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Shlomo Sand, L'invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010 [2008].
 
Copertina di ''L'invenzione del popolo ebraico'' di Shlomo Sand.

[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Titolo recensione

Il conflitto israelo-palestinese è diventato ormai una sorta di bisca  clandestina di scommesse sui combattimenti sui cani, con gli astanti che incitano, da un lato e dall'altro, a non mollare la presa, perché vogliono "vincere".
Ai cani non è consentito né ritirarsi, né smettere d'azzannarsi, perché dietro di loro c'è sempre qualcuno pronto ad aizzarli, anche al costo di ferirli (ricordate la fine di Sadat e Rabin?), per incassare.

In questo contesto la voce di chi cerca di ricordare che questo conflitto coinvolge milioni d'esseri umani è costantemente coperta dai latrati e dalle grida degli allibratori dell'uno e dell'altro cane.

Il punto di vista da cui parte questa mia recensione è che da un conflitto come quello israelo-palestinese si può uscire solo o attraverso un'ennesima guerra dagli esiti sempre più imprevedibili (l'unico "esito" prevedibile è il genocidio - anche reciproco), o attraverso l'uso della ragione e della razionalità. Non esistono alternative, soprattutto non costituisce "alternativa" l'emotività viscerale, men che mai se s'ammanta di pretesti "religiosi".
La mia posizione è, in due parole, che su quel territorio esistono (ormai) due popoli, entrambi portatori del diritto alla sicurezza, all'indipendenza e alla pace. Qualsiasi soluzione che non tenga conto di questo dato di fatto "sul terreno" è destinata a fallire, come è accaduto dal 1947 ad oggi, ininterrottamente.
 


Questo libro di Shlomo Sand è un richiamo alla Ragione e alla ragionevolezza, nonché un contributo a questo dibattito da una prospettiva assolutamente fresca e originale.
Sand è uno storico israeliano specializzato nel periodo della nascita del pensiero nazionalistico europeo (a cavallo fra l'Illuminismo e il Romanticismo, e decenni successivi).

L'interesse del suo approccio sta nel fatto di analizzare il sionismo (l'ideologia politica che ha dato vita allo Stato d'Israele) contestualizzandolo nel quadro più ampio dei nazionalismi europei, e dimostrando che per scopi, assunti e metodi esso va considerato a pieno diritto un esempio di tali nazionalismi.

Lo scopo di quest'analisi è intervenire su una delle domande che stanno diventando più angosciose per lo Stato d'Israele: stabilito che a chiunque faccia parte del "popolo ebraico" spetta ipso facto in base alla cosiddetta "Legge del Ritorno" la cittadinanza israeliana, chi è che fa parte del popolo ebraico? E a che titolo?

Leggendo questo libro ci si rende conto del fatto che l'ideologia sionista, concependo fin dalle origini Israele non come lo Stato di tutti i suoi cittadini, bensì esclusivamente di quelli appartenenti al "popolo ebraico" (ovvero, ad esclusione di tutti gli altri), ha cacciato uno Stato ormai moderno in un ginepraio di contraddizioni che nel XXI secolo sono dissennate.
Contraddizioni che potevano non sembrare tali nel XIX secolo, quando in piena sbornia razzista e nazionalista concetti come "razza ebraica" e "popolo ebraico" erano chiari ed auto-evidenti a tutti (inclusi i nazisti...). Oggi però il XIX secolo è finito, e le contraddizioni spiccano in pieno.

Per esempio, la testé citata "Legge del Ritorno" è stata messa a dura prova quando s'è voluto rinforzare l'"ebraicità" d'Israele con l'immigrazione in massa d'un milione e passa d'ebrei russi, spesso con coniugi e figli non ebrei, ai quali non poteva certo essere negata la cittadinanza israeliana. Le maglie della rete sono state dunque allargate.
Ma a questo punto, se a un ucraino o bielorusso di religione cristiano-ortodossa che non aveva mai sentito parlare d'Israele in vita sua la cittadinanza israeliana piena non può essere negata, allora perché a un palestinese di religione cristiano-ortodossa, la cui famiglia ha abitato a Nazareth per duemila anni, sì?
E se un ebreo che immigra in Israele può risultare ed essere registrato come sposato a un cristiano, perché allora a un ebreo nato in Israele non è possibile sposarsi con un cristiano?
E così via.


Il libro in quanto tale si struttura in tre parti.

Dopo un'introduzione piuttosto lunga e a tratti un po' noiosetta sulla nascita dei nazionalismi europei (ma vale la pena di leggerla pazientemente, perché i concetti spiegati in quelle pagine serviranno poi per le argomentazioni successive) Sand si dedica nella seconda parte a un lungo e infinitamente affascinante excursus storico per verificare se davvero, come sostiene il sionismo, l'esistenza d'un "popolo ebraico" sia un dato di fatto storico praticamente autoevidente, non necessario di spiegazioni e soprattutto descrizioni.
Così non è, dimostra Sand. Tanto è vero che dopo Giuseppe Falvio e prima del XIX secolo a nessuno era neppure venuto mai in mente di scrivere una "Storia degli ebrei".


Questa parte centrale del libro è il vero piatto forte per chi, come noi, non essendo cittadino israeliano è un po' meno coinvolto dalla discussione sulle contraddizioni e prospettive della legislazione israeliana (che occupa la terza parte del libro, e che ha scatenato l'inferno tra i recensori sionisti, ma che inevitabilmente lascia più freddi noi lettori italiani).

Sand mostra che il "popolo ebraico" che appare a noi tutti oggi come una realtà auto-evidente sia in realtà una costruzione ideologica del XIX secolo.
Per oltre due millenni e mezzo, l'ebraismo è stato una religione, è stato una cultura, è stato una tradizione. È stato a volte alcune di queste cose soltanto, ed è stato altre volte tutte queste cose contemporaneamente.
Ma per tutti questi secoli, non è mai stato un "popolo", nel senso inteso dal nazionalismo del XIX secolo, per il banale motivo che i "popoli" nascono, tutti, dall'azione ideale e ideologica intrapresa nel XIX secolo allo scopo di crearli (ricordate? "Abbiamo fatto l'Italia, ora occorre fare gli italiani": il principio enunciato da Sand vale insomma anche, pari pari, per il "popolo italiano").

Sand ripercorre le grandi ondate di conversioni di persone, famiglie e addirittura stati interi (confederazioni berbere in Maghreb, il regno dello Yemen in Arabia, l'impero turco di Cazaria...) all'ebraismo. Poco conosciute, misconosciute, e in ultimo anche occultate con imbarazzo proprio dal sionismo (anche se Sand insiste di non avere "scoperto" nulla, e di essersi basato totalmente su testi già pubblicati alla chetichella da studiosi israeliani), solo queste massicce conversioni possono spiegare come abbia fatto l'ebraismo ad abbracciare a un certo punto circa un decimo della popolazione dell'Impero romano.
La Diaspora ebraica stessa è un mito, ed oltre tutto un mito cristiano, funzionale a mostrare come  fossero stati "puniti" (con l'annientamento totale della loro nazione) gli ebrei per avere rifiutato il Messia. Ma se davvero la Diaspora avesse avuto luogo, la Giudea sarebbe rimasta spopolata d'ogni presenza ebraica, mentre l'archeologia dimostra che per tutta l'epoca romana ciò non avvenne.

Per capire meglio quanto spiega Sand sul fenomeno del proselitismo ebraico, aggiungo di mio un esempio: noi tutti siamo, o discendiamo da, proseliti ebrei. Oltre due miliardi di persone al mondo pensano che la promessa fatta ad Abramo ed Isacco si applichi a loro, che così come promesso da Yhwh ai "loro padri" un Messia sia stato inviato a loro nella persona di Gesù, che la Bibbia sia il libro della "loro" storia...
Ebbene: si tratta davvero di discendenti di persone che un tempo vissero fisicamente in Palestina? Ovviamente non lo pensa nessuno. Si tratta semplicemente dei discendenti religiosi di coloro che, al momento in cui l'ebraismo del I secolo d.C. si scisse fra Chiesa e Sinagoga, scelsero la Chiesa.
Invece i quindici milioni di discendenti dai convertiti all'ebraismo (ed il primo ad operare una conversione fu Abramo, che circoncise e convertì a forza tutti i suoi schiavi!) che al momento della scissione fra Chiesa e Sinagoga optarono per la Sinagoga, lo pensano. Con quali ragioni?
Questa è la domanda càrdine del libro. Una domanda che in Israele è gravida d'infinite implicazioni, politiche prima che religiose.


È palese che Sand sia un sostenitore dell'idea per cui uno Stato può essere solo Stato di tutti i cittadini, senza "diritti" a discriminarli in base alla presunta "razza" d'appartenenza.
Non dice se ciò in Israele vada realizzato per mezzo d'uno stato binazionale (quindi inevitabilmente non più "stato dei soli ebrei"), o di due stati distinti ma a nazionalità coesa. Ma questo, qui, non c'intessa saperlo: ne discuteranno i politici eletti dai due popoli, quando il momento sarà arrivato.
A noi qui interessa notare come Sand si limiti a denunciare il delirio classificatorio razziale in cui il pensiero sionista, proprio perché ancorato nel XIX secolo, ha portato Israele, che è l'unico Paese al mondo in cui si possa essere registrato come di "nazionalità tedesco-orientale" a 20 anni dalla scomparsa dalla Germania Est.
Questo in ossequio al principio sionista per cui le appartenenze nazionali non si possono cambiare, si possono solo ereditare, e una volta ereditate si mantengono per il resto della vita.
Si è ebrei (quasi) solo per nascita, quindi un palestinese non può far davvero parte dello "stato ebraico", anche se vi è nato, mentre qualsiasi persona nata da madre ebrea in qualunque angolo del globo può diventare cittadino d'Israele semplicemente trasferendocisi.

Sand arriva a dire che il futuro dello Stato d'Israele sarà quello o d'uno Stato ebraico, oppure quello di uno stato democratico, ma in nessun caso le due cose assieme, dato che attualmente Israele è un'etnocrazia, non una democraazia  (p. 452).
Del resto, nessun ebreo che viva oggi fuori d'Israele tollererebbe in quanto ebreo le restrizioni e le discriminazioni che lo Stato d'Israele riserva ai cittadini e sudditi "non-ebrei", ai quali dichiara apertamente di non essere il "loro" stato, ma di appartenere "agli altri".

Per questa sua riflessione Sand è stato attaccato ferocemente dalla stampa sionista internazionale (mentre viceversa ha avuto un buon successo di pubblico e recensioni dal tono civile in Israele) che l'ha accusato d'essere, oltre che un incompetente, un ignorante e altre cosette, un "ebreo che si odia".
Curioso che questa accusa sia venuta con maggiore insistenza dagli "ebrei che odiano" (e soprattutto dai loro alleati non ebrei), quelli cioè che non vedono (e lo proclamano pure!) nessuna possibile soluzione oltre a quella di costringere i cani ad azzannarsi fino alla morte.

Eppure Sand nella terza parte del suo libro (quella dedicata all'attualità) alza la voce contro una deriva pericolosissima che sta prendendo piede in Israele, quella delle ricerche biologiche miranti a dimostrare che gli ebrei sono una "razza", compatta, omogenea, e distinguibile dalle altre "razze".
Sand ci porta ad esplorare i meandri psichici dei folli ricercatori del "gene Cohen", presumibilmente trasmesso di padre in figlio maschio assieme al cromosoma Y (che la madre non trasmette) dai sacerdoti (Kohanim), e che marcherebbe con la sua presenza l'individuo di "pura razza ebraica".

Un ebreo che, come Sand, alzi la voce contro questa folle deriva che ripercorre sentieri che già una volta si sono rivelati catastrofici per la razza umana (la sola "razza" di cui sia lecito parlare), non è certo uno che odii se stesso, bensì l'esatto opposto. È un ebreo che riconosce e combatte le radici del razzismo da subito, senza aspettare che sia pienamente cresciuto ed abbia dato i suoi pestilenziali frutti di morte.
Ed è soprattutto l'esponente d'una tradizione culturale e intellettuale che, proprio per la sua apertura mentale, curiosità, adattabilità, in altre epoche storiche seppe attirare a sé eserciti di convertiti, affascinati proprio da queste (ed altre) caratteristiche.

Sand in questo splendido libro ha saputo valorizzare appieno questo aspetto dell'ebraismo, quello migliore, anche a costo di scontrarsi con gli "ebrei che odiano", quelli affetti dalla "sindrome di Masada" (del tipo: "meglio che venga sterminato fisicamente fino all'ultimo di noi, piuttosto che piegarci col nemico al sia pur minimo compromesso").


Io non posso che consigliare la lettura di quest'opera a chi abbia deciso di capire, ragionare, e sostenere i diritti umani di tutti i dieci milioni di esseri umani che s'affollano nella minuscola fetta di terra (la si chiami Palestina o Israele davvero non conta) ormai troppo intrisa del sangue delle vittime (spesso innocenti) degli innumerevoli fanatismi che di volta in volta se la sono contesa per millenni.

Oltre tutto, superato lo scoglio della prima parte "teorica", il libro si rivela un testo di storia traboccante d'informazioni affascinantissime e normalmente censurate perché "scomode" a tutti i contendenti (per esempio, il fatto che i Palestinesi discendano in buona percentuale dagli ebrei convertiti prima al cristianesimo e poi all'Islam è un dato che fa salire il sangue alla testa nello stesso modo tanto ai palestinesi quanto agli ebrei, nonostante il fatto che - come dimostra Sand - la prima generazione di sionisti lo desse per scontato), ed al tempo stesso, nella parte finale, un pamphlet pieno di passione sul futuro di Israele come Stato pienamente parte della modernità, e non più ancorato a un'ideologia di nazione da pieno XIX secolo.
 
Leggete questo libro avvincente e appassionante: vale fino in fondo il suo prezzo (scoraggiante: 21,5 euro) e vi farà riflettere.


 
 
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