Scritto sui muri. Graffiti di Pompei ed omosessualità
[da "Babilonia" n. 99, aprile 1992, pp. 64-66]
di: Giovanni Dall'Orto
Negli ultimi giorni del 2020 è stata annunciata con grande (e meritato) rilievo la scoperta a Pompei di un thermopolium (un bar / "tavola calda") con un "graffito" che accusa un Nicia di essere un "rottinculo cagone" (Nicia cinaede cacator), o forse meglio, come direbbero oggi a Napoli, "rottinculo caga-cazzo".
Approfitto
dell'occasione per riproporre un mio studio sulle scritte sui muri di
Pompei a carattere omosessuale (ed ovviamente omofobico) che proposi
nel 1992 sulla rivista gay "Babilonia".
Un articolo di Francesco Lepore sulla scoperta può essere letto qui.
"Pareva che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra. Dal lato opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco, si apriva in vasti bagliori di incendio: erano simili a fulmini, ma ancora più estesi.
Ci eravamo appena seduti, che scese la notte: non come quando non c'è luna o il cielo è nuvoloso, ma come quando ci si trova in un locale chiuso a lumi spenti. Udivi i gemiti delle donne, le grida dei bambini, il clamore degli uomini... Molti alzavano le braccia agli dèi, altri più numerosi dichiaravano che non c'erano più dèi e che quella era l'ultima notte del mondo".
Agosto dell'anno 79 dopo Cristo: Plinio il Giovane, diciottenne, si trova con la famiglia alle pendici del Vesuvio, mentre a poca distanza si compie una tragedia: in poche ore Pompei, Ercolano e Stabia vengono sepolte dall'eruzione del Vesuvio.
Plinio sopravvisse per raccontare la sua avventura (sono sue le parole appena citate) e le tre cittadine, nascoste sotto uno strato di lapilli, fango e ceneri, sono sopravvissute fino ai nostri giorni, conservate in modo così perfetto da consentirci di curiosare nella vita quotidiana di millenovecento anni fa attraverso gli oggetti, i dipinti, le scritte sui muri...
Sì, perché Pompei brulica di scritte sui muri. La tentazione che oggi spinge molti a scarabocchiare un messaggio qualsiasi era già nota ai nostri avi del 79 d.C. Buon sangue non mente.
Le scritte appaiono dappertutto e parlano di tutto un po'. Le pareti della città morta ci restituiscono graffi paralleli incisi nell'intonaco di una taverna per tenere il conto di chissà quale calcolo, o versi di Virgilio, passando attraverso il "tifo" per questo o quel gladiatore. Non manca nemmeno la propaganda elettorale che, non essendo ancora inventati i manifesti, veniva scritta su ogni angolo di muro disponibile.
A tal punto arrivava la grafomania, che qualche cittadino scriveva a sua volta sui muri di casa, pregando i passanti di non scarabocchiarli (lui diceva scariphare). Inoltre in più luoghi si è scoperto uno spiritoso distico latino che tradotto dice: "Mi stupisco, o parete, che non sia ancora crollata, tu che devi "reggere" le noiosaggini di tanti scrittori".
Fra le scritte conservate molte parlano d'amore e sesso. Anzi, forse sarebbe più corretto dire "di sesso e amore", visto che delle loro prodezze erotiche i nostri avi scrivevano ben volentieri. Il volume quarto (su Pompei) del Corpus inscriptionum latinarum, che è la raccolta di tutte le scritte latine che conosciamo, brulica di vanterie amorose (i numeri di scritta che io indico rimandano a questa raccolta).
"Tizio scopi bene" è la formula ripetuta mille volte con mille nomi diversi, quasi che miriadi di fanciulle, soddisfatte da orgasmi eccezionali, percorressero giorno e notte la città a decantare le prodezze erotiche degli amanti. Invece si trattava di una "pubblicità per se stesso" scribacchiata dal diretto interessato, e che nasconde una realtà sessuale certo squallidina. Significative di tale squallore sono le scritte in cui gli uomini di Pompei si gloriano di aver fatto l'amore con... una prostituta, arrivando magari a specificare quanto hanno pagato!
Come se non bastasse, i pompeiani avevano la piccante abitudine di fare sesso (verosimilmente di notte) nel primo angolino disponibile (spesso in due o tre con una sola donna), per poi contrassegnare il luogo della (suppongo) "sveltina" con un'iscrizione a memoria eterna. Ecco ad esempio la scritta 2450: "Il giorno 11 delle calende di dicembre Epafra, Acuto ed Aucto condussero in questo luogo la prostituta Tyche; il prezzo fu di 5 assi a testa" (come dire: non due assi a testa con "sconto comitiva").
Più
telegraficamente: "Primigenio con Lupo, qui" (Primigenius
cum Lupo hic,
3500; cfr. 2249, 4795, 4828). Ciò significa che i due amici hanno
pagato assieme una prostituta e l'hanno usata in quel luogo, come
rivela la scritta 2450 appena citata, e non che l'hanno fatto l'uno
con l'altro, come si è detto finora. Per la mentalità antica non si
fa l'amore assieme
a un'altra persona: la si possiede
oppure ci si fa possedere.
Il rapporto fra pari, di "Tizio con Caio", è estraneo a
questa mentalità.
Inoltre dire di "averlo fatto" senza
specificare "cosa" esponeva al rischio di vedersi accusare
di essere un cinedo
o un pàtico
(come vedremo fra poco) se passivo, o di essere un pédico
se attivo.
Non è perciò un
caso se le uniche scritte omosessuali della serie "turistica"
non solo sono beffarde, ma non fanno nomi: "Quinzio qui ha
fottuto gli sculettanti e ha visto che ha fatto male" (Quintio
hic futuit ceventes et vidit qui (sic) doluit,
4977), "Bellico qui ha fottuto un tale" (quendam,
2247). "Placido qui ha fottuto chi gli è parso" (quem
voluit,
2265).
Se esaminiamo le scritte che la nominano espressamente, la prima cosa che salta agli occhi è che le più comuni sono, proprio come oggi, gli insulti.
La concezione che dell'omosessualità avevano gli abitanti di Pompei è infatti, secondo il nostro modo di giudicare, piuttosto ipocrita. L'amore fra uomini era diffuso, come dimostra anche l'esistenza di prostituti che "esercitavano" alla luce del sole. Eppure chiunque accettasse il ruolo "passivo" nell'atto omosessuale veniva insultato coi nomi di cinaedus (che vale "omosessuale effeminato e passivo"), fellàtor (il nostro "pompinaro"), pàthicus (il nostro "rotto in culo") ed altri ancora. "Ovviamente" queste parole compaiono spesso sui muri di Pompei.
L'omosessuale "attivo" era meno disprezzato, ma anche per lui c'era un insulto: pedico ("inculatore").
È facile capire come, con tante malelingue pronte a colpire (e a scrivere), l'uomo libero omosessuale di Pompei dovesse essere molto discreto, o accontentarsi di avventure con schiavetti o prostituti. Nessuno avrebbe tollerato che un giovane libero e cittadino fosse "usato" come soggetto passivo in un rapporto omosessuale. Ma "per fortuna" (del libero) schiavi e stranieri abbondavano.
È chiaro insomma
che la mentalità ristretta di allora poneva una quantità di
ostacoli al libero esercizio dell'amore omosessuale, nonostante
quanto si legge in molti articoli e libri sull'omosessualità a Roma,
troppo ottimistici.
Ma vediamo cosa ci
raccontano i muri pompeiani dei pregiudizi dei nostri avi.
Come si è
detto, gli abitanti della cittadina non avevano la mano leggera nel
vergare insulti sugli intonaci.
"Secondo lo succhia" e "Vittore pompinaro", proclamano le scritte 1284 e 1708. "Secondo cinedo", fa eco la 1772. E poi via, in una ridda di accuse reciproche: "Febo lo succhia" (1850), "Ismeno pompinaro" (2169 e 2170, cfr. 4580), "Febo inculatore" (Phoebus pedico, 2194), "Lattario cinedo" (2332), "Ianuario (cioè "Gennaro") cinedo" (2334, cfr. 3114, 4703 e 5156), "Ampliato, Icaro ti incula. Firmato: Salvio" (Ampliate Icarus te pedicat. Salvius scripsit, 2375), "Geniale cinedo" (2409, in una taverna), "Albano è un cinedo" (4917, cfr. 4082), "Crescente è un cinedo sputtanato" (o meglio: "un prostituto pubblico": Crescens publicus cinaedus, 5001), "Tolomeo succhi l'uccello" (5278, con tanto di disegno esplicativo), "Il cavaliere Cosmo è un gran cinedo e pompinaro" (1825), e persino "Narciso è il più gran pompinaro di tutti" (Narcissus fellator maximus, 1825a).
E guai a non fare attenzione alla mala lingua degli amici! Si rischiava di vedere spuntare accanto alla porta di un bordello una scritta come la 2400-additio, che dice: "Fuori dalla porta Saturo non vuole leccare la figa, ma oltrepassata la porta prega te, Arpocrate, affinché gli lecchi l'uccello". E se manca Arpocrate? Niente paura: i "cari amici" l'hanno previsto, aggiungendo in fondo: "o un pompinaro qualsiasi" (at fellator quid).
Un altro "caro
amico", incapace di tenere la boccaccia chiusa, (ma sarà
davvero lui?) proclama a tutta la città: "Vitalio s'è inculato
Vesbino cinedo" (Vesbinus
cinedus Vtialo (sic) pedicavit,
2319b). Un altro si vanta: "Secondo s'è inculato i ragazzini"
(o "gli schiavi", il che è lo stesso) "di Lucente"
(Secundus
pedicavd
(sic) pueros
Lucentis,
2048).
Del resto Stratone di Sardi (Antologia
Palatina,
XII 179) non ha forse spiegato che sì, aveva promesso di non
rivelare di "essersi fatto" Teudi, ma di non esserci
riuscito perché in fondo "che gioia c'è se la fortuna è
segreta?".
E se poi tu stavi zitto ma qualcuno si accorgeva che avevi un debole per un ragazzo, rischiavi di vederti sputtanare da scritte sfottenti come la 1881: "Virgola" (cioè "cazzettino") "fa lo scostumato con il suo Terzo" (Virgula Tertio suo indecens est) o la 1655: "Ragazzino Isocriso, ti saluta l'uccello di Natale" (Hysocryse puer, Natalis verpa te salutat).
E non solo dagli
amici bisognava guardarsi. Lo dimostrano la scritta 4201, che dice
Giulio
cinedo,
e la 4206, che afferma: "Elèno vecchio cinedo". Il
bersaglio delle scritte era Giulio Eleno, insegnante: i graffiti sono
nel locale in cui faceva scuola!
Non fai in tempo a insegnare a
scrivere ai ragazzini, che quelli ne approfittano!
Persino il tifo sportivo era occasione di insinuazioni sulla virilità altrui. Non essendo ancora di moda il calcio, il tifo si esprimeva in dichiarazioni pro o contro questo o quel gladiatore. Così il gladiatore Felix si vede dare del "pompinaro" a più riprese (1869, 3200). Come non pensare alle scritte sui muri delle nostre città in cui i tifosi delle varie squadre si accusano a vicenda di essere "froci" o, peggio ancora..."gay"?
Nonostante la
monotona ripetitività di insulti e insinuazioni, non mancano le
variazioni sul tema, fra cui un antenato del nostro "asino chi
legge", che in latino suona più villanamente: "rotto in
culo chi legge" (pedicatus
qui legit,
1798).
Un impertinente ha
sentenziato nella scritta 4008: "Scopa le donne chi ha scritto
questo, si fa inculare chi leggerà" (Amat
qui scribit, pedicatur qui leget).
Un passante ha però ribattuto, sotto la scritta: "Chi insulta ha
pruriti al culo" (qui
obscultat
(sic) prurit),
aggiungendo poi incoerentemente: "Lo piglia dietro chi passa qui
davanti" (paticus
est qui praeterit).
A sigillo di tutto una firma, che potrebbe essere anche un vanto:
"Firmato: l'inculatore Settimio" (scribit
pedicator Septumius).
Una "capa fresca" prorompe addirittura in un grido d'impazienza: "Voglio fottere in culo!" (pedicare volo, 2210). Al che una manina sentenziosa aggiunse: "L'abbiamo notato" (vidimus hoc, 2211).
C'è persino chi si
diverte a comporre sui muri calembours
beffardi sul tema.
Giocando sul doppio senso della parola latina
accensum
("soldato ausiliario" e participio passato del verbo
"accendere", cioè: "acceso"), qualcuno ha
scritto questa bruciamte massima filosofica: "Chi incula un
accensum
si ustiona l'uccello" (accensum
qui pedicat urit mentulam,
1882).
Gli tiene bordone il goliardo che ha scritto 3932, di cui si
conservano solo parole sparse, in cui si riesce però a leggere un:
"Piangete ragazze: incula (...) figa superba addio".
E se qualcuno
(iscrizione 346) prova a scrivere una protesta contro i graffiti:
"E questo ama, e quello si fa amare: io trovo il tutto noioso",
subito lo punisce lo scarabocchiatore ignoto che con "logica"
impeccabile gli fa notare: "chi trova tutto noioso, ama".
E con questo chiudiamo coi buontemponi e passiamo al commercio.
Queste scritte ci
rivelano quale ruolo giocasse il denaro nella vita sessuale dei
nostri antenati.
Ecco insomma l'altra faccia della sessualità antica, quella
fatta di miseria e sopraffazione, che non trova spazio nelle delicate
composizioni d'amore dei poeti latini per un ragazzo che studiamo a scuola.
Leggendole oggi si
tende a dimenticare troppo spesso che esse furono quasi sempre
scritte per uno schiavetto o una "marchetta", che "ci
stava" solo nella speranza di migliorare (o almeno, non peggiorare) la sua
condizione di vita. Del resto, quante volte i poeti si lamentano
della rapidità con cui gli amati, di fronte a regali più
consistenti dei loro, si fiondano nelle braccia di un altro!
Gli schiavi di Pompei prostituiti da un mezzano potevano sperare solo nelle "mance" dei clienti per mettere da parte il gruzzolo necessario a comprare la libertà. Due assi non erano però una gran cifra, e con una clientela di quel livello era difficile che le mance fossero consistenti. Una libbra d'olio (320 grammi) costava infatti quattro assi, mezzo chilo di pane poco meno di un asse, un pezzo di formaggio uno o due assi. La razione giornaliera di pane per il mantenimento di uno schiavo costava due assi, per l'appunto, e cinque assi erano a Pompei la paga quotidiana di un manovale a giornata.
Pochissimi
prostituti potevano contare su una clientela sufficientemente ricca
da concedere "mance" significative: per gli altri la
libertà restò sempre un sogno irraggiungibile.
La situazione era
stata così descritta due secoli prima, dal punto di vista dello
schiavo bambino o adolescente, nello Pseudolus commediografo Plauto:
Per Plauto e per i
cinici spettatori romani queste lamentele erano solo buffe e
divertenti. Per noi invece sono la testimonianza della violenza e
dell'inumanità sottintesa dalle "sublimi" invocazioni dei
poeti latini per questo o quello schiavetto.
Fin qui il sesso. E l'amore?
A dire il vero, di fronte a tanto parlare di sesso, la voce di chi parla d'amore suona flebile e soffocata. Eppure è proprio sui muri di Pompei che furono scoperti i famosissimi versi: "Gli amanti, come le api, vivono una vita di miele": erano graffiti sull'intonaco di un edificio che da loro ha preso il nome di "Casa degli amanti".
Comunque sia, benché rare (si vede che già allora l'amore omosessuale "non osava dire il suo nome") le scritte che parlano d'amore fra uomini non sono assenti.
Ecco ad esempio le 1812 e 1813, che proclamano al mondo: "Cesio Fedele ama Mecone di Nocera". E la simpatica 4447: "Fonticulo" ("Fontanella": un soprannome? Allusione a una storiella che oggi non conosciamo più?) "manda tanti saluti al suo pesciolino" (Fonticulus pisciculo suo plurima salut...).
La scritta 5013, Pupius, quasi certamente è solo un nome, ma potrebbe anche significare un tenero "bambolino".
Ieri come oggi l'amore nasceva e moriva: ce lo ricorda, mescolando un vezzeggiativo che rivela intimità ed un insulto, la scritta 4485 (Hectice pupe, vale mercator tibi dicit: hectice è traslitterazione del greco ektikòs): "Bambolotto tisico, il mercante ti dice: sta' bene" (cioè: "addio").
Non tutti erano così
diretti. L'autore della scritta 2179 (in greco traslitterato)
proclama: "Paride è bello" (Calos
Paris,
2179).
Le scritte di kalòs
furono comuni nell'antica Grecia: gli innamorati le usavano per
espriemere la passione per l'amato. Anche se non è escluso che
questa se la sia scritta da solo Paride...
Il documento d'amore
più bello che ci è rimasto mi pare comunque una poesia (purtroppo
incompleta) al numero 5092. Tra l'altro vi si legge un delizioso
errore (uno iamus,
"andiamo", usato per due volte al posto del corretto
"eamus")
che ci mette di fronte al diretto antenato del napoletano "iamme!".
Tanto per non scordare che Pompei è in Campania.
Il testo dice: "Se pure tu sentissi le fiamme d'amore, mulattiere,/ ti affretteresti di
più, per vedere Venere. / Io amo un giovane delizioso: ti prego,
sprona i muli e andiamo. / Hai bevuto ormai: andiamo, impugna le
redini e scuòtile; / portami giù a Pompei, dove dolce è
l'amore. / Tu sei il mio..."
A questi versi fan eco quelli in 4971, anch'essi ahimè incompleti: "Se l'amore significa qualcosa, se ti sai umano, / abbi compassione di me, concedimi di venire, / fiore di Venere, a me...".
Nonostante la
brutalità delle scritte che abbiamo visto sopra, insomma, anche a
Pompei trovavano spazio sentimenti delicati, fremiti di innamoramenti
maschili.
Questo accadeva nonostante il fatto che - in una società
che non riusciva ad accettare amori fra uomini adulti della stessa
classe sociale - la vita non fosse certo facile già allora per chi
si innamorava del suo commilitone, o del vicino di casa...
Fine agosto del 79 dopo Cristo. Sulla distesa fumante di ceneri e lapilli che ha cancellato Pompei, e con lei più di mille persone, si aggirano come fantasmi i superstiti e i parenti dei morti. Arrancano fra i pochi muri sbocconcellati che spuntano qua e là dal terreno, scavano cercando i corpi, tentano di recuperare almeno quanto stava al secondo piano delle case. Preziose statue di bronzo, suppellettili, persino le colonne del Foro vengono strappate alla terra prima di abbandonare le rovine.
Fra i gruppetti che si muovono in mezzo alla distesa spettrale, bianca e grigia, c'è anche un ebreo, o un cristiano, a cui quella desolazione ricorda un avvenimento che ben conosce. Da bravo pompeiano sente il bisogno di lasciare traccia del suo pensiero scrivendolo su un muro.
Senza immaginare che quella scritta (la 4976) sarebbe stata letta dopo due millenni, né che i discendenti dei pagani in futuro l'avrebbero capita al volo. Perché sono solo due parole, ma dalla sinistra eco fin troppo nota anche a noi.