelo-palestinese è diventato ormai una sorta di bisca
clandestina di scommesse sui combattimenti sui cani, con gli astanti che
incitano, da un lato e dall'altro, a non mollare la presa, perché
vogliono "vincere".
Ai
cani non è consentito né ritirarsi, né smettere d'azzannarsi,
perché dietro di loro c'è sempre qualcuno pronto ad aizzarli,
anche al costo di ferirli (ricordate la fine di Sadat
e Rabin?),
per incassare.
In questo contesto la voce di chi cerca di ricordare che questo conflitto coinvolge milioni d'esseri umani è costantemente coperta dai latrati e dalle grida degli allibratori dell'uno e dell'altro cane.
Il
punto di vista da cui parte questa mia recensione è che da un conflitto
come quello israelo-palestinese si può uscire solo o attraverso
un'ennesima guerra dagli esiti sempre più imprevedibili (l'unico
"esito" prevedibile è il genocidio - anche reciproco), o
attraverso l'uso della ragione e della razionalità. Non esistono
alternative, soprattutto non costituisce "alternativa" l'emotività
viscerale, men che mai se s'ammanta di pretesti "religiosi".
La
mia posizione è, in due parole, che su quel territorio esistono
(ormai) due popoli, entrambi portatori del diritto alla sicurezza, all'indipendenza
e alla pace. Qualsiasi soluzione che non tenga conto di questo dato
di fatto "sul terreno" è destinata a fallire, come è accaduto
dal 1947 ad oggi, ininterrottamente.
Questo
libro di Shlomo Sand è un richiamo alla Ragione e alla ragionevolezza,
nonché un contributo a questo dibattito da una prospettiva assolutamente
fresca e originale.
Sand
è uno storico israeliano specializzato nel periodo della nascita
del pensiero nazionalistico europeo (a cavallo fra l'Illuminismo e il Romanticismo,
e decenni successivi).
L'interesse del suo approccio sta nel fatto di analizzare il sionismo (l'ideologia politica che ha dato vita allo Stato d'Israele) contestualizzandolo nel quadro più ampio dei nazionalismi europei, e dimostrando che per scopi, assunti e metodi esso va considerato a pieno diritto un esempio di tali nazionalismi.
Lo scopo di quest'analisi è intervenire su una delle domande che stanno diventando più angosciose per lo Stato d'Israele: stabilito che a chiunque faccia parte del "popolo ebraico" spetta ipso facto in base alla cosiddetta "Legge del Ritorno" la cittadinanza israeliana, chi è che fa parte del popolo ebraico? E a che titolo?
Leggendo
questo libro ci si rende conto del fatto che l'ideologia sionista, concependo
fin dalle origini Israele non come lo Stato di tutti i suoi cittadini,
bensì esclusivamente di quelli appartenenti al "popolo ebraico"
(ovvero, ad esclusione di tutti gli altri), ha cacciato uno Stato
ormai moderno in un ginepraio di contraddizioni che nel XXI secolo sono
dissennate.
Contraddizioni
che potevano non sembrare tali nel XIX secolo, quando in piena sbornia
razzista e nazionalista concetti come "razza ebraica" e "popolo ebraico"
erano chiari ed auto-evidenti a tutti (inclusi i nazisti...). Oggi
però il XIX secolo è finito, e le contraddizioni spiccano
in pieno.
Per
esempio, la testé citata "Legge del Ritorno" è stata messa
a dura prova quando s'è voluto rinforzare l'"ebraicità" d'Israele
con l'immigrazione in massa d'un milione e passa d'ebrei russi, spesso
con coniugi e figli non ebrei, ai quali non poteva certo essere negata
la cittadinanza israeliana. Le maglie della rete sono state dunque allargate.
Ma
a questo punto, se a un ucraino o bielorusso di religione cristiano-ortodossa
che non aveva mai sentito parlare d'Israele in vita sua la cittadinanza
israeliana piena non può essere negata, allora perché a un
palestinese di religione cristiano-ortodossa, la cui famiglia ha abitato
a Nazareth per duemila anni, sì?
E
se un ebreo che immigra in Israele può risultare ed essere registrato
come sposato a un cristiano, perché allora a un ebreo nato in Israele
non è possibile sposarsi con un cristiano?
E
così via.
Il libro in quanto tale si struttura in tre parti.
Dopo
un'introduzione piuttosto lunga e a tratti un po' noiosetta sulla nascita
dei nazionalismi europei (ma vale la pena di leggerla pazientemente, perché
i concetti spiegati in quelle pagine serviranno poi per le argomentazioni
successive) Sand si dedica nella seconda parte a un lungo e infinitamente
affascinante excursus storico per verificare se davvero, come sostiene
il sionismo, l'esistenza d'un "popolo ebraico" sia un dato di fatto storico
praticamente autoevidente, non necessario di spiegazioni e soprattutto
descrizioni.
Così
non è, dimostra Sand. Tanto è vero che dopo Giuseppe Falvio
e prima del XIX secolo a nessuno era neppure venuto mai in mente di scrivere
una "Storia degli ebrei".
Questa parte centrale del libro è il vero piatto forte per chi, come noi, non essendo cittadino israeliano è un po' meno coinvolto dalla discussione sulle contraddizioni e prospettive della legislazione israeliana (che occupa la terza parte del libro, e che ha scatenato l'inferno tra i recensori sionisti, ma che inevitabilmente lascia più freddi noi lettori italiani).
Sand
mostra che il "popolo ebraico" che appare a noi tutti oggi come una realtà
auto-evidente sia in realtà una costruzione ideologica del XIX
secolo.
Per
oltre due millenni e mezzo, l'ebraismo è stato una religione, è
stato una cultura, è stato una tradizione. È stato a volte
alcune di queste cose soltanto, ed è stato altre volte tutte queste
cose contemporaneamente.
Ma
per tutti questi secoli, non è mai stato un "popolo", nel senso
inteso dal nazionalismo del XIX secolo, per il banale motivo che i "popoli"
nascono, tutti, dall'azione ideale e ideologica intrapresa nel XIX
secolo allo scopo di crearli (ricordate? "Abbiamo
fatto l'Italia, ora occorre fare gli italiani": il principio enunciato
da Sand vale insomma anche, pari pari, per il "popolo italiano").
Sand
ripercorre le grandi ondate di conversioni di persone, famiglie e addirittura
stati interi (confederazioni berbere in Maghreb, il regno dello Yemen in
Arabia, l'impero turco di Cazaria...) all'ebraismo. Poco conosciute, misconosciute,
e in ultimo anche occultate con imbarazzo proprio dal sionismo (anche se
Sand insiste di non avere "scoperto" nulla, e di essersi basato totalmente
su testi già pubblicati alla chetichella da studiosi israeliani),
solo queste massicce conversioni possono spiegare come abbia fatto l'ebraismo
ad abbracciare a un certo punto circa un decimo della popolazione dell'Impero
romano.
La
Diaspora ebraica stessa è un mito, ed oltre tutto un mito cristiano,
funzionale a mostrare come fossero stati "puniti" (con l'annientamento
totale della loro nazione) gli ebrei per avere rifiutato il Messia. Ma
se davvero la Diaspora avesse avuto luogo, la Giudea sarebbe rimasta spopolata
d'ogni presenza ebraica, mentre l'archeologia dimostra che per tutta l'epoca
romana ciò non avvenne.
Per
capire meglio quanto spiega Sand sul fenomeno del proselitismo ebraico,
aggiungo di mio un esempio: noi tutti siamo, o discendiamo da, proseliti
ebrei. Oltre due miliardi di persone al mondo pensano che la promessa fatta
ad Abramo ed Isacco si applichi a loro, che così come promesso da
Yhwh ai "loro padri" un Messia sia stato inviato a loro nella persona di
Gesù, che la Bibbia sia il libro della "loro" storia...
Ebbene:
si tratta davvero di discendenti di persone che un tempo vissero fisicamente
in Palestina? Ovviamente non lo pensa nessuno. Si tratta semplicemente
dei discendenti religiosi di coloro che, al momento in cui l'ebraismo
del I secolo d.C. si scisse fra Chiesa e Sinagoga, scelsero la Chiesa.
Invece
i quindici milioni di discendenti dai convertiti all'ebraismo (ed il primo
ad operare una conversione fu Abramo, che circoncise e convertì
a forza tutti i suoi schiavi!) che al
momento della scissione fra Chiesa e Sinagoga optarono per la Sinagoga,
lo pensano. Con quali ragioni?
Questa
è la domanda càrdine del libro. Una domanda che in Israele
è gravida d'infinite implicazioni, politiche prima che religiose.
È
palese che Sand sia un sostenitore dell'idea per cui uno Stato può
essere solo Stato di tutti i cittadini, senza "diritti" a discriminarli
in base alla presunta "razza" d'appartenenza.
Non
dice se ciò in Israele vada realizzato per mezzo d'uno stato binazionale
(quindi inevitabilmente non più "stato dei soli ebrei"), o di due
stati distinti ma a nazionalità coesa. Ma questo, qui, non c'intessa
saperlo: ne discuteranno i politici eletti dai due popoli, quando il momento
sarà arrivato.
A
noi qui interessa notare come Sand si limiti a denunciare il delirio classificatorio
razziale in cui il pensiero sionista, proprio perché ancorato nel
XIX secolo, ha portato Israele, che è l'unico Paese al mondo in
cui si possa essere registrato come di "nazionalità tedesco-orientale"
a 20 anni dalla scomparsa dalla Germania Est.
Questo
in ossequio al principio sionista per cui le appartenenze nazionali non
si possono cambiare, si possono solo ereditare, e una volta ereditate si
mantengono per il resto della vita.
Si
è ebrei (quasi) solo per nascita, quindi un palestinese non può
far davvero parte dello "stato ebraico", anche se vi è nato, mentre
qualsiasi persona nata da madre ebrea in qualunque angolo del globo può
diventare cittadino d'Israele semplicemente trasferendocisi.
Sand
arriva a dire che il futuro dello Stato d'Israele sarà quello o
d'uno Stato ebraico, oppure quello di uno stato democratico, ma in nessun
caso le due cose assieme, dato che attualmente Israele è un'etnocrazia,
non una democraazia (p. 452).
Del
resto, nessun ebreo che viva oggi fuori d'Israele tollererebbe in quanto
ebreo le restrizioni e le discriminazioni che lo Stato d'Israele riserva
ai cittadini e sudditi "non-ebrei", ai quali dichiara apertamente di non
essere il "loro" stato, ma di appartenere "agli altri".
Per
questa sua riflessione Sand è stato attaccato
ferocemente dalla stampa sionista internazionale (mentre viceversa
ha avuto un buon successo di pubblico e recensioni dal tono civile in Israele)
che l'ha accusato d'essere, oltre che un incompetente, un ignorante e altre
cosette, un "ebreo che si odia".
Curioso
che questa accusa sia venuta con maggiore insistenza dagli "ebrei che
odiano" (e soprattutto dai loro alleati non ebrei), quelli cioè
che non vedono (e lo proclamano pure!) nessuna possibile soluzione oltre
a quella di costringere i cani ad azzannarsi fino alla morte.
Eppure
Sand nella terza parte del suo libro (quella dedicata all'attualità)
alza la voce contro una deriva pericolosissima che sta prendendo piede
in Israele, quella delle ricerche biologiche miranti a dimostrare che gli
ebrei sono una "razza", compatta, omogenea, e distinguibile dalle altre
"razze".
Sand
ci porta ad esplorare i meandri psichici dei folli ricercatori del "gene
Cohen", presumibilmente trasmesso di padre in figlio maschio assieme
al cromosoma Y (che la madre non trasmette) dai sacerdoti (Kohanim),
e che marcherebbe con la sua presenza l'individuo di "pura razza ebraica".
Un
ebreo che, come Sand, alzi la voce contro questa folle deriva che
ripercorre sentieri che già una volta si sono rivelati catastrofici
per la razza umana (la sola "razza" di cui sia lecito parlare),
non è certo uno che odii se stesso, bensì l'esatto opposto.
È un ebreo che riconosce e combatte le radici del razzismo
da subito, senza aspettare che sia pienamente cresciuto ed abbia dato i
suoi pestilenziali frutti di morte.
Ed
è soprattutto l'esponente d'una tradizione culturale e intellettuale
che, proprio per la sua apertura mentale, curiosità, adattabilità,
in altre epoche storiche seppe attirare a sé eserciti di convertiti,
affascinati proprio da queste (ed altre) caratteristiche.
Sand in questo splendido libro ha saputo valorizzare appieno questo aspetto dell'ebraismo, quello migliore, anche a costo di scontrarsi con gli "ebrei che odiano", quelli affetti dalla "sindrome di Masada" (del tipo: "meglio che venga sterminato fisicamente fino all'ultimo di noi, piuttosto che piegarci col nemico al sia pur minimo compromesso").
Io non posso che consigliare la lettura di quest'opera a chi abbia deciso di capire, ragionare, e sostenere i diritti umani di tutti i dieci milioni di esseri umani che s'affollano nella minuscola fetta di terra (la si chiami Palestina o Israele davvero non conta) ormai troppo intrisa del sangue delle vittime (spesso innocenti) degli innumerevoli fanatismi che di volta in volta se la sono contesa per millenni.
Oltre
tutto, superato lo scoglio della prima parte "teorica", il libro si rivela
un testo di storia traboccante d'informazioni affascinantissime e normalmente
censurate perché "scomode" a tutti i contendenti (per
esempio, il fatto che i Palestinesi discendano in buona percentuale dagli
ebrei convertiti prima al cristianesimo e poi all'Islam è un dato
che fa salire il sangue alla testa nello stesso modo tanto ai palestinesi
quanto agli ebrei, nonostante il fatto che - come dimostra Sand - la prima
generazione di sionisti lo desse per scontato), ed al tempo stesso, nella
parte finale, un pamphlet pieno di passione sul futuro di Israele
come Stato pienamente parte della modernità, e non più ancorato
a un'ideologia di nazione da pieno XIX secolo.
Leggete
questo libro avvincente e appassionante: vale fino in fondo il suo prezzo
(scoraggiante: 21,5 euro) e vi farà riflettere.