La
politica esplicitamente "razzista" del fascismo italiano contro gli omosessuali
durò tre anni (dal 1936 al 1939) ma anche nella sua brevità
l'episodio si rivela assai istruttivo per capire la mentalità che
fa ancor oggi degli omosessuali il gruppo di persone più odiato
dai cittadini italiani e maggiormente colpito dall'intolleranza [1].
In Storia esistono silenzi e "spazi vuoti" che contrariamente a quel che si crede hanno grande importanza, perché danno le dimensioni del rimosso, di ciò che viene censurato dalla società. Il grande spazio bianco che, in epoca fascista, campeggia là dove dovrebbe esserci una politica sull'omosessualità, è in effetti più eloquente di mille discorsi.
In Italia l'inserimento degli omosessuali tra i gruppi di cittadini da colpire per la "tutela della razza" avvenne palesemente per scimmiottare la Germania nazista, ma venne goffamente trapiantato su un terreno culturale del tutto incongruo.
Il paradosso maggiore di tale decisione fu questo: definire gli omosessuali in quanto "razza", al pari degli ebrei o dei negri, significava riconoscere loro uno status di gruppo sociale, per quanto deviante e criminale.
Questo "fallimento" non apparirà del tutto strano a chi noti che promulgando il Codice Rocco nel 1931 il fascismo aveva appena avuto, cinque anni prima delle leggi razziali, l'occasione di introdurre leggi anti-omosessuali in Italia. Ebbene: l'idea era stata scartata, come vedremo, proprio per non dare pubblicità al fenomeno dell'omosessualità. Gli italiani sono troppo virili per essere omosessuali: ecco la parola d'ordine del regime... Per settant'anni gli italiani avevano ripetuto che l'omosessualità era un tipico vizio da inglesi e da tedeschi, e proprio il fascismo avrebbe dovuto confessare l'inconfessabile, e cioè che l'omosessualità esisteva perfino in Italia? Non stupisce insomma che le leggi razziali italiane non abbiano portato con sé nessuna legge antiomosessuale: l'estensione della "politica di difesa della razza" agli omosessuali avvenne semmai per via di misure amministrative, e non per mezzo di leggi ad hoc come nella Germania nazista. In pratica ciò che avvenne fu classificare come "confinati politici" anziché come "confinati comuni" un'ottantina di omosessuali, o poco più [2]. Tutto qui. Il confino stesso, "politico" o comune, era comminato agli omosessuali non sulla base di una legge apposita, bensì sulla base del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (promulgato con Regio decreto n. 773 il 18-6-1931) , che dava alla polizia il potere discrezionale di eliminare dalla convivenza sociale un individuo che avesse un atteggiamento "scandaloso". Per questo non era necessario un processo regolare (ne bastava uno sommario), non erano necessarie prove, in quanto le prove le doveva fornire la polizia, che proponeva il confino e la cui "parola d'onore" costituiva prova essa stessa. Bastava che la polizia affermasse che una certa persona "dava scandalo": tutto qui. In questo modo fu facile punire quegli omosessuali che non vivevano in modo sufficientemente segreto la loro condizione. Altri metodi repressivi di cui ho trovato traccia negli archivi sono il pestaggio (normale sotto il fascismo), l'uso delle classiche bottiglie d'olio di ricino, il licenziamento se si lavorava per un ente pubblico, e molto spesso anche l'ammonizione (una specie di arresto domiciliare mitigato) sotto la sorveglianza costante della polizia [3]. Queste sono tutte forme di repressione che non passano attraverso il codice penale, e perciò non lasciano traccia, non si prestano ad essere pubblicate sui giornali, sfuggono all'attenzione degli storici, non entrano a fare parte di statistiche, sono indolori per la società... ma non ovviamente per chi ne è colpito. Al contrario la persecuzione "razziale" degli omosessuali, laddove fu applicata con coerenza, a Catania, creò uno scandalo (sotterraneo) di tale dimensioni che persone anziane interrogate nel 1987 se ne ricordavano ancora. Non c'è dunque da stupirsi se allo scoppio della guerra il fascismo si sbarazzò alla chetichella di questa nuova, e inadeguata, strategia di persecuzione.
La rimozione dal corpo sociale attraverso l'arresto del singolo omosessuale troppo "chiacchierato", come il Fadigati degli Occhiali d'oro di Bassani, rafforza l'immagine sociale della "normalità". Al contrario l'improvviso arresto indiscriminato di decine di persone, in maggior parte "insospettabili" quando non sposate e con figli, minava dall'interno l'immagine della "normalità eterosessuale". Voglio dire: se da un giorno all'altro qualunque insospettabile padre di famiglia può di colpo rivelarsi un "pederasta", qual è allora la linea di separazione fra i "normali" ed i "pederasti", che tutti i "normali" pretendono sia netta e riconoscibile? Paradossalmente una politica repressiva di questo tipo, applicata con coerenza, finirebbe per confermare ciò che oggi affermano i movimenti di liberazione gay: che le e gli omosessuali non sono una razza a parte e tanto meno mostri, che sono persone come tutte le altre, e che omosessuale può essere chiunque: il tuo collega di lavoro, il tuo amico del cuore, tua figlia, la tua vicina di casa. In parole povere, il razzismo nazista entrava in conflitto con il razzismo italiano (o genericamente cattolico-mediterraneo), culturalmente diverso, imponendo la scelta fra un tipo o l'altro di razzismo. Il razzismo nazista si basava infatti sull'assunto ottocentesco secondo cui le persone omosessuali costituiscono una specie di "ritorno all'indietro" nel cammino darwiniano dell'evoluzione della specie, una "involuzione" che nel gergo scientifico dell'epoca si chiamava "degenerazione" [4]. Il programma razziale nazista esigeva l'eliminazione, da quello che oggi chiameremmo "lo stock genetico" del Volk tedesco, di tutte quelle persone che, essendo "degenerate", costituivano un handicap al trionfo del popolo tedesco nella "selezione naturale" fra i popoli. Gli ebrei, come tutti i non-ariani, erano causa di "degenerazione", e così gli zingari, gli slavi, gli omosessuali, gli handicappati. Nel pensiero razzista essere ebreo ed essere omosessuale costituiva, alla lettera, un handicap fisico, una tara genetica, per quanto invisibile: per questa ragione era logico e scientificamente ineccepibile (ovviamente dal punto di vista della scienza ottocentesca, sul quale il nazismo, come del resto anche lo stalinismo, si attardava) eliminare un ebreo o un omosessuale tanto quanto eliminare un paraplegico o un mongoloide. Per questa via si sarebbe infine arrivati a purgare (il termine scientifico esatto è: "rigenerare") la razza tedesca da tutti i geni difettosi, accelerando in questo modo l'"inevitabile" trionfo evoluzionistico su tutte le altre razze umane. Questo spiega perché il nazismo ampliasse (almeno in teoria) il campo di azione del paragrafo 175 del codice penale tedesco, che puniva gli atti omosessuali fra uomini. Per la visione "scientifica" del nazismo era irrilevante sapere se un omosessuale mettesse in pratica o meno i suoi desideri: egli era da eliminare dal Volk per ciò che era, e non per ciò che faceva, esattamente come un ebreo era da eliminare anche qualora fosse ateo e non rispettasse le prescrizioni rituali della tradizione giudaica.
Tutto ciò è lontano anni luce dal tipo di razzismo anti-omosessuale che emerge dai verbali e dai documenti a carico dei confinati politici omosessuali che ho consultato, soprattutto da quelli di Catania. Qui la mentalità degli inquirenti identifica l'omosessuale (anzi, il "pederasta") con un individuo: a) sessualmente passivo e che:La cosa assurda è che coloro che praticano il rapporto anale nel ruolo "attivo" non sono affatto catalogati come "pederasti", bensì come "maschi". Questa visione emerge chiaramente dalle relazioni contro singoli imputati: gli estensori delle note affermano che l'accusato Tizio o Caio teneva comportamenti tali da "attirare i maschi", che sono quindi catalogati come gruppo separato da quello dei "pederasti". La stessa mentalità
mostra la
relazione che Molina accluse al fascicolo di ognuno dei 42 accusati.
In essa, lamentandosi della scandalosa visibilità che a suo dire
avrebbe raggiunto la "pederastia" a Catania, si lascia scappare: "in
passato (...) il
pederasta e il suo ammiratore preferivano le vie solitarie".
Ebbene: quali punti di contatto esistono fra la mentalità nazista che si preoccupa dei sogni e delle fantasie erotiche, e quella dei poliziotti catanesi che non catalogano come rapporti omosessuali i rapporti anali con persone dello stesso sesso qualora siano nel ruolo "attivo"? E che dire del questore Molina che sottopone a visita medica all'ano tutti gli imputati, ottenendo certificazione del fatto che l'ano di ciascuno svela, dalla conformazione, di aver subìto sodomia?
Il bello è
che un ex-confinato, da
me intervistato alcuni anni fa[5],
mi rivelò che molti confinati politici catanesi non avevano mai
praticato la sodomia passiva (caso mai il contrario).
Credo che a questo punto sia evidente come il razzismo anti-omosessuale importato dalla Germania non sia riuscito ad attecchire in Italia non certo per una pretesa refrattarietà del popolo italiano al razzismo, bensì perché troppo forte e radicata si rivelò la concorrenza del preesistente razzismo autoctono, più adatto ai preconcetti della popolazione indigena. Ecco il motivo per cui negli stessi anni in cui in Germania era già in atto la deportazione nei campi di sterminio, che costò la vita ad almeno diecimila omosessuali (ma c'è chi arriva a centocinquantamila: le cifre esatte non si sapranno mai [6]) in Italia tutti gli omosessuali inviati al confino vennero rispediti a casa incolumi, sia pure in libertà vigilata. Il fatto è che in Germania il nazismo stroncò, affogandolo nel sangue, un mondo omosessuale strutturato, organizzato, visibile, parzialmente cosciente di sé, che si poneva come "alternativo" a quello "normale". L'Italia, per seguire la Germania su quella strada, avrebbe dovuto paradossalmente prima rendere visibile ciò che per scelta politica secolare aveva reso occulto, e poi combattere per farlo ri-diventare occulto!
Non avrebbe potuto essere altrimenti. Il fascismo ereditava infatti dal periodo umbertino-giolittiano una tradizione repressiva che privilegiava, fin dall'approvazione del Codice penale Zanardelli nel 1889, una repressione "morbida", una "tolleranza repressiva" (per usare la definizione di Marcuse) che ai fini pratici si è rivelata molto più efficace e vischiosa di quanto non sia stata la tradizione repressiva nordeuropea ed anglosassone in genere [7]. Giuseppe Zanardelli (1826-1903) Perché mai la classe politica italiana dell'Ottocento, di cui il fascismo era il continuatore, operò questa scelta? La risposta è semplice: perché sapeva che in Italia esisteva già un'altra agenzia di potere a cui poteva essere affidato il controllo e la repressione dell'omosessualità: la Chiesa cattolica. Per la classe politica liberale ottocentesca (ma anche per quella attuale, perfino a sinistra), il campo della morale, specialmente sessuale, è di "naturale" competenza della religione. La morale sessuale non riguarda lo Stato, che al più ha il dovere di intervenire solo quando l'immoralità rischia di creare turbamento all'"ordine pubblico". Non si tratta di una innovazione. La spartizione delle aree di controllo sociale fra chiesa cattolica e Stato fu utilizzata già dallo stesso Napoleone, attraverso lo strumento del Concordato. Quello che voglio dire è, in altre parole, che nei paesi cattolici la Chiesa garantisce la repressione e la "copertura" di quelle aree di comportamento che i codici penali lasciano volutamente "scoperte". L'esistenza di una "divisione dei compiti" fra chi si deve occupare del "campo della morale" (cioè la Chiesa) e lo Stato, è ammessa senza difficoltà dalla classe politica italiana del secolo scorso.
In perfetta sintonia con questa tradizione nel 1933 operò la medesima scelta anche il codice penale tuttora in vigore, il "Codice Rocco" nel quale, nonostante le proposte contrarie, l'omosessualità non è menzionata[9]. La proposta di criminalizzare l'omosessualità, spiegò Alfredo Rocco al momento di presentare il nuovo codice penale,
Per concludere con le citazioni, che spero convincenti, vorrei sottoporre all'attenzione un trafiletto apparso nel 1926 su "Il popolo d'Italia", quotidiano fascista fondato da Benito Mussolini e diretto da Arnaldo Mussolini, e quindi specchio decisamente fedele, nelle sue prese di posizione, del pensiero "ufficiale" del fascismo. Argomento è una recensione non meglio identificata, apparsa poco prima su un altro giornale, dell'epistolario di Oscar Wilde, nella quale si condannava l'Inghilterra per aver perseguitato un genio letterario di così alto livello. L'articolo non firmato, che si intitola: Perversioni, si scaglia contro questa presa di posizione, affermando:
Di fronte a una tradizione del genere non stupisce che la persecuzione razziale degli omosessuali abbia preso alla sprovvista le autorità italiane, abituate ad una prassi repressiva "di basso profilo", così come quelle naziste erano abituate a una tradizione di repressione aggressiva ed esplicita ereditata dalla Germania pre-nazista. Questo fu uno dei motivi per cui bastarono tre anni perché il regime si stufasse di un metodo di controllo così complicato. Il controllo occhiuto del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini risultava più efficace e meno costoso. Di confino politico per gli omosessuali il fascismo non parlò più. In conclusione, è importante sottolineare come l'abbandono della politica fascista esplicitamente razzista contro gli omosessuali non derivasse da un improbabile atteggiamento "illuminato", bensì dall'utilizzo preferenziale di una repressione sociale talmente capillare e diffusa da rendere superfluo lo sradicamento dello stile di vita omosessuale (come avvenne in Germania sotto il nazismo) perché in Italia era (come in parte è tuttora) impossibile persino concepire l'idea di uno "stile di vita omosessuale" [12]. Si osservi che negare addirittura che un gruppo perseguitato costituisca un gruppo, è la forma più raffinata di razzismo, perché pur non rinunciando a perseguitare per la sua "diversità" chi del gruppo fa parte, si nega addirittura che egli o ella esista (in quanto membro di quel gruppo) e soprattutto che esistano le sofferenze causategli dalla persecuzione. La difficoltà (per non dire impossibilità) di trovare documenti iconografici di epoca fascista per una mostra come quella che ospita il presente intervento, si spiega proprio con la volontà deliberata e testarda di non concedere per nessuna ragione all'omosessualità di affiorare al livello della realtà: la censura si applicava persino ai casi di cronaca nera! Grazie a questo atteggiamento, che non è stato certo rinnegato con la caduta del fascismo, l'omosessualità è diventata, in Italia, il regno del non-detto, dei sussurri, degli eufemismi, dei giri di parole, dei volti nascosti: un mondo che c'è, però non esiste, perché non ha il diritto ad affiorare alla realtà. Tale mentalità è purtroppo vivissima oggi, anche all'interno del mondo omosessuale (a cui io che scrivo appartengo) ed è la prima causa degli atti di violenza, di intolleranza e di discriminazione che colpiscono la comunità lesbica e gay del nostro Paese. Quello che nascondeva lo "spazio vuoto" di cui parlavo all'inizio di questo contributo è, né più né meno, proprio questo bagaglio di violenze e sofferenze umane. Sarebbe ora di alzare il velo una volta per tutte... L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà eventuali errori contenuti in questa pagina. |
Note
[0] Questo saggio è stato scritto per il catalogo della mostra del Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994, pp. 139-144. (Anche come, Giovanni Dall'Orto, Fascismo dimenticato, “Babilonia” n. 122, maggio 1994, pp. 72-75, privo delle note). La bibliografia è stata aggiornata prima di metterlo online. Successivamente ho rivisto questo saggio come: "Il paradosso del razzismo fascista verso l'omosessualità", in: Alberto Burgio (cur.), Nel nome della razza – Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 515-525 [per accordi con l'editore non posso mettere online questa versione del saggio]. [1] Nell'inchiesta sui gruppi sociali più "simpatici" e "antipatici" che da tre-quattro anni un istituto demografico rende noti annualmente ai mass-media, gli omosessuali hanno sempre conquistato il primo posto dell'"antipatia".
[2] Ho potuto studiare, grazie all'aiuto dell'Anppia, i fascicoli di questi condannati, ed ho pubblicato i risultati negli articoli: Per il bene della razza al confino il pederasta, "Babilonia" n. 35, aprile 1986, pp. 14-17; e Credere, obbedire, non "battere", "Babilonia" n. 36, maggio 1986, pp. 13-17; inoltre: Allarmi, siamo gay, "Panorama", 20 aprile 1986, pp. 156-165. Una versione ridotta di questo studio è apparsa come: "In difesa della razza", in: Heinz Heger, Gli uomini con il triangolo rosa, Sonda, Torino 1991, pp. 161-184.
[3] Si veda Luigi Salerno, Enciclopedia di polizia, Bocca, Milano 1938, alle voci "ammonizione" e "confino di polizia". [4] Sull'argomento vedi il mio: Il concetto di degenerazione nel pensiero borghese dell'Ottocento; "Sodoma" n. 2, 1985, pp. 59-74, e oggi soprattutto l'ottima tesi di laurea, raffinata nelle analisi e illuminante nelle conclusioni, di Carola Susani: La riflessione sull'omosessualità nel tardo positivismo italiano, Università "La sapienza", Roma, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1990-1991. [5]Ci furono dei "femmenella" che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!, "Babilonia" n. 50, ottobre 1987, pp. 26-28. [6] Il solo tentativo affidabile di estrapolare cifre attendibili a partire dai pochissimi dati superstiti è quello di Rüdiger Lautmann, "Gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti" (in: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 89-100), che valuta il numero di "triangoli rosa" fra un minimo di 5.000 ed un massimo di 15.000. (In compenso Lautmann ha scoperto che il tasso di mortalità degli omosessuali nei lager sfiorava il 100%).
Infine, sullo sterminio degli omosessuali nella Germania nazista si veda: Rüdiger Lautmann, Categorisation in concentration camps as a collective fate: a comparison of homosexuals, Jeovah witnesses and political prisoners, "Journal of homosexuality", XIX (1) 1990, pp. 67-88;
In italiano troviamo: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984;
Poiché nel mondo accademico italiano è presente una corrente “negazionista” secondo cui gli omosessuali tedeschi non furono mai deportati nei lager nazisti, non posso non citare per finire il contributo autobiografico di Rudolf Höss, che ne parla esplicitamente:
[7] Ho dedicato alla questione un saggio, che analizza anche la tradizione giuridica italiana dall'inizio dell'Ottocento ad oggi: "La 'tolleranza repressiva' dell'omosessualità", in: Arci gay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 1988, pp. 37-57. Per una discussione delle leggi sulla morale sessuale del primo codice penale italiano si veda il fondamentale: Romano Canosa, Sesso e Stato. Devianza sessuale e interventi istituzionali nell'Ottocento italiano, Mazzotta, Milano 1981, soprattutto le pp. 101-121.
[8]Camera dei Deputati, Progetto per il codice penale per il Regno d'Italia, vol. 1, Relazione ministeriale, Stamperia reale, Roma 1887, pp. 213-214. Neretto aggiunto da me. [9] Sul Codice Rocco e la sua decisione sull'omosessualità, il dibattito che la precedette, e le basi teoriche su cui si fondò, si veda ora la citata tesi di laurea di Carola Susani. [10]Relazione ministeriale sul progetto di Codice Penale, II, 314. Citato in V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, UTET, Torino 1936, parte 2, p. 218.
[11]Perversioni, "Il popolo d'Italia", 7 novembre 1926. Il neretto è mio. [12] L'unico omosessuale che nei primi tre decenni del secolo cercò di ripercorrere in Italia le orme di Hirschfeld fu Aldo Mieli.
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