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Jack Vance, Pianeta
d'acqua, "Classici di Urania" n. 88, 2010 [1966].
Recensione di Giovanni Dall'Orto
Un classico della fantascienza. Quella vera.
Risale al 1966 quest'opera, e non lo diresti, se non (ma devi essere un vero appassionato per saperlo) per la sua visione del progresso umano come forza irresistibile, che era tipico della fantascienza Usa dell'epoca di Kennedy e dintorni.
La narrazione non ha perso nulla della sua freschezza; anzi, Vance con la sua scrittura asciutta e priva di fronzoli, che va al "dunque" della vicenda e la segue come un mastino la preda, ha semmai molto da insegnare a certi raffazzonatori d'interminabili polpettoni SF dei giorni nostri (qualsiasi allusione a Peter Hamilton è del tutto voluta).
Oltre a ciò, questo è un vero libro di fantascienza, a differenza del 90% della fuffa che ormai passa su "Urania", che ci rifila dalle streghe agli elfi agli zombi...
Per quanto non sia fra i libri più conosciuti ai più, Pianeta d'acqua ha tutte le caratteristiche di compiutezza, coerenza, elaborazione della trama eccetera, necessarie per essere definito un "classico" della SF.
La
narrazione è ambientata su un pianeta, interamente ricoperto d'acqua,
sul quale dodici generazioni fa è naufragata una nave-prigione che
stava deportando un carico di galeotti.
I
loro discendenti vivono (comodamente) su arcipelaghi formati da gigantesche
simil-ninfee, ancorate al fondo marino, e hanno dovuto costruire la loro
civiltà facendo a meno non solo dei metalli, ma anche della pietra.
Vance
è spesso davvero ingegnoso (e sempre affascinante) nel descrivere
le trovate escogitate dagli umani per superare questo handicap.
La
vicenda si svolge in una comunità che ha un problema.
Al
loro arrivo, i naufraghi hanno notato che era più semplice placare
un gigantesco seppiolone indigeno, battezzato "Re Kragen", offrendogli
parte del cibo coltivato, piuttosto che subirne le incursioni.
Ma
la bestiaccia, inopportunamente longeva, in un secolo e mezzo è
cresciuta troppo, e la sua fame insaziabile rischia ormai di ridurre alla
fame anche gli umani.
Il protagonista Sklar Hast, pertanto, inizia a chiedersi se non sarebbe meglio trovare il modo di ammazzarla anziché onorarla, ma si scontra con la casta dei sacerdoti del culto del Re Kragen, che ne faranno di cotte e di crude per impedirgli il "sacrilegio" (che minerebbe il loro status).
Ma nulla potranno costoro contro l'audacia umana e l'inarrestabilità del progresso, che riusciranno a ridurre il mostro marino a bastoncini Findus, e al tempo stesso a recuperare parte del sapere che la prima generazione aveva lasciato in eredità in memoriali scritti.
Il
libro è percorso da una sana vena di umorismo. Ad esempio, la società
è divisa in caste, sulla base delle caste in cui erano divisi i
coloni terrestri originali: Ladri, Malandrini, Falsari, Truffatori, Lenoni...
e così via!
Per
non parlare del ritrattino al fulmicotone riservato al clero, che nelle
devastazioni del seppiolone vede sempre e solo un'occasione per accrescere
il proprio potere e mai un problema da risolvere.
La descrizione della società umana è accurata e fantasiosa, "antropologicamente corretta", a livello di una Ursula Le Guin.
Le vicende non sono mai noiose, e se i personaggi sono a volte un po' bidimensionali, questo è un difetto comune a tutto il genere fantascientifico (che non è adatto allo scavo psicologico).
L'unico
vero punto debole, dal punto di vista scientifico, è paradossalmente
il kragen.
Infatti
un animale di quella stazza e dotato di tali armi offensive e difensive
o è un carnivoro oppure, se come in questo romanzo è un erbivoro,
ha sviluppato un tale arsenale perché viene predato da carnivori
alla sua altezza, dei quali però nel romanzo non c'è mai
traccia.
Inoltre,
in una società priva di metalli e pietre, un animale come il kragen
sarebbe stato non certo deificato, bensì attivamente cacciato
(e magari portato all'estinzione) per le sue ossa, i suoi tendini, le sue
corazze chitinose... tutti materiali preziosissimi per la loro scarsità.
Così è per esempio con le balene per gli eschimesi, che avendo
lo stesso problema di non avere né metalli né pietre, dei
cetacei usano anche ossa e fanoni...
Diciamo
però che queste incongruenze, con un poco d'indulgenza, rientrano
ancora senza forzature eccessive nella generica "sospensione d'incredulità"
che la fantascienza chiede al lettore.
Questa edizione italiana è corredata in appendice anche del racconto lungo (del 1964) da cui il romanzo è nato.
Il
racconto ha un ritmo molto più secco e spigliato, a tratti addirittura
preferibile a quello del romanzo, e permette di notare come certe lungaggini
del romanzo (soprattutto i discorsi pubblici di questo o quel personaggio)
siano nate non da bisogni narrativi, ma dalla più prosaica esigenza
di "allungare il brodino" imposta dalla novelisation.
Ma
al di là dell'interesse dato dalla possibilità di confrontare
due stesure diverse e con diverse esigenze della stessa storia, si tratta
solo, per l'appunto, della medesima vicenda narrata con gradi diversi di
dettaglio.
Concludendo, una volta soppesati i pregi (molti) e i difetti (pochi) di questo romanzo, me la sento di consigliarne vivamente l'acquisto (oltre tutto costa solo 5,5 euro) e la lettura.