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Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un romanzo che procede a tentoni per non arrivare da nessuna parte.
[Nota: la prima edizione "Urania" è qui].
Ho
un innato rispetto per Bob
Shaw, coscienzioso
artigiano della parola che nella mia prima adolescenza mi ha regalato
alcuni dei brividi più memorabili trasmessimi dai romanzi "Urania".
Ma
anche il rispetto (giustificato anche qui da due o tre idee davvero carine,
anche se affogate nel mare inerte del resto) non può nulla di fronte
ad un lavoro stanco, affrettato, prevedibile, palesemente scritto per pagare
le bollette del gas e della luce, cioè senza un briciolo d'ispirazione.
Poco conti parlare della trama, perché tre quarti del romanzo ruotano attorno alla rocambolesca fuga dal campo di prigionia del protagonista, spia terrestre su un pianeta ostile (tant'è che il titolo italiano ci infila il non-spazio, che nel romanzo appare per poche pagine soltanto, giusto per non tradurre quel "Night Walk", "Passeggiata nella notte", che invece rispecchia con esattezza tutto quanto avviene nel romanzo: una lunga passeggiata).
Catturato,
viene deliberatamente accecato dal solito poliziotto sadico (personaggio
scontato oltre ogni immaginazione), ma niente paura, nel campo di prigionia
si costruisce comm' se gnent' foss' degli ultra-tecnologici occhi
artificiali (!), che sfruttando non meglio specificate emanazioni degli
occhi altrui vi si "agganciano", inviandone le immagini al cervello del
ricevente.
Non
ho capito l'arruffata teoria che sta alla base di questa balzana idea,
ma c'è da dire che questa graziosa alzata d'ingegno (che permette
un sacco di variazioni sul tema, perché gli occhi li hanno anche
gli uccelli, i cani, i gatti e... i topi) è l'unico punto
davvero intrigante di tutta la vicenda.
Che si srotola in modo totalmente prevedibile: l'arresto, la condanna, i preparativi di fuga (mai visto in un romanzo un arrestato che non evada in modo del tutto superumano, del resto), la "rocambolesca" evasione (mai vista in un romanzo un'evasione non rocambolesca, del resto) nelle paludi ostili (mai vista in un romanzo una palude non ostile, del resto), poi ancora la fuga (mai visto... ma mi sto per caso ripetendo? No! È il romanzo che ripete solo stanchi clichés), poi l'arrivo all'astroporto, poi un'ulteriore fuga nello spazio... con un finale ottimistico del tutto appiccicato e del tutto incongruo, ma che almeno qualcosa per il verso giusto la fa andare.
Ho
passato l'intero tempo della lettura aspettando che "succedesse" qualcosa,
abituato al fatto che simili ambientazioni di solito vengono costruite
all'inizio per creare un "crescendo" di avvenimenti nella seconda parte.
E
invece niente, dopo tanto aspettare invano, a metà mi sono infine
rassegnato al fatto che questa non era la scalinata verso l'edificio in
costruzione: era la costruzione stessa...
Il
mio metodo di valutazione, di fronte a romanzi come questo, prevede di
chiedermi se togliendo le astronavi e sostituendole con treni o aerei,
e sostituendo i pianeti con, che so, Russia ed Usa, il romanzo si reggerebbe
tale e quale o no. Nel caso che sì - ed è il nostro caso
- si tratta di una rimasticatura di clichés priva della preoccupazione
di creare universi, idee, situazioni peculiari della fantascienza.
Della
serie: "Quel ramo della Galassia centrale che volge a Mezzogiorno, fra
due catene non interrotte di Quasars"... Già
letto, grazie, e anche da mo'.
Il solo aspetto positivo, a questo punto, è la relativa brevità (sulle 200 pagine), che tenendo conto delle parti di mero allungamento del brodetto che si possono agevolmente saltare (dopo due pagine nelle paludi, non senti il bisogno di altre ulteriori dieci, grazie) permette di sbrigarsela in un paio d'orette. Per carità, di lettura leggerina e gradevole, ma nulla di più.
Adatto
giusto per un viaggio in treno.
Purché
non troppo lungo.
P.S. Aridaje con le copertine coi pupazzetti 3D. Ma quanto schifo che cce fanno, ce?