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Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un altro libro così sulla Palestina
e divento sionista, lo giuro!
L'ho
comprato infatti attirato dal titolo ma senza conoscere Whitelam, ed aspettandomi
una disanima dei rapporti fra archeologia e storiografia, tra dati e interpretazione,
fra storiografia e ideologie politiche. Meglio se con alterni pareri di
studiosi israeliani e palestinesi.
Insomma,
una versione in salsa palestinese dello splendido Le
tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, di Israel Finkelstein.
Niente di tutto questo. Il volume non è altro che un'arida e pedantissima disanima delle diatribe accademiche in merito ai paradigmi ideologici nell'ambito dei quali si sono mosse le ricostruzioni storiche della storia della Terrasanta, a partire dal XIX secolo fino alla fine del XX. Con le solite dissertazioni in gergo accademichese stretto sui "Discorsi del Potere", l'Orientalismo e simili.
Ora,
il tema non è in sé insulso, tutt'altro. L'archeologia della
"Terrasanta" opera sotto la spada di Damocle (anzi del Macigno di Damocle)
della Bibbia. Un testo considerato da troppi infallibile, indiscutibile,
incontestabile.
In
questo campo la verità storica, qualunque cosa essa sia, deve nuotare
controcorrente fra interessi politici alterni, fra israeliani che distruggono
memorie archeologiche palestinesi per dimostrare che prima di loro lì
non c'era nessuno, e palestinesi che scavano sotto alla spianata della
Moschee con i bulldozer, buttando tutto nella discarica, per dimostrare
la stessa cosa, ma alla rovescia.
Dunque,
un tema ricco e scottante.
Peccato
che l'autore dedichi 250 pagine per dimostrare che molti, troppi,
accademici, nelle loro ricostruzioni storiche, rimangano attaccati alla
Bibbia come cozze a uno scoglio, e nelle loro ricostruzioni si lascino
sviare dal quadro ideologico che la Bibbia propone, presentando
una storia della Palestina che di fatto è una parafrasi della storia
dell'Israele biblico, nella quale non esiste nessuno spazio (se non quello
di intrusi) per popolazioni che non fossero quella israelitica.
Ok,
interessante, ma... occorrevano 250 pagine di prosa aridissima per dimostrare...
questo?
Ed
alla fine, concludendo che Israele che conosciamo oggi è un'invenzione
del pensiero occidentale del XIX secolo, che cosa abbiamo detto che non
sapessimo già?
E
se fosse stato un'invenzione del pensiero orientale del XV secolo, cambierebbe
qualcosa?
E
non sono i palestinesi stessi il frutto simmetrico di quella stessa identica
invenzione e stagione, quella dei nazionalismi borghesi del XIX secolo?
(Oltre tutto, su questo tema ha di recente scritto molto meglio, e in modo
molto più leggibile, lo storico israeliano Shlomo
Sand ne L'invenzione del popolo ebraico).
Una
volta "dimostrato", come vuole fare l'autore (ma senza discutere di persona
i dati archeologici) che l'Israele biblico è un'invenzione letteraria,
cosa cambia? Davvero qualcuno che non sia un fanatico religioso pensa che
la legittimazione a esistere d'Israele oggi si basi sulla Bibbia, e non
piuttosto sul fatto che ormai esiste... come dimostrano i suoi carri armati
e le sue bombe atomiche?
Alla
fin fine, L'invenzione dell'antico Israele è una teorizzazione
sulle teorizzazioni, nella quale la Palestina con la sua storia non
entra mai, neppure di striscio. Niente dati archeologici, neppure uno
schemino sulle popolazioni cananee non israelite: niente.
E
qui va be', la colpa è mia, perché in effetti nel
titolo non è che mi era stato promesso che ci sarebbero stati.
Però, peccato che non ci fossero.
In conclusione, questo è un tipico testo accademico, che disserta per 250 e passa pagine su un tema che ci è già noto in partenza, e non riesco a immaginare perché un essere umano che non stia facendo un dottorato di ricerca in storia delle ideologie potrebbe mai avere voglia di leggere.
In una frase: è strettamente riservato agli accademici.