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[Saggio]
Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un testo non di divulgazione, ma di cristallina chiarezza nelle parti relative alle linguistica..
Occhio,
signori: questo è un testo (immagino destinato a un corso universitario)
che nonostante la presentazione esteriore (copertina, grafica, quarta di
copertina) da manuale divulgativo per il grande pubblico, si rivolge
in realtà a lettori che hanno già buone od ottime cognizioni
sul tema.
In
altre parole è adatto solo a chi vuole ripassare ciò che
ha studiato al liceo anni fa, o a chi volesse approfondirlo all'università,
e non a chi volesse affrontare per la prima volta il tema.
L'autore
non si preoccupa infatti di spiegare neppure le convenzioni grafiche di
base (l'asterisco che indica una radice ricostruita ma non attestata, la
parola scritta fra due barre diagonali... eccetera), o l'alfabeto fonetico,
o non traslittera mai le parole in alfabeto greco, dandoli per già
noti al suo lettore ideale. E il funzionamento dell'evoluzione fonetica
lo riassume più che spiegarlo. E...
Dunque,
chi cerca una introduzione al tema, eviti questo volume.
Quanto a me: rileggere, a 35 anni dal liceo classico, questo testo, si è rivelato affascinante. Purtroppo il testo non è recente (il copyright del testo originale spagnolo è del 1991/1996, quello italiano del 1997) quindi nel complesso il quadro che mi ha fornito è quello che studiai allora (del resto l'autore poco si discosta dal quadro generale proposto dalla Gimbutas molti decenni fa). Tuttavia un sacco di cose con gli anni si dimenticano, e reincontrarle dà sempre il piacere di una rimpatriata con vecchi amici.
L'unica obiezione che mi sento di fare è che l'autore non è un redattore distaccato che cerchi di fare il punto su un particolare campo di studi (però se non altro ha l'onestà intellettuale di non nasconderlo): è un polemista, un militante, è parte in causa nel dibattito e negli scontri fra studiosi, e quindi inevitabilmente a volte privilegia e "spinge" un po' troppo la sua visione delle cose più che tentare unla sintesi.
Per
fare un esempio, personalmente avrei preferito una discussione delle tesi
di Colin Renfrew più approfondita e motivata dellle poche
righe bisbetiche e liquidatorie che riassumerei liberamente come: "Meglio
che quello là non parli di quel che, a differenza di noi indoeuropeisti,
non capisce".
Allo
stesso modo avrei amato una confutazione meno spocchiosa e palesemente
infastidita ("roba vecchia, ma che, stiamo a parlare ancora di quelle
robe lì?") delle
pretese degli studiosi indiani relative ad una collocazione più
vicina al subcontinente indiano che alle steppe russe della patria ancestrale
degli indoeuropei.
Lo
so che la tesi
indiana puzza non solo di nazionalismo ma anche di vero e proprio razzismo
"indianista", ma forse tenere meglio a mente in che modo erano chiamati
fino a pochi decenni fa gli indoeuropei - ariani
- e che uso si sia fatto di questo concetto da parte dei razzisti "europeisti",
aiuterebbe ad evitare alcuni "rischi" di cecità "involontaria".
Per
non parlare di quanto occorre all'autore per confutare le ipotesi di Martin
Bernal che
in Atena
nera proponeva le presenza di un substrato semitico anche in vaste
zone europee: zero righe. Rimosso, cancellato, censurato!
E che dire della frettolosità (poche
pagine in calce all'ultimo capitolo) con cui è liquidata tutto il
problema del "nostratico" e della possibilità d'individuare
legami di parentela fra le grandi famiglie di lingue umane, di cui si fa
un gran parlare oggi? Come minimo, irritante.
Ora,
io non dico che questi autori debbano avere ragione su tutto, ammetto anzi
che è del tutto possibile che abbiano torto marcio, però
visto che ho speso i miei soldi per imparare da questo libro, almeno
di sentirmi spiegare da chi ne sa più di me perché mai
abbiano torto marcio, me lo aspettavo.
Sono
tesi che han fatto e fanno discutere, eppure nell'iperuranio di questo
autore il cielo è sempre senza nuvole e senza dubbi, e la ipotesi
e le illazioni della Gimbutas non sono state mai scosse neppure da un refolo
di vento.
Ebbene: io ho, come dire, la sensazione
che tutto questo radioso ottimismo sia un po' eccessivo, per essere credibile.
Diciamo che più che "sicurezza"
questa è sicumera e baldanza.
E ricordiamoci che l'ultima volta che
gli indoeuropei
sono stati approcciati con sicumera e baldanza, la cosa ci è costata
50 milioni di morti, e quindi forse sarebbe opportuno un attimo di prudenza
prima di ributtarci in
ricostruzioni che
se non odorano proprio di razzismo e "supremazia ariana", se
non altro il "fumus" che spira in questa direzione non possono dissiparlo...
Quando leggo che è quasi certo che perfino i relitti pre-indeuropei (baschi, georgiani) in Europa risalgono "probabilmente" ad una precedente ondata di pre-pre-indoeropei, i confini tra un indoeuropeo e Mandrake iniziano a essere un po' troppo sfumati. Ma che erano 'sti indoeuropei, che sbaragliavano tutti? Superman?
(In compenso, mi son goduto ogni virgola della tremenda scozzonata inflitta a Georges Dumézil, che a mio modo di vedere ha costruito troppo e con troppa sicumera su troppo poche, e troppo evanescenti, ipotesi storiche).
L'aspetto
fastidioso di questo volume, in effetti, è la continua oscillazione
dell'autore fra la trattazione d'un gruppo di lingue collegate, e un gruppo
di popoli di presunto ceppo comune.
La
sua dichiarazione iniziale sul fatto che "noi siamo indoeuropei" mi ha
fatto saltare sulla sedia, perché ci vedo il vecchio errore che
identifica lingua e "popolo".
Un
indio boliviano che parli spagnolo non "è indoeuropeo", bensì
"parla una lingua di ceppo indoeuropeo", esattamente come un nero caraibico
che parli inglese non "è anglosassone". Anche perché neppure
gli anglosassoni sono molto angli né molto sassoni, essendo piuttosto
discendenti delle popolazione celtiche... e così via.
Invece
gli studi seminali e rivoluzionari di Francesco
Cavalli-Sforza sulla preistoria, in questo libro vengono sì
nominati, ma controvoglia e in una paginetta, giusto per identificare l'invasione
"indoeuropea" con una in particolare delle molte ondate migratorie
di cui Cavalli-Sforza ha rinvenuto le tracce nei geni di noi europei.
Ora,
va bene voler discutere di una sola di queste ondate (specie se lo si fa
in un libro che promette fin dal titolo di parlare di questa, e non di
altre), ma spendere due pagine per chiedersi quanto abbiano contato anche
le altre sei o sette, non avrebbe senso?
Che
hanno di così speciale gli indoeuropei, rispetto a tutti gli altri
invasori dell'Europa? Se si pensa che davvero abbiamo qualcosa che li rende
speciali, almeno ci si spieghi perché...
Se
quelli indoeuropei sono popoli, allora dati come quelli di Cavalli-Sforza
vanno discussi e integrati nel quadro (e Villar non lo fa), se invece esiste
solo una famiglia di lingue, allora tutte le elucubrazioni su chi fossero
i popoli che le parlavano sono solo un "dipiù" che ha a che
fare più con la fantastoria che con la storia...
Ovviamente la mia posizione va più nella prima direzione che nella seconda: i popoli fanno le lingue, ma anche le lingue a loro volta fanno i popoli.
Però
io avrei preferito meno ambiguità su questo tasto molto delicato,
mentre l'autore (che pure è pienamente cosciente della delicatezza
del tema, tanto che spreca inviti alla prudenza e mette in guardia contro
le iper-generalizzazioni) glissa prudentemente su tutto il castello razziale
e soprattutto razzista che è stato costruito sugli indoeuropei,
massimamente dai nazisti... e non solo da loro.
Ed
è un po' come cercare di nascondere lo sporco sotto il tappeto...
Quando
però ci allontaniamo da questo campo minato, allora tutto cambia,
e decisamente per il meglio.
Infatti,
quando Villar si attiene allo stretto campo linguistico, che poi in fondo
è il suo campo di competenza vera, è di una chiarezza semplicemente
cristallina.
Se
amate la linguistica, questo libro vi darà momenti di intenso piacere
intellettuale. Chi s'interessa di linguistica non potrà che trovare
fantastica un'esposizione metodica e ordinata, sistematica ed appassionata,
come quella di Villar. Qui c'è un intero magazzino di dati da digerire...
Viceversa,
se non avete il pallino dell'argomento, questo spesso tomo di 700 pagine
si rivelerà certamente di una noia assolutamente mortale. L'autore
non fa nulla per rendere meno arida l'elencazione di fenomeni fonetici
ed elenchi di popoli: o vi interessano fin dall'inizio, o non è
certo questo il libro che riuscirà a farveli amare.
A
chi desiderasse un primo approccio al tema, insomma, consiglio vivamente
qualche altro testo, meno specialistico di questo.
Concludendo.
Questo
è un testo che merita (magari proprio per la passionalità
con cui difende certe tesi) un voto pieno per quanto riguarda l'aspetto
propriamente linguistico, mentre a mio parere mette i piedi in più
di un tratto di sabbie mobili ogni volta che lascia il terreno dell'evoluzione
linguistica per avventurarsi nella ricostruzione storica in senso ampio.
Ma, come dice un vecchio detto indoeuropeo: nessuno è perfetto.