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Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un romanzo con qualche limite, ma riuscito
Che libro bizzarro, anche se decisamente piacevole.
Alle prime decine di pagine di questo romanzo ci si rassegna a leggere una specie di clone di Una famiglia marziana di Heinlein, che se non altro viene onestamente rievocato fin dalla prima riga della presentazione in quarta di copertina.
C'è
tutto, compreso il "diario" (sia pure sotto forma di semplice narrazione
in prima persona) della ragazza da poco maggiorenne destinata a colonizzare
Marte assieme alla famiglia, comprensiva di mamma, papà e fratello
sedicenne. Purtroppo inizialmente non manca neppure il tono da "romanzo
per ragazzi" che aveva l'originale di Heinlein; la traduzione lascia addirittura
trasparire qualche divertita frecciata al "parlare da ggggiovane" (ma senza
esagerare).
C'è,
a dire il vero, il bonus dell'iniziazione sessuale della fanciulla,
con tanto di scena di sesso (letteralmente) spaziale, che però mi
ha lasciato alquanto indifferente.
Questa parte scorre molto lentamente, con una descrizione minuziosa delle realizzazioni tecniche grazie alle quali l'Uomo è arrivato su Marte (e anche se l'ascensore per la Luna non è più una novità per la fantascienza, è pur sempre gradevole il modo dettagliatissimo in cui Haldeman immagina un viaggio su di esso: ha un che dello spirito "classico" di Jules Verne, e dei suoi viaggi sotto il mare o sopra il cielo).
Niente
da ridire: il fascino per le "meraviglie del possibile" è una delle
basi su cui è nata la fantascienza. Se l'autore riesce a narrare
come se l'avesse visto coi suoi occhi ciò che ancora non è,
ma un giorno potrebbe essere, la lettura risulta piacevole, e qui Haldeman
se la cava, decisamente. Andando controcorrente rispetto alla resa idealizzata
dei viaggi spaziali, Haldeman ce ne dà infatti una descrizione minuziosamente
realistica, e decisamente originale.
Lo
svolgimento è forse lento, però non è noioso.
Diciamo
insomma che è un onesto intrattenimento, anche se non è nulla
di più di questo.
Tutto
cambia con l'arrivo su Marte. Poiché la svolta è stata
rivelata (forse nel timore che molti lettori abbandonassero la lettura
prima di arrivarci!) tanto in quarta di copertina che nei riassunti promozionali,
non mi sento in colpa a svelarla a mia volta.
La
disobbediente ragazzotta, uscita senza permesso sulla superficie, si caccia
in guai seri, ma viene salvata dagli Altri, misteriosa razza non autoctona,
che da lassù studia da secoli la razza umana.
Gli
Altri si rivelano creature ed emissari di un'altra razza, più antica
e potente, che si rivelerà a sua volta prima della fine della narrazione.
Altro
non aggiungo, perché da un certo punto in poi il romanzo si regge
sulla suspence, e non voglio sciuparla.
Ciò
che è strano nel romanzo è che a mano a mano che si addentra
nella vicenda l'autore prende sempre più confidenza e il ritmo accelera,
le invenzioni fantastiche si moltiplicano e la lettura acquisisce interesse.
Dopodiché
il climax viene raggiunto a dieci pagine dalla fine, e tutto si
conclude in modo imprevisto ma soprattutto brusco e affrettato,
come se Haldeman avesse esaurito il numero di pagine messe a disposizione
dall'editore e si spicciasse quindi a concludere in un modo qualsiasi.
Se
l'editore (o meglio l'editor) fossi stato io, invece, avrei crudelissimamente
ma fermissimamente chiesto di tagliare tutta la parte iniziale (salvo forse
il viaggio sull'ascensore) e avrei fatto iniziare la vicenda ad arrivo
su Marte già avvenuto.
In
effetti, la prima parte è fondamentalmente un riempitivo, tanto
più che a poco dall'arrivo su Marte l'aspetto juvenile di
questo romanzo evapora bruscamente, e la fanciulla protagonista si trova
ad essere solo un personaggio fra i molti, con un cambio di modulo narrativo
brusco e non giustificato.
Tagliando
la prima parte si sarebbe quindi potuto ottenere maggiore spazio per lo
sviluppo della parte finale, che ora come ora è sottosviluppata
rispetto alla quantità notevole d'idee e invenzioni che Haldeman
era riuscito a mettere via via sul tavolo. E che ha in parte sprecato,
non sviluppandole pienamente per colpa del finale abborracciato.
Insomma, è come se Haldeman abbia iniziato a scrivere senza una chiara idea di quel che voleva fare, e a metà romanzo abbia cambiato l'impostazione iniziale, abbia trovato l'ispirazione, e si sia messo a seguire tutt'altra linea.
Per
questa disarmonia, nonostante questo romanzo mi sia piaciuto (si legge
tutto d'un fiato), non me la sento di dargli un voto pieno.
La
narrazione è sia gradevole che scorrevole, però, colpito
dall'impressione di stare leggendo due racconti del tutto indipendenti
appiccicati senza molta cura, sono
andato a controllare, ed ho scoperto che in effetti il libro nasce
dall'accrocchio fra non due, ma ben tre racconti.
Be':
lo si nota!
È un vero peccato. Questo libro aveva molti elementi per diventare un piccolo "classico" del genere. La frettolosità con cui è stato scritto (o assemblato) ne fa invece un buon romanzo, di cui raccomando la lettura a chi ama il genere, ma non certo un'opera straordinaria. Come invece avrebbe potuto anche essere.
Sarà per un'altra volta.
(Post
scriptum. Il disegno di Festino sul frontespizio è diversi anni-luce
avanti rispetto al solito repellente pupazzetto in copertina, con tanto
di tuta argentata in computer-graphic che "faceva nuovo" sì,
però vent'anni fa...
Perché
le copertine non le danno da fare a Festino, a questo punto? Abbasso i
pupazzetti computer-generated!).