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Recensione di Giovanni Dall'Orto
Il primo "Premio Urania" scritto in Itanglish.
Il
primo impatto con questo romanzo non è dei più felici. La
cura editoriale è disastrosamente carente ("Urania" degenera ormai
di giorno in giorno), al punto che s'inciampa su bizzarre costruzioni di
Itanglish molto fastidiose, che qualsiasi redattore principiante
avrebbe corretto senza neppure pensarci su, e che qui invece fanno bella
mostra di sé:
P.
14 "Rimane solo un vago sentore di bambini rincorrersi fluttuando
per la stanza, inseguito da labili riflessi color carne".
p.
17 "Il rivestimento rimbalza l'eco dei nostri passi" (della serie:
"scendimi il cane che lo piscio").
p.
18 "Apre una porta dove spicca lo stemma della Hitasura".
p.
19 "Hitasura, lei non sembra una persona facile a preoccuparsi".
Per
capire da dove spuntino queste bizzarrie sintattiche occorre ritradurre
in inglese (l'autore sarà forse il solito manager bocconiano ormai
abituato più all'inglese che al suo idioma materno?), lingua in
cui in effetti risultano corrette: "A vague feeling of children playing
tag", "The wall bounces an echo", "A door where...", "A person easy to...".
Il capolavoro assoluto della sciatteria redazionale è però a p. 15: "Sono entrambi alti uguali". Mi sforzo d'immaginare due persone che siano "alte uguali", però senza esserlo "entrambe". Ma non ci riesco. Forse il mio pusher non è bravo quanto quello che rifornisce i redattori di "Urania"...
Non so se l'esempio basti: sono solo cinque pagine. (Anche se non posso astenermi dal citare pure il "Qualcuno vive fisso all'Imperial" di p. 38, e poi la smetto, giuro).
Per fortuna dopo alcune decine di pagine o il correttore di bozze è stato (meritatamente) licenziato, oppure s'è finalmente svegliato, e la lingua inizia ad assomigliare a quella parlata dagli abitanti della penisola italiana. Anche se l'autore usa costruzioni di frasi super-eleganti e ostenta parole iper-preziose (come "cilestrino"), alla fine lo stile diventa scorrevole e il tormento dell'itanglese ha termine.
In
compenso resta un po' greve la trama, che non brilla in originalità.
Ci vediamo il solito supereroe dotato di superpoteri perduto nelle solite
vie del solito Giappone postcatastrofe, inseguito della solita Yakuza di
turno a cui ha fatto il solito sgarro (ha "rubato" un clone dello scrittore
Yukio
Mishima, che un partito politico contava di usare come testimonial
per le prossime elezioni, e che era evaso).
Sembra
una spremuta dei libri di William
Gibson (ma senza il ciberspazio), condita con manga giapponesi,
un po' di Philip
Marlowe de noantri, e molti film del tipo Push
(che vabbe', è ambientato in Cina, però la mafia che insegue
il protagonista e i superpoteri ci sono anche lì).
L'autore è certo uomo di molte letture, ma le sue suggestioni letterarie e i prestiti (deliberati: non si fa di Yukio Mishima un personaggio per un mero accidente!) non si amalgamano bene, ed ogni prestito fa un po' vita a sé.
Tutto
è molto "letterario", costruito a partire da situazioni libresche
e clichés letterari e personaggi standard di questo o quel
genere (tenutarie di bordello astute e ben introdotte, killer tonti e gorilleschi,
mafiosi spietati e untuosamente gentili, supereroine materne... cosa manca?
Boh, un personaggio originale, direi), ed alla fine di tanta cucina, il
piatto servito in tavola sa di carta e di celluloide.
Ogni
quattro pagine mi veniva da pensare: "Questo mi ricorda il romanzo X:
Questo mi ricorda il film Y. Quest'altro mi ricorda il fumetto Z. Questo
ancora...".
La
sua Tokio sembra insomma Cartoonia,
e leggendo si teme di veder spuntare da un momento all'altro Jessica
Rabbit come
ciliegina sulla torta...
Come
se non bastasse, l'autore ha chiesto decisamente troppo alla mia "sospensione
d'incredulità" con il concetto che è alla base del romanzo,
ovvero che sia possibile ricostruire una persona, completa di personalità
e ricordi, clonando il DNA estratto dai resti del suo cadavere...
Da
nessuna parte si spiega come ciò sia possibile. L'autore s'è
semplicemente dimenticato di proporci un meccanismo credibile, o anche
solo plausibile, su cui fondare la sua costruzione narrativa. Ma questa
non è fanta-scienza: è magia, è abracadabra, è
Biancaneve e i sette samurai...
Dopo
questa lettura mi ha lasciato invece folgorato il racconto finale, "L'imbianchino
di anime" di Daniela
Piegai.
Non
è a rigor di logica fantascienza, sborda più nel realismo
magico, nel fantastico, non saprei, ma già il fatto che io fatichi
a incasellarlo segnala la sua originalità.
L'invenzione su cui si basa è però esilissima (l'autrice immagina che ciascuno di noi lasci sulle pareti della sua casa emanazioni della sua vita, che sia poi necessario "bonificare", a strati, perché non infestino la casa) e, peggio ancora, l'autrice sceglie di non spiegarci le regole del suo mondo ma di lasciarcele intuire via via.
C'erano quindi le premesse per la solita catastrofe di noia pretenziosa all'italiana ("vorrei scrivere poesia, ma siccome tutti mi dicono che faccio schifo, allora scrivo fantascienza"), e invece no: una vena di poesia e un finale decisamente fuori dai canoni hanno fatto di questo piccolo gioiello una deliziosa sorpresa.
Non dico che il racconto valga da solo l'acquisto del libro (troppo breve, per questo), ma che abbia salvato la mia copia di "Urania" dal cassonetto della carta da riciclare, sì.