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Ted Chiang, Storie della tua vita, Frassinelli, Milano 2016, € 18,50 [2002].
 
Copertina di ''Storie della tua vita'', di Ted Chiang.

[Racconti di fantascienza]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Del buon uso (letterario) del paradosso.

Inizierò dalla conclusione [ma se volete saltare il preambolo, la recensione inizia qui]. Secondo il mio parere la pubblicazione di questa raccolta di racconti ha, per la storia della fantascienza, la stessa importanza che a suo tempo ebbero Cronache marziane di Bradbury, o Io, robot di Asimov, o Un cantico per Leibowitz di Miller o Ubik di Dick....

Da almeno tre decenni non si fa altro che parlare della crisi del genere fantascientifico, ma questo libro dimostra che non è il genere narrativo ad essere in crisi, bensì gli scrittori, come peraltro suggerisce il fatto che se in qualsiasi momento guardiamo ai primi dieci campioni d'incassi al cinema troviamo sempre almeno uno, ma più spesso due, tre o quattro, film di fantascienza (per non parlare dei videogames).
Questo suggerisce che il pubblico non s'è stancato del genere in quanto tale, ma più banalmente dei suoi scrittori, che a furia d'inseguire una "nobilitazione letteraria", hanno perso di vista il fatto che la fantascienza è un genere in cui conta non lo stile letterario o lo scavo psicologico, bensì le idee, che devono essere provocatorie e inusuali. Costoro ci propinano interminabili compitini di "scrittura creativa", mortalmente noiosi,
scrupolosamente ambientati su pianeti alieni, nei quali non "succede" letteralmente nulla. Non stupisce quindi che in libreria la fantascienza sia (assieme ai classici greci e latini...) l'unico genere letterario di cui sono in vendita quasi solo titoli di autori rigorosamente defunti da decenni.


Con questo volume entriamo in una realtà completamente diversa: ecco un autore contemporaneo e vivente che ha tutte le qualità "visionarie" dei "classici" della fantascienza. Tant'è che Chiang scrive davvero poco, ma ogni volta che pubblica vince un premio per la letteratura di fantascienza.
Il volume ci propone racconti che sono perfette macchine narrative, meticolosamente progettate, come rivela il fatto che ogni minimo dettaglio regge al tentativo di confutazione del lettore.

Si tratta di realtà alternative coerenti, in cui ogni elemento ha un significato preciso che rende veri gli altri dettagli, che a loro volta lo rendono vero. Qui il gioco è quello della fantascienza più "classica": modificare un parametro della realtà, lasciando intatti gli altri, per chiederci cosa succederebbe se fosse possibile una cosa che sappiamo essere impossibile (i viaggi nel tempo, il volo interstellare, la telepatia, l'immortalità...).

Nell'antologia di Chang non appare nessuna delle ipotesi strampalate, superficiali, e soprattutto antiscientifiche, a cui ci hanno abituato tre decenni di dominio "postmodernista". L'autore ha una solida preparazione scientifico-matematica (è un informatico), e fa della sua competenza scientifica uno dei due pilastri su cui si reggono le sue narrazioni. Se si toglie l'ipotesi iniziale, che è irreale e introduce l'elemento di fanta-, questi racconti sono -scientifici, almeno in uno dei molti sensi in cui intendiamo oggi la scienza.
Niente paura: ogni passaggio difficile è spiegato
con sufficiente chiarezza anche se in breve ai "non addetti", concedendo così a tutti di seguire l'autore nelle sue affascinanti domande ipotetiche su problemi impossibili. Si tratta di un gioco intellettuale che procura il godimento di sentire scintillare i propri neuroni.


Godimento che sorge anche grazie al secondo pilastro dei racconti, ossia quella narrazione postmoderna (o di "pensiero debole", se preferite chiamarla così) che impazza nel mondo accademico anglosassone.
La religione postmodernista (perché di religione si tratta) parte nella Rivelazione Universale del fatto che noi non viviamo nella realtà, ma nella percezione soggettiva che abbiamo della realtà. "Non esistono fatti, esistono solo interpretazioni" (anzi, "narrazioni"), mediate dai sensi umani (per definizioni, fallibili).
Interpretazioni che a loro volta sono nate da quei "pacchetti preconfezionati" di dati che sono le parole, i linguaggi, che "formano" la nostra percezione del reale attraverso il loro assemblaggio in concetti. Noi non conosciamo la rosa in sé, conosciamo solo la percezione che abbiamo di quei fenomeni che per convenzione abbiamo raccolto sotto la serie di lettere che compongono la parola "rosa": noi conosciamo solo il nome della rosa, non la rosa in sé.
La realtà, quindi, è in ultima analisi solo linguaggio: la realtà in sé non ha nessuna forma, è gassosa e indeterminata, un magma indistinto un cui un oggetto non è distinto o distinguibile dall'altro fino a che l'atto creativo della mente umana non l'abbia segmentata in parole, e cose da esse "create".

Non consiglierei a nessuno di vivere secondo queste folli teorie (conviene sempre scansarsi se una macchina ci viene addosso: un investimento potrebbe risultare molto più "fattualmente" contundente di una semplice "interpretazione"...) tuttavia proprio il fatto che questo dogma sia intriso di contraddizioni lo ha reso particolarmente adatto alla trattazione artistica, soprattutto se si è capaci di sfruttare appieno la sua tendenza a generare affascinanti paradossi. A titolo di esempio citerò Memento, un film in cui un personaggio pazzo e amnesico "costruisce" letteralmente la realtà in cui vive modificando con atti di volontà i ricordi che di ciò che ha fatto, o Inception, forse (in attesa che qualcuno si decida a trarre un film da Ubik) il capolavoro delle narrazioni fantascientifiche basate sul concetto che realtà e sogno sono indistinguibili.


Ebbene, anche questo libro riesce a far tesoro delle affascinanti ramificazioni consentite dal paradosso, che in Logica è un importante campanello d'allarme che segnala che nel nostro ragionamento qualche passaggio è scorretto e va quindi riesaminato, ma che non cessa di stregare gli osservatori umani per il suo aspetto vero e falso al tempo stesso.
Questo libro è infatti una serie di
esercizi narrativi intelligenti e profondamente meditati, a partire da questi paradossi postmodernisti, con declinazioni e prospettive sempre diverse, cosa che lo rende vario e poliedrico, mai banale e prevedibile.


Il racconto che dà il titolo alla raccolta, "Storia della tua vita", da cui è stato tratto il film Arrival, racconta del contatto con una razza aliena il cui linguaggio sembra impossibile da decifrare. Una linguista, spinta dall'urgenza di capire il motivo per cui gli alieni sono atterrati, si dedica anima e corpo alla decifrazione, scoprendo che il problema nasce dal fatto che questo linguaggio richiede di esprimere, come se si trattasse di equazioni logico-linguistiche, i nessi causali fra parole e concetti. Quando finalmente s'impadronisce di un livello basilare di tale linguaggio, scopre che pensando con quella lingua riesce a prevedere gli esiti futuri degli atti, tanto che il racconto è la lettera scritta a una figlia di cui la protagonista è incinta, e che sa già che "inevitabilmente" da adulta morirà in un incidente durante una gita in montagna.
Dunque non soltanto "il linguaggio crea la realtà", ma lo fa in modo da descrivere la unica realtà possibile per noi umani, con quel pessimismo reazionario che il postmodernismo ha assorbito dal concetto di "Fine della storia": forse non viviamo nel leibniziano "migliore dei mondi possibili", ma ahinoi viviamo nell'unico mondo possibile, già predeterminato dai "discorsi del Potere" prima ancora che noi veniamo al mondo, e impossibile da modificare per quanto ci sforziamo, perché il futuro è scolpito dai Discorsi che pronunciamo ed ascoltiamo. Il linguaggio addirittura "forma" la nostra mente, al punto che il semplice apprendimento del linguaggio alieno modifica non solo la percezione del reale della protagonista, ma la sua realtà stessa, attraverso "ricordi" di eventi futuri (ed è delizioso il modo in cui Chang gioca sui tempi verbali per descrivere queste memorie di eventi non ancora avvenuti).

Trovo notevole che il film abbia scelto scelto di contraddire il predestinazionismo di Chiang, aggiungendo ex novo una scena (molto azzeccata, ma anche in totale contraddizione col senso del racconto) della telefonata al generale cinese, che avviene grazie alla visione di un futuro che solo il fatto di aver fatto quella telefonata renderà possibile (un classico caso di retroazione temporale, tanto caro alla fantascienza). Nel film la protagonista ha quindi una scelta, e può modificare il futuro prendendo una decisione e agendo; ma con questa innovazione diventa assurdo e incoerente il fatto che non abbia allo stesso modo scelto di salvare la figlia (avrebbe potuto semplicemente concepirla in un altro momento, e infatti nel film il padre lascerà la protagonista per non averlo fatto... il che è sensato, in questa diversa visione degli eventi).
Il messaggio del racconto, peraltro citato anche nel film, è invece che la vita è un viaggio, ed anche conoscendone la meta non per questo è privo di senso: il premo per questo viaggio consiste nel fatto di aver viaggiato.

In conclusione: chi avesse visto il film e fosse per questo finito su questa recensione sappia che il racconto è un'opera d'arte differente: siamo di fronte a due gemelli non identici, con personalità diverse. Oltre tutto, nel racconto ha un grande rilievo il rapporto fra madre e figlia, con delicate e ironiche osservazioni sulla gioia della maternità, che nel film sono assenti. Viceversa, tutta la parte del film con gli stereotipati personaggi della Cia o dell'esercito, non è presente nel racconto. Infine, il fatto che il compagno della protagonista del film sia un fisico, nel racconto non è indifferente come lo è nel film, perché nel racconto egli contribuisce alla decifrazione attraverso la logica matematica, laddove questa parte è stata semplicemente annientata nel film.


Da quanto ho appena scritto è palese che penso che da solo questo racconto meriterebbe l'acquisto del volume, tuttavia altri gioielli assoluti lo rendono un "must have" per ogni amante della fantascienza (e non).

"Capisci" è il primo racconto in cui appare il tema della lingua come "logos" (che "in principio era presso Dio, ed anzi era, Dio"). Chiang riprende il vecchio luogo comune dell'aumento artificiale dell'intelligenza (già trattato fin dal lontano 1959 con risultati eccellenti in "Fiori per Algernon" di Daniel Keynes) ma ne stravolge lo sviluppo: il super-intelligentone questa volta non userà le sue capacità per conquistare il mondo, ma per avere una comprensione più profonda del linguaggio. Man mano che l'intelligenza cresce, il linguaggio diventa per lui una barriera, che impedisce al pensiero di articolarsi nel modo corretto, pertanto inventa nuovi linguaggi per capire meglio la realtà.
Infine scoprirà, in modo amaro, che attraverso adeguate combinazioni di parole è possibile prendere il controllo delle menti altrui.


"Divisione per zero" (che è un'operazione impossibile) mette in scena una geniale matematica che fa una scoperta che porta necessariamente a concludere che 1=2, e che tutta la matematica è quindi autocontraddittoria. Il racconto descrive in modo semplice, in brevi digressioni, i vari passi con cui nel XIX e XX secolo si prese  coscienza dei limiti logici del pensiero matematico. In parallelo descrive la disperazione d'una persona alla ricerca di un Assoluto che le sfugge proprio per colpa dello strumento che utilizza per dimostrarne l'esistenza, che è una descrizione letteraria (ottimamente riuscita) del senso della ricerca del postmodernismo. Un'aspirazione alla Verità Assoluta (quella che nel XX secolo né la religione, il cui "Dio è morto", né la scienza, "il falso dio", né la politica, "il dio che ha fallito", permettono più), che parte dal disprezzo verso la realtà, che si limita ad esistere e nient'altro, "stupida", bisognosa che siano gli esseri umani a fornirle un senso, un ordine, un'esistenza, con il loro linguaggio o (come nella variante di questo racconto) con le loro teorie matematiche.
Se venisse meno questo ordine artificiale, come succede alla protagonista del racconto, verrebbe meno il senso stesso della realtà:

"Aveva sempre creduto che il senso delle scienze matematiche non derivasse da una realtà concreta, ma che piuttosto conferisse un po' di significato a tale realtà. Le entità fisiche non erano più grandi o più piccole, simili o dissimili, bensì si limitavano ad essere, esistevano. La matematica era del tutto indipendente, in pratica garantiva loro un significato semantico, fornendo categorie e relazioni. Non descriveva nessuna qualità intrinseca, ma soltanto una possibile interpretazione. Adesso no. Separata dalle entità fisiche, la matematica diveniva imprevedibile, incoerente, e se una teoria formale non era coerente, non era nulla. La matematica era diventata empirica, né più né meno, e così com'era non le interessava più" (p. 100).

Come tutti, anche questo paradosso segnala un errore nel ragionamento, come ha spiritosamente ricordato Maurizio Ferraris con il suo ironico "teorema della ciabatta" nel suo Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012) -- che raccomando a chi volesse approfondire, una volta terminata la lettura di questi splendidi racconti, quali siano le fallacie logiche che hanno dato vita ai paradossi sfruttati a fini artistici da questi racconti.


Proseguendo:

"Settantadue lettere" immagina una realtà alternativa in cui da un lato la scienza aristotelica corrisponde alla realtà (in particolare per quanto concerne la riproduzione degli esseri umani e degli animali) e dall'altro anche la cabala è una scienza, riuscendo a mettere in movimento oggetti-golem, grazie alla combinazione mutevole di lettere alfabetiche.
A fronte d'un problema che riguarda la sopravvivenza della razza umana che non svelerò, lo scienziato protagonista si trova nella necessità di "animare" non oggetti, ma embrioni umani. Riuscendo nello sforzo intellettuale nel momento in cui comprende che anche l'essere umano è il risultato d'una combinazione di lettere (quelle del DNA, anche se questo dettaglio non è esplicitato) ossia "una rappresentazione lessicale". Il protagonista comprende così che "L'umanità si sarebbe fatta veicolo del nome, e al tempo stesso sarebbe diventata un suo prodotto" (p. 223).
Così come i pitagorici antichi vedevano numeri ovunque, Chiang vede linguaggio (codice) ovunque.


"L'inferno è l'assenza di Dio" riattualizza il concetto gnostico di un Dio lontano dalle sue creature, inconoscibile e incomprensibile, né buono né cattivo, semplicemente alieno più degli alieni che ci presenta la fantascienza. Anche se a rigore questo è più un racconto fantastico che un racconto di fantascienza religiosa (sì, esiste: si pensi solo a Left behind), non è il caso di fare i puristi, tant'è che questo straniante racconto ha (meritatamente) vinto non uno ma addirittura due premi fantascientifici: un Hugo e un Locus.


Infine "Amare ciò che si vede: un documentario", fa ancora una volta uso del paradosso per esplorare un'altra faccetta ancora del postmodernismo: l'ossessione del "politicamente corretto" che ha devastato le capacità intellettuali di due o tre generazioni d'universitari anglosassoni.
Cosa accadrebbe, si chiede Chiang, se fosse possibile "spegnere" (sia pure reversibilmente) quella parte del nostro cervello che ci spinge, per istinto animale, a preferire e compiacere le persone di aspetto attraente? Sarebbe desiderabile che un'università in vena di "politicamente corretto" adottasse l'obbligo per tutti gli studenti di sottoporsi a tale intervento, in modo da eliminare le ingiuste discriminazioni verso quanti non hanno la sfortuna di avere un aspetto attraente?
Chiang esamina la domanda da vari punti di vista, senza sposare una tesi piuttosto che l'altra, documentando in uno scritto satirico e pungente, ma che pone domande serissime, uno degli altri aspetti inquietanti del postmodernismo: la sua guerra contro l'eredità biologica, animale, dell'essere umano. Una guerra che ne fa l'erede del puritanesimo e delle aspirazioni religiose ascetiche antiche, che sognavano un essere umano liberato dalle catene della carne, pura mente, puro intelletto, come Dio, relegando il corpo in un campo da mortificare e liquidare come secondario e irrilevante.
Ovviamente, una teoria che presenta la realtà come puro frutto del linguaggio e del ragionamento non può accettare l'idea di limiti biologici, di istinti animali non soggetti a tale controllo, e quindi tende a liquidarli come ininfluenti, anzi come insopportabili difetti da correggere e combattere (e il sesso, guarda caso, è uno degli impulsi più temuti e combattuti dal "politically correct" postmoderno... e a ragione, aggiungerei). Salvo poi far chiedere alla protagonista se sarebbe possibile, un giorno, "spegnare" la parte del cervello che riconosce le differenze razziali, come se esistessero davvero "differenze razziali" come fatti naturali e innati anziché convenzioni culturali...


Completa la raccolta un altro paio di racconti per me un po' meno riusciti, uno perché è brevissimo ("L'evoluzione della scienza umana") e un altro ("Torre di Babilonia") perché è più simile ad una fantasia borghesiana che a un racconto di fantascienza.

Conclusione: questa è un'antologia destinata a lasciare un segno. Da regalarsi e da regalare a tutti gli appassionati di fantascienza.


 
 
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