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OMOSESSUALITÀ E

RAZZISMO FASCISTA
 
di: Giovanni Dall'Orto 
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La copertina del catalogo della mostra ''La menzogna della razza''
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La politica esplicitamente "razzista" del fascismo italiano contro gli omosessuali durò tre anni (dal 1936 al 1939) ma anche nella sua brevità l'episodio si rivela assai istruttivo per capire la mentalità che fa ancor oggi degli omosessuali il gruppo di persone più odiato dai cittadini italiani e maggiormente colpito dall'intolleranza [1].

In Storia esistono silenzi e "spazi vuoti" che contrariamente a quel che si crede hanno grande importanza, perché danno le dimensioni del rimosso, di ciò che viene censurato dalla società. Il grande spazio bianco che, in epoca fascista, campeggia là dove dovrebbe esserci una politica sull'omosessualità, è in effetti più eloquente di mille discorsi.
Mussolini e Hitler a Berlino nel 1937. Foto ''Istituto Luce''
Mussolini e Hitler a Berlino nel 1937.

In Italia l'inserimento degli omosessuali tra i gruppi di cittadini da colpire per la "tutela della razza" avvenne palesemente per scimmiottare la Germania nazista, ma venne goffamente trapiantato su un terreno culturale del tutto incongruo. 
La decisione, frutto di un entusiasmo astratto, interferì anzi con la tradizione razzista preesistente, disturbandola, e soprattutto cozzò contro una tradizione di repressione dell'omosessualità estremamente efficace e collaudata, rischiando di intralciarla e di rivelarsi addirittura controproducente.

Il paradosso maggiore di tale decisione fu questo: definire gli omosessuali in quanto "razza", al pari degli ebrei o dei negri, significava riconoscere loro uno status di gruppo sociale, per quanto deviante e criminale. 
Ciò contraddiceva in pieno la strategia seguita fin lì dal fascismo, che a sua volta si basava su almeno un secolo di tradizione giuridica e repressiva italiana, che puntava a cancellare del tutto l'omosessualità negandole qualsiasi spazio di visibilità, fosse pure deviante.
Si spiega così il risultato modesto di questa politica: meno di 90 condanne al confino "politico" per "difesa della razza" inflitte ad omosessuali tra il 1936 e il 1939; e di queste 42 sono opera di un unico questore di Catania, Molina, che prese troppo sul serio una decisione che i suoi colleghi, per lo più, si limitarono a snobbare.

Questo "fallimento" non apparirà del tutto strano a chi noti che promulgando il Codice Rocco nel 1931 il fascismo aveva appena avuto, cinque anni prima delle leggi razziali, l'occasione di introdurre leggi anti-omosessuali in Italia. Ebbene: l'idea era stata scartata, come vedremo, proprio per non dare pubblicità al fenomeno dell'omosessualità.

Gli italiani sono troppo virili per essere omosessuali: ecco la parola d'ordine del regime... Per settant'anni gli italiani avevano ripetuto che l'omosessualità era un tipico vizio da inglesi e da tedeschi, e proprio il fascismo avrebbe dovuto confessare l'inconfessabile, e cioè che l'omosessualità esisteva perfino in Italia?

Non stupisce insomma che le leggi razziali italiane non abbiano portato con sé nessuna legge antiomosessuale: l'estensione della "politica di difesa della razza" agli omosessuali avvenne semmai per via di misure amministrative, e non per mezzo di leggi ad hoc come nella Germania nazista. In pratica ciò che avvenne fu classificare come "confinati politici" anziché come "confinati comuni" un'ottantina di omosessuali, o poco più [2]. Tutto qui.

Il confino stesso, "politico" o comune, era comminato agli omosessuali non sulla base di una legge apposita, bensì sulla base del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (promulgato con Regio decreto n. 773 il 18-6-1931) , che dava alla polizia il potere discrezionale di eliminare dalla convivenza sociale un individuo che avesse un atteggiamento "scandaloso". Per questo non era necessario un processo regolare (ne bastava uno sommario), non erano necessarie prove, in quanto le prove le doveva fornire la polizia, che proponeva il confino e la cui "parola d'onore" costituiva prova essa stessa. Bastava che la polizia affermasse che una certa persona "dava scandalo": tutto qui.

In questo modo fu facile punire quegli omosessuali che non vivevano in modo sufficientemente segreto la loro condizione. Altri metodi repressivi di cui ho trovato traccia negli archivi sono il pestaggio (normale sotto il fascismo), l'uso delle classiche bottiglie d'olio di ricino, il licenziamento se si lavorava per un ente pubblico, e molto spesso anche l'ammonizione (una specie di arresto domiciliare mitigato) sotto la sorveglianza costante della polizia [3].

Queste sono tutte forme di repressione che non passano attraverso il codice penale, e perciò non lasciano traccia, non si prestano ad essere pubblicate sui giornali, sfuggono all'attenzione degli storici, non entrano a fare parte di statistiche, sono indolori per la società... ma non ovviamente per chi ne è colpito.

Al contrario la persecuzione "razziale" degli omosessuali, laddove fu applicata con coerenza, a Catania, creò uno scandalo (sotterraneo) di tale dimensioni che persone anziane interrogate nel 1987 se ne ricordavano ancora. Non c'è dunque da stupirsi se allo scoppio della guerra il fascismo si sbarazzò alla chetichella di questa nuova, e inadeguata, strategia di persecuzione.
 

Confronto tra gorilla e razze nere, inferiori. Da ''La difesa della razza''.
Confronto tra gorilla e razze nere, inferiori. 
Da ''La difesa della razza''.


La rimozione dal corpo sociale attraverso l'arresto del singolo omosessuale troppo "chiacchierato", come il Fadigati degli Occhiali d'oro di Bassani, rafforza l'immagine sociale della "normalità". Al contrario l'improvviso arresto indiscriminato di decine di persone, in maggior parte "insospettabili" quando non sposate e con figli, minava dall'interno l'immagine della "normalità eterosessuale".

Voglio dire: se da un giorno all'altro qualunque insospettabile padre di famiglia può di colpo rivelarsi un "pederasta", qual è allora la linea di separazione fra i "normali" ed i "pederasti", che tutti i "normali" pretendono sia netta e riconoscibile?

Paradossalmente una politica repressiva di questo tipo, applicata con coerenza, finirebbe per confermare ciò che oggi affermano i movimenti di liberazione gay: che le e gli omosessuali non sono una razza a parte e tanto meno mostri, che sono persone come tutte le altre, e che omosessuale può essere chiunque: il tuo collega di lavoro, il tuo amico del cuore, tua figlia, la tua vicina di casa.

In parole povere, il razzismo nazista entrava in conflitto con il razzismo italiano (o genericamente cattolico-mediterraneo), culturalmente diverso, imponendo la scelta fra un tipo o l'altro di razzismo.

Il razzismo nazista si basava infatti sull'assunto ottocentesco secondo cui le persone omosessuali costituiscono una specie di "ritorno all'indietro" nel cammino darwiniano dell'evoluzione della specie, una "involuzione" che nel gergo scientifico dell'epoca si chiamava "degenerazione[4].

Il programma razziale nazista esigeva l'eliminazione, da quello che oggi chiameremmo "lo stock genetico" del Volk tedesco, di tutte quelle persone che, essendo "degenerate", costituivano un handicap al trionfo del popolo tedesco nella "selezione naturale" fra i popoli.

Gli ebrei, come tutti i non-ariani, erano causa di "degenerazione", e così gli zingari, gli slavi, gli omosessuali, gli handicappati. Nel pensiero razzista essere ebreo ed essere omosessuale costituiva, alla lettera, un handicap fisico, una tara genetica, per quanto invisibile: per questa ragione era logico e scientificamente ineccepibile (ovviamente dal punto di vista della scienza ottocentesca, sul quale il nazismo, come del resto anche lo stalinismo, si attardava) eliminare un ebreo o un omosessuale tanto quanto eliminare un paraplegico o un mongoloide.

Per questa via si sarebbe infine arrivati a purgare (il termine scientifico esatto è: "rigenerare") la razza tedesca da tutti i geni difettosi, accelerando in questo modo l'"inevitabile" trionfo evoluzionistico su tutte le altre razze umane.

Questo spiega perché il nazismo ampliasse (almeno in teoria) il campo di azione del paragrafo 175 del codice penale tedesco, che puniva gli atti omosessuali fra uomini. Per la visione "scientifica" del nazismo era irrilevante sapere se un omosessuale mettesse in pratica o meno i suoi desideri: egli era da eliminare dal Volk per ciò che era, e non per ciò che faceva, esattamente come un ebreo era da eliminare anche qualora fosse ateo e non rispettasse le prescrizioni rituali della tradizione giudaica.
 

Pierre et Gilles - Le triangle rose (Laurent 1993).
Questa immagine degli artisti gay Pierre e Gilles, "Le triangle rose (Laurent 1993)" commemora gli omosessuali uccisi nei lager nazisti.


Tutto ciò è lontano anni luce dal tipo di razzismo anti-omosessuale che emerge dai verbali e dai documenti a carico dei confinati politici omosessuali che ho consultato, soprattutto da quelli di Catania. Qui la mentalità degli inquirenti identifica l'omosessuale (anzi, il "pederasta") con un individuo: 

a) sessualmente passivo e che: 
b) mette in pratica tale passività subendo il coito anale.
La cosa assurda è che coloro che praticano il rapporto anale nel ruolo "attivo" non sono affatto catalogati come "pederasti", bensì come "maschi"
Questa visione emerge chiaramente dalle relazioni contro singoli imputati: gli estensori delle note affermano che l'accusato Tizio o Caio teneva comportamenti tali da "attirare i maschi", che sono quindi catalogati come gruppo separato da quello dei "pederasti".

La stessa mentalità mostra la relazione che Molina accluse al fascicolo di ognuno dei 42 accusati. In essa, lamentandosi della scandalosa visibilità che a suo dire avrebbe raggiunto la "pederastia" a Catania, si lascia scappare: "in passato (...) il pederasta e il suo ammiratore preferivano le vie solitarie". 
Da questa frase si deduce che esisterebbe una categoria di persone, gli "ammiratori di pederasti", che pur avendo rapporti omosessuali con i "pederasti" non sono "pederasti" a loro volta, e questo perché si riservano, nel coito, il ruolo del "maschio", cioè quello "attivo".

Ebbene: quali punti di contatto esistono fra la mentalità nazista che si preoccupa dei sogni e delle fantasie erotiche, e quella dei poliziotti catanesi che non catalogano come rapporti omosessuali i rapporti anali con persone dello stesso sesso qualora siano nel ruolo "attivo"?

E che dire del questore Molina che sottopone a visita medica all'ano tutti gli imputati, ottenendo certificazione del fatto che l'ano di ciascuno svela, dalla conformazione, di aver subìto sodomia?
Come conciliare con la "difesa della razza" la battaglia grottesca che si combatte a Catania con perizie e contro-perizie degli imputati per attestare la "normalità" o "anormalità" di conformazione dell'ano? (Il risultato è scontato: tutti gli imputati, nessuno escluso, furono condannati come pederasti passivi).

Il bello è che un ex-confinato, da me intervistato alcuni anni fa[5], mi rivelò che molti confinati politici catanesi non avevano mai praticato la sodomia passiva (caso mai il contrario). 
Ciò mostra fino a qual punto il pregiudizio razzista accechi. 
Ma tant'è. Il razzismo, ogni razzismo, presume e pretende di conoscere in anticipo i caratteri individuali e somatici e il valore sociale di un essere umano a partire da dati accidentali, quali la lingua che parla, la religione che professa, il sesso a cui appartiene, oppure il colore della pelle, la forma del naso o nel nostro caso la forma (vera o presunta)... dell'ano. 
Se poi (come di solito accade) i dati non confermano i preconcetti, allora (è questo il bello del razzismo) ci si limita ad ignorarli come se non esistessero o, se si può, a falsificarli come nel nostro caso.

 "Compagni" [1945 ca.]; disegno di Richard Grune, artista  internato nei lager nazisti come "triangolo rosa".


Credo che a questo punto sia evidente come il razzismo anti-omosessuale importato dalla Germania non sia riuscito ad attecchire in Italia non certo per una pretesa refrattarietà del popolo italiano al razzismo, bensì perché troppo forte e radicata si rivelò la concorrenza del preesistente razzismo autoctono, più adatto ai preconcetti della popolazione indigena.

Ecco il motivo per cui negli stessi anni in cui in Germania era già in atto la deportazione nei campi di sterminio, che costò la vita ad almeno diecimila omosessuali (ma c'è chi arriva a centocinquantamila: le cifre esatte non si sapranno mai [6]) in Italia tutti gli omosessuali inviati al confino vennero rispediti a casa incolumi, sia pure in libertà vigilata.

Il fatto è che in Germania il nazismo stroncò, affogandolo nel sangue, un mondo omosessuale strutturato, organizzato, visibile, parzialmente cosciente di sé, che si poneva come "alternativo" a quello "normale". L'Italia, per seguire la Germania su quella strada, avrebbe dovuto paradossalmente prima rendere visibile ciò che per scelta politica secolare aveva reso occulto, e poi combattere per farlo ri-diventare occulto!
Quanto poco il fascismo fosse disposto a percorrere questa irragionevole strada lo rivela l'esame a tappeto della rivista più significativa della politica razzista italiana, "La difesa della razza". In questo periodico non solo non appaiono mai, ed è già una sorpresa, articoli contro gli omosessuali; vi si arriva al punto di citare Magnus Hirschfeld (per decenni uno degli alfieri della liberazione omosessuale in Germania) attaccandolo per la sua origine ebraica, senza però nominare mai la sua militanza omosessuale, che pure era l'unico motivo per cui era celebre! Il sospetto che il fascismo italiano abbia su questo punto "censurato" i modelli nazisti, diviene così certezza.

Non avrebbe potuto essere altrimenti. Il fascismo ereditava infatti dal periodo umbertino-giolittiano una tradizione repressiva che privilegiava, fin dall'approvazione del Codice penale Zanardelli nel 1889, una repressione "morbida", una "tolleranza repressiva" (per usare la definizione di Marcuse) che ai fini pratici si è rivelata molto più efficace e vischiosa di quanto non sia stata la tradizione repressiva nordeuropea ed anglosassone in genere [7].

Il politico italiano Giuseppe Zanardelli (1826-1903)
Giuseppe Zanardelli (1826-1903)

Perché mai la classe politica italiana dell'Ottocento, di cui il fascismo era il continuatore, operò questa scelta?

La risposta è semplice: perché sapeva che in Italia esisteva già un'altra agenzia di potere a cui poteva essere affidato il controllo e la repressione dell'omosessualità: la Chiesa cattolica.

Per la classe politica liberale ottocentesca (ma anche per quella attuale, perfino a sinistra), il campo della morale, specialmente sessuale, è di "naturale" competenza della religione. La morale sessuale non riguarda lo Stato, che al più ha il dovere di intervenire solo quando l'immoralità rischia di creare turbamento all'"ordine pubblico".

Non si tratta di una innovazione. La spartizione delle aree di controllo sociale fra chiesa cattolica e Stato fu utilizzata già dallo stesso Napoleone, attraverso lo strumento del Concordato.

Quello che voglio dire è, in altre parole, che nei paesi cattolici la Chiesa garantisce la repressione e la "copertura" di quelle aree di comportamento che i codici penali lasciano volutamente "scoperte".

L'esistenza di una "divisione dei compiti" fra chi si deve occupare del "campo della morale" (cioè la Chiesa) e lo Stato, è ammessa senza difficoltà dalla classe politica italiana del secolo scorso. 
Lo stesso Zanardelli spiegò con queste parole perché il progetto del codice penale che avrebbe preso il suo nome non facesse menzione dell'omosessualità: 
 

"Se occorre da un lato reprimere severamente i fatti dai quali può derivare alle famiglie un danno evidente ed apprezzabile, o che sono contrari alla pubblica decenza, d'altra parte occorre altresì che il legislatore non invada il campo della morale
(...)

"Il Progetto tace pertanto intorno alle libidini contro natura; avvegnaché rispetto ad esse (...) riesce più utile l'ignoranza del vizio che non sia per giovare al pubblico esempio la cognizione delle pene che lo reprimono[8].

In perfetta sintonia con questa tradizione nel 1933 operò la medesima scelta anche il codice penale tuttora in vigore, il "Codice Rocco" nel quale, nonostante le proposte contrarie, l'omosessualità non è menzionata[9].

La proposta di criminalizzare l'omosessualità, spiegò Alfredo Rocco al momento di presentare il nuovo codice penale, 
 

"fu oggetto di quasi generale ostilità. Venne principalmente opposto che il turpe vizio, che si sarebbe voluto colpire, non è così diffuso in Italia da richiedere l'intervento della legge penale.

Questa deve uniformarsi a criteri di assoluta necessità nelle sue incriminazioni: e perciò nuove configurazioni di reato non possono trovare giustificazione, se il legislatore non si trovi in cospetto di forme di immoralità che si presentino nella convivenza sociale in forma allarmante. E ciò, per fortuna, non è, in Italia, per il vizio suddetto.

Queste ragioni, contrarie all'incriminazione dell'omosessualità, mi hanno convinto, e, nel testo definitivo, ho soppresso la relativa disposizione"[10].

Per concludere con le citazioni, che spero convincenti, vorrei sottoporre all'attenzione un trafiletto apparso nel 1926 su "Il popolo d'Italia", quotidiano fascista fondato da Benito Mussolini e diretto da Arnaldo Mussolini, e quindi specchio decisamente fedele, nelle sue prese di posizione, del pensiero "ufficiale" del fascismo.

Argomento è una recensione non meglio identificata, apparsa poco prima su un altro giornale, dell'epistolario di Oscar Wilde, nella quale si condannava l'Inghilterra per aver perseguitato un genio letterario di così alto livello.

L'articolo non firmato, che si intitola: Perversioni, si scaglia contro questa presa di posizione, affermando:
 

"Curiamo di mantenere pura e vigile la fortunata sanità del nostro popolo, e se ascoltiamo con piacere a teatro Il ventaglio di Lady Windermere, o ci compiaciamo per La casa del melograno o La ballata del prigioniero, dove questo mediocre poeta e scrittore di derivazione pur tocca certe note umane profonde, nei giornali italiani - che vanno per le mani di tutti - si faccia il silenzio intorno alle documentazioni epistolari di vergognose malattie, abbandonate al pubblico sotto pretesti vagamente letterarii. 
Il silenzio è l'unica forma di rispettosa pietà per il morto e di preservazione dal contagio per i vivi[11].
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Ritratto di Benito Mussolini


Di fronte a una tradizione del genere non stupisce che la persecuzione razziale degli omosessuali abbia preso alla sprovvista le autorità italiane, abituate ad una prassi repressiva "di basso profilo", così come quelle naziste erano abituate a una tradizione di repressione aggressiva ed esplicita ereditata dalla Germania pre-nazista.

Questo fu uno dei motivi per cui bastarono tre anni perché il regime si stufasse di un metodo di controllo così complicato. Il controllo occhiuto del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini risultava più efficace e meno costoso. Di confino politico per gli omosessuali il fascismo non parlò più.

In conclusione, è importante sottolineare come l'abbandono della politica fascista esplicitamente razzista contro gli omosessuali non derivasse da un improbabile atteggiamento "illuminato", bensì dall'utilizzo preferenziale di una repressione sociale talmente capillare e diffusa da rendere superfluo lo sradicamento dello stile di vita omosessuale (come avvenne in Germania sotto il nazismo) perché in Italia era (come in parte è tuttora) impossibile persino concepire l'idea di uno "stile di vita omosessuale" [12].

Si osservi che negare addirittura che un gruppo perseguitato costituisca un gruppo, è la forma più raffinata di razzismo, perché pur non rinunciando a perseguitare per la sua "diversità" chi del gruppo fa parte, si nega addirittura che egli o ella esista (in quanto membro di quel gruppo) e soprattutto che esistano le sofferenze causategli dalla persecuzione.

La difficoltà (per non dire impossibilità) di trovare documenti iconografici di epoca fascista per una mostra come quella che ospita il presente intervento, si spiega proprio con la volontà deliberata e testarda di non concedere per nessuna ragione all'omosessualità di affiorare al livello della realtà: la censura si applicava persino ai casi di cronaca nera!

Grazie a questo atteggiamento, che non è stato certo rinnegato con la caduta del fascismo, l'omosessualità è diventata, in Italia, il regno del non-detto, dei sussurri, degli eufemismi, dei giri di parole, dei volti nascosti: un mondo che c'è, però non esiste, perché non ha il diritto ad affiorare alla realtà.

Tale mentalità è purtroppo vivissima oggi, anche all'interno del mondo omosessuale (a cui io che scrivo appartengo) ed è la prima causa degli atti di violenza, di intolleranza e di discriminazione che colpiscono la comunità lesbica e gay del nostro Paese.

Quello che nascondeva lo "spazio vuoto" di cui parlavo all'inizio di questo contributo è, né più né meno, proprio questo bagaglio di violenze e sofferenze umane.

Sarebbe ora di alzare il velo una volta per tutte...

L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà eventuali errori contenuti in questa pagina.

Note
[0] Questo saggio è stato scritto per il catalogo della mostra del Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994, pp. 139-144. (Anche come, Giovanni Dall'Orto, Fascismo dimenticato, “Babilonia” n. 122, maggio 1994, pp. 72-75, privo delle note).
La bibliografia è stata aggiornata prima di metterlo online.
Successivamente ho rivisto questo saggio come: "Il paradosso del razzismo fascista verso l'omosessualità", in: Alberto Burgio (cur.), Nel nome della razza – Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 515-525 [per accordi con l'editore non posso mettere online questa versione del saggio].

[1] Nell'inchiesta sui gruppi sociali più "simpatici" e "antipatici" che da tre-quattro anni un istituto demografico rende noti annualmente ai mass-media, gli omosessuali hanno sempre conquistato il primo posto dell'"antipatia".
A chi fa presente questo dato, ancor oggi, viene di solito obiettato che "antipatia" non equivale a razzismo, e quindi gli italiani non sono razzisti verso gli omosessuali, e che poi comunque gli omosessuali non sono una razza: il che peraltro è vero. (Ma se è per questo, nemmeno ebrei o extracomunitari lo sono).
Il punto è che, razza o no, il numero di gay assassinati ogni anno a causa della violenza omofoba è in Italia superiore al numero di ebrei, extracomunitari o zingari assassinati per violenza razzista. Il fatto che questo dato, fino ad oggi, non abbia suscitato né l'interesse né la preoccupazione di nessuno, se non degli omosessuali, indica quanto sia radicato e subdolo il razzismo antiomosessuale nel nostro Paese.

[2] Ho potuto studiare, grazie all'aiuto dell'Anppia, i fascicoli di questi condannati, ed ho pubblicato i risultati negli articoli: Per il bene della razza al confino il pederasta, "Babilonia" n. 35, aprile 1986, pp. 14-17; e Credere, obbedire, non "battere", "Babilonia" n. 36, maggio 1986, pp. 13-17; inoltre: Allarmi, siamo gay, "Panorama", 20 aprile 1986, pp. 156-165. Una versione ridotta di questo studio è apparsa come: "In difesa della razza", in: Heinz Heger, Gli uomini con il triangolo rosa, Sonda, Torino 1991, pp. 161-184.
Sono anche riuscito ad intervistare un ex-confinato: Ci furono dei "femmenella" che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!, "Babilonia" n. 50, ottobre 1987, pp. 26-28. 
Lo stesso materiale è stato successivamente studiato in modo acuto e approfondito nella tesi di laurea (inedita) di Franco Goretti, Omosessuali e confino nel periodo fascista, Università "La sapienza", Roma, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1990-1991, che si è avvalsa anche di interviste alle persone coinvolte. 
Dello stesso autore si veda anche: "Catania, 1939". In: Enrico Venturelli (a cura di), Le parole e la storia, Il Cassero, Bologna 1991, pp. 120-129, sui confinati politici omosessuali di Catania.
Dario Petrosino ha poi analizzato l’ideologia che emerge dai periodici italiani in epoca fascista: Dario Petrosino, "Traditori della stirpe. Il razzismo contro gli omosessuali nella stampa del fascismo", in Razzismo italiano, a cura di Alberto Burgio e Luciano Casali, Clueb, Bologna 1996, pp. 89-107. 
Di Petrosino si veda soprattutto: Traditori della stirpe. L’immagine popolare dell’omosessualità nel ventennio fascista, Università degli studi di Bologna, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1993-1994. È la prima ricerca del genere in Italia.

[3] Si veda Luigi Salerno, Enciclopedia di polizia, Bocca, Milano 1938, alle voci "ammonizione" e "confino di polizia".

[4] Sull'argomento vedi il mio: Il concetto di degenerazione nel pensiero borghese dell'Ottocento; "Sodoma" n. 2, 1985, pp. 59-74, e oggi soprattutto l'ottima tesi di laurea, raffinata nelle analisi e illuminante nelle conclusioni, di Carola Susani: La riflessione sull'omosessualità nel tardo positivismo italiano, Università "La sapienza", Roma, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1990-1991. 

[5]Ci furono dei "femmenella" che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!, "Babilonia" n. 50, ottobre 1987, pp. 26-28.

[6] Il solo tentativo affidabile di estrapolare cifre attendibili a partire dai pochissimi dati superstiti è quello di Rüdiger Lautmann,  "Gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti" (in: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 89-100), che valuta il numero di "triangoli rosa" fra un minimo di 5.000 ed un massimo di 15.000. (In compenso Lautmann ha scoperto che il tasso di mortalità degli omosessuali nei lager sfiorava il 100%).
Queste cifre sono state criticate come eccessivamente prudenti, specie se si considerano le circa 10.000 condanne per omosessualità pronunciate ogni anno in Germania durante il periodo nazista. Lautmann, peraltro, sottolinea come non tutti i condannati finissero automaticamente nei lager; altri invece obiettano che in ambienti quali l'esercito l'omosessualità sarebbe stata punita con la morte senza processo.
In particolare, alfiere di cifre più "catastrofiche" è Massimo Consoli, autore di Homocaust, Kaos, Milano 1991. Tuttavia, secondo il mio punto di vista, non sempre Consoli vaglia con attenzione le fonti su cui basa le sue analisi: alcune sue conclusioni le trovo francamente opinabili.
Insomma: probabilmente non sapremo mai il numero esatto di omosessuali assassinati durante il periodo nazista, nonostante lo studio sia stato inaspettatamente rivoluzionato dalla caduta del Muro, che ha reso disponibili i documenti nazisti conservati a Berlino Est. L’ottima scelta di tali documenti inediti pubblicata in Günter Grau, Homosexualität in der NS-Zeit: Dokumente einer Diskriminierung und  und Verfolgung, Fischer, Frankfurt am Main 1993 (anche come: Hidden Holocaust?, Cassel, London & New York 1995) rivela che la persecuzione degli omosessuali nella Germania nazista fu più capillare ed ossessiva di quanto si fosse immaginato, ma tendenzialmente conferma le stime “prudenziali” di Lautmann.

Infine, sullo sterminio degli omosessuali nella Germania nazista si veda: Rüdiger Lautmann, Categorisation in concentration camps as a collective fate: a comparison of homosexuals, Jeovah witnesses and political prisoners, "Journal of homosexuality", XIX (1) 1990, pp. 67-88;
Jean Boisson, Le triangle rose: la déportation des homosexuels (1933-1945), Laffont, Paris 1988;
Warren Johansson e William Percy, voce “Holocaust, gay”, in Encyclopedia of homosexuality, a cura di Wayne Dynes, Garland, New York 1990, vol. 1, pp. 546-550; 
Richard Plant, The pink triangle: the Nazi war against homosexuals, Holt, New York 1986.

In italiano troviamo: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984;
Heinz Heger (pseud.), Gli uomini col triangolo rosa, Sonda, Torino 1991;
George Mosse, Sessualità e nazionalismo, Laterza, Bari 1984 e 1996;
Giulio Russo e Gianfranco Goretti (a cura di), Le ragioni di un silenzio, Ombre corte, Verona 2002.

Poiché  nel mondo accademico italiano è presente una corrente “negazionista” secondo cui gli omosessuali tedeschi non furono mai deportati nei lager nazisti, non posso non citare per finire il contributo autobiografico di Rudolf Höss, che ne parla esplicitamente:
Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1969 e 1985, pp. 79-90.

[7] Ho dedicato alla questione un saggio, che analizza anche la tradizione giuridica italiana dall'inizio dell'Ottocento ad oggi: "La 'tolleranza repressiva' dell'omosessualità", in: Arci gay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 1988, pp. 37-57.

Per una discussione delle leggi sulla morale sessuale del primo codice penale italiano si veda il fondamentale: Romano Canosa, Sesso e Stato. Devianza sessuale e interventi istituzionali nell'Ottocento italiano, Mazzotta, Milano 1981, soprattutto le pp. 101-121. 
Ottimo anche il contributo di Bruno Wanrooij, Storia del pudore, Marsilio, Venezia 1990, che analizza la battaglia culturale sul campo della sessualità nell'Italia dell'Ottocento e del primo Novecento.
Per una bibliografia dei testi giuridici e medici ottocenteschi relativi all'omosessualità rimando infine a: Giovanni Dall'Orto, Leggere omosessuale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 79-101.

[8]Camera dei Deputati, Progetto per il codice penale per il Regno d'Italia, vol. 1, Relazione ministeriale, Stamperia reale, Roma 1887, pp. 213-214. Neretto aggiunto da me.

[9] Sul Codice Rocco e la sua decisione sull'omosessualità, il dibattito che la precedette, e le basi teoriche su cui si fondò, si veda ora la citata tesi di laurea di Carola Susani. 

[10]Relazione ministeriale sul progetto di Codice Penale, II, 314. Citato in V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, UTET, Torino 1936, parte 2, p. 218.
Per altri pareri contrari all'incriminazione dell'omosessualità nel nuovo codice penale, e per una discussione generale sul periodo nazi-fascista rimando al mio: "Le ragioni di una persecuzione", in: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 101-119, specie alle pp. 115-117.

[11]Perversioni, "Il popolo d'Italia", 7 novembre 1926. Il neretto è mio.

[12] L'unico omosessuale che nei primi tre decenni del secolo cercò di ripercorrere in Italia le orme di Hirschfeld fu Aldo Mieli
Su di lui vedi: Giovanni Dall'Orto, Aldo Mieli, "Babilonia" n. 57, giugno 1988, pp. 52-54, e  l'importante contributo di Carola Susani: "Una critica della Norma nell'Italia del fascismo", in: Enrico Venturelli (a cura di), Le parole e la storia, Il Cassero, Bologna 1991, pp. 110-119, nonché la citata tesi di laurea della stessa autrice.


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