Home page Giovanni Dall'Orto > Recensioni > Storia nuova |
Recensione di Giovanni
Dall'Orto
Uno storico pagano di fronte al crollo dell'Impero Romano d'occidente.
Ho
comprato questo libro, scritto fra il 507 e il 527 d.C., invogliato dalle
numerose citazioni che ne fa il
saggio Barbari, di Alessandro Barbero.
E
in effetti il confronto tra il testo antico (che ho letto comodamente in
un pomeriggio) e il saggio odierno che riflette sui dati che ha fornito
non mi ha deluso.
Nello
storico antico vedi le passioni umane, che lo spingono a tratti
a una straordinaria faziosità, che lo porta a sua volta a
un'altrettanto straordinaria cecità su quanto era avvenuto, se non
proprio sotto ai suoi occhi, un paio di generazioni prima. (La narrazione
si ferma bruscamente al 407, nel mezzo d'un ragionamento, appena prima
del Sacco di Roma da parte di Alarico: si pensa che l'autore sia stato
interrotto nel suo progetto dalla morte sopravvenuta).
Nello
storico moderno vedi invece l'acume che il senno di poi concede
a tutti noi, la più profonda comprensione degli eventi, il disegno
delle catene di cause ed effetti, ma anche un atteggiamento un po' distaccato,
a tratti perfino entomologico, verso fatti e persone accaduti - dopotutto
- migliaia d'anni fa.
Zosimo scrive per "partito preso", per dimostrare qualcosa, e la sua tesi sarebbe piaciuta a Nietzsche: i disordini che gradualmente aumentarono nei secoli IV e V, e che avrebbero infine portato alla caduta dell'Impero romano d'occidente, furono causati dall'abbandono del culto degli antichi dèi, che avevano concesso ai Romani il dominio del mondo, e per quasi un millennio li avevano favoriti.
I cristiani, buoni solo a pregare, intrigare senza posa e compiere azioni empie, con deliberata cecità avevano via via accresciuto il disfavore degli dèi, incuranti del crescente numero di segnali con cui gli dèi avvertivano che l'empietà sarebbe stata punita.
In altre parole questo è un Così morirono i persecutori, ma ribaltato: è una specie di Così i perseguitati mandarono a puttane lo Stato e il mondo...
Accanto
a questo "partito preso" ce n'è un altro, quello appunto che riguarda
la crescente presenza barbarica all'interno delle frontiere e delle istituzioni
imperiali, in primis l'esercito.
Zosimo
da un lato non riesce proprio a sopportare questi miserabili "extracomunitari"
che, rendendosi conto di stare tenendo in piedi l'impero, alzano la
testa e vogliono anche loro le fette della torta, dall'altra però
non può negare che senza di loro tutto sarebbe andato a puttane
molto prima (e poi, c'erano anche barbari pagani, "quindi" bravi e saggi...).
La
soluzione è minimizzare il fenomeno, trattando con sommo disinteresse
il problema del rapporto romani-barbari, come se non ci fosse proprio nulla
di cui discutere.
Particolarmente
schizofrenico è il dettagliato ritratto di Stilicone,
il generale semi-barbaro che puntellò con le sue vittorie per un
paio di decenni l'impero traballante.
Il
giudizio di Zosimo sul suo conto ondeggia, come dovette fare quello della
classe a cui Zosimo apparteneva ai tempi delle gesta di Stilicone. Che
fu fatto fuori, per maggior prudenza, dai romani detentori del potere,
tanto rincoglioniti e fossili (in un paio d'occasioni a Zosimo scappa la
pazienza e commenta le ignave decisioni d'un imperatore qualificandolo
come "completamente stupido", per esempio a VI, 14, 1) da ricordare il
politburo del Partito Democratico odierno.
Solo
nei confronti di Giuliano
(l'"Apostata") il giudizio di Zosimo è netto e chiaro: lui
sì che fu un grande imperatore... peccato sia durato solo tre anni.
Ma
fu grande perché fu l'ultimo imperatore pagano, o per altri motivi?
Leggendo solo Zosimo non lo si capirebbe mai. Speculare agli apologeti
cristiani suoi contemporanei, Zosimo lascia infatti capire espressamente
che la Fede sola di Giuliano sufficit, e lo salvi.
Così
salverebbe anche l'Impero, peraltro, se solo la cecità cristiana
non impedisse a tutti di vedere quanto sarebbe semplice la soluzione...
Trovo interessante questo delirio d'un fanatico religioso, che aiuta a capire quanto il fanatismo dei cristiani di quell'epoca fosse un atteggiamento mentale, politico e filosofico, diffuso.
A parte
questi elementi di spicco, la narrazione non è tale da costituire
un vero testo di storia in senso moderno.
In
altre parole, la narrazione si capisce meglio se la storia narrata da Zosimo
la si conosce già prima, almeno a grandi linee. E non solo per le
lacune (peraltro non enormi) del testo tràdito, ma proprio perché
la narrazione procede in modo piuttosto confuso. Fozio ha lodato lo stile
asciutto di Zosimo, ma insomma, questo non è certo Tucidide... e
si vede.
Più
che la narrazione storica in sé, quindi, affascina l'universo mentale
che essa lascia trasparire, il punto di vista dell'autore, i suoi umanissimi
limiti, le sue infantili faziosità, le sue deliberate cecità.
Che
ci spingono a chiedere quanto, anche noi, siamo simili a lui, quando parliamo
dei nostri tempi presenti.