Siamo arrivati al momento attuale [1986].
L'onorevole Rodotà ci ha appena ricordato come negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili sia avanzato grazie a processi esemplari, che hanno fatto scalpore e hanno stabilito un precedente.
Un alto dirigente del "Fuori!" torinese mi ha detto qualche anno fa (e non stava scherzando): "In Italia ci vorrebbe una bella legge contro l'omosessualità o un'Anita Bryant, così il movimento gay diventerebbe fortissimo". È un paradosso (perché oggi abbiamo sì un movimento gay debolino, ma fortunatamente nessuna Anita Bryant!), però ha un fondo di verità.
Per chiudere il discorso, vorrei porre alcuni interrogativi sul movimento gay italiano e la situazione attuale [del 1986]. Di recente ho sentito fare molto chiasso attorno all'ex articolo 28 del codice militare, di cui alcuni di noi hanno chiesto l'abrogazione, senza peraltro inserire la loro richiesta in una riflessione generale sull'esercito, né su quella che è la vita di un omosessuale in un'istituzione così patologicamente antiomosessuale, fallocratica, maschilista ecc. Nel corso di questa bagarre io ho avuto l'impressione che il nostro movimento gay stesse banalmente cercando di scimmiottare gli americani: "siccome lo fanno loro, dobbiamo farlo anche noi". Senza tener conto di questo nostro secolo di storia così diversa dalla loro, senza tenere conto del fatto che noi abbiamo una tradizione che è esattamente agli antipodi di quella statunitense. La nostra subalternità al modello "stelle-e-strisce" è un sintomo di sterilità, ma anche di una sfaticataggine (mi si perdoni il termine) imperdonabile. Creare una cultura nuova significa infatti anche studiare, leggere, riflettere; fino ad oggi però la cultura è stata l'ultima preoccupazione del movimento gay, che per risparmiare fatica ha preferito importare "già fatte" da oltreoceano le sue parole d'ordine, per quanto inadeguate. Ad esempio ho sentito alcuni di noi rivendicare il "diritto" all'adozione per le coppie omosessuali, quando in Italia non sono sicuramente le coppie adottive che mancano: ce ne sono venti per ogni bambino in stato di adottabilità. È davvero possibile che noi siamo così stupidi da non sapere che l'adozione non è mai stata un diritto per nessun adulto, né etero né omosessuale? Io stento a crederlo. L'adozione è un diritto del bambino ad avere una famiglia che lo segua e lo curi: è un diritto civile del bambino, non dell' adulto. In America, dove quello di "foster parent" è un mestiere come un altro, può avere senso protestare: lì si tratta soprattutto di una questione di discriminazione sul posto di lavoro.
Fino a quando la coppia omosessuale sarà bersaglio di preconcetti e di uno stigma sociale, non avrà senso il rifilare a un bambino abbandonato, che ha già avuto per conto suo una collezione di traumi non indifferente, l'ulteriore problema di essere "il figlio dei culattoni". Quanta leggerezza e quanta mancanza di serietà stia alla base di proposte come questa lo rivela il fatto che quando gli americani parlano di "coppia gay" parlano di una realtà di cui hanno discusso senza remore per dieci anni, consacrandole almeno due voluminosi studi sociologici.
Proposte di questo tenore servono insomma solo a nascondere i problemi autentici che già esistono: ad esempio quello della custodia o del diritto di visita dei figli in caso di divorzio, quando uno dei genitori sia omosessuale. Esiste già almeno un precedente, di cui hanno parlato i giornali qualche anno fa, di una madre lesbica che si è vista negare la custodia dei figli proprio perché era lesbica.
C'è la questione dell'accesso all'inseminazione artificiale per chi non fa parte di una coppia sposata, ad esempio una lesbica. Esistono i problemi delle convivenze di fatto, che in nessun modo sono riconosciute dalla legge. Come pensano i nostri sventatelli di proporre l'adozione da parte di una coppia di omosessuali, se poi da un punto di vista legale tale coppia non esiste? Cominciamo col discutere del riconoscimento delle convivenze di fatto, ai pargoletti penseremo in un secondo momento. Se proprio si sente un grande vuoto nella propria vita, esiste la soluzione dell'affido, che per la legge italiana può essere fatto anche da un individuo singolo.
Ecco, qui i gay potrebbero sfruttare il loro "handicap" momentaneo trasformandolo in un vantaggio, in modo da proporsi come "avanguardia" verso una cultura dell'infanzia che sia per l'infanzia, e non creata per titillare gli egoismi dell'adulto.
La conclusione che vorrei trarre dal mio discorso è questa. Non facciamoci illusioni sul fatto che le difficoltà di rapporto tra omosessuali e Stato nascano da un'arretratezza culturale del solo Stato. L'arretratezza culturale dello Stato c'è ed è enorme, ma non è questo il solo punto della questione. Il fatto è che il "patto non scritto" stilato nell'Ottocento ha, come tutti i patti, più di un contraente: da una parte c'è sì lo Stato, ma dall'altra ci sono pur sempre gli omosessuali.
Eppure se si vogliono rimescolare le carte, bisogna anche tenere conto del fatto che non sempre è possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. Oggi abbiamo un movimento gay, anche un Arcigay, in cui la pratica della furbizia, del piccolo cabotaggio e dell'ipocrisia è tutt'altro che sparita.
Farla finita con queste ridicole schizofrenie, con la cultura rancida che ancora ammorba l'Arcigay, è la condizione indispensabile per continuare la nostra battaglia. Non possiamo più permetterci il lusso di non capire che se ripetiamo allo Stato che l'"omosessualità non esiste", o che è solo "una costruzione sociale" artificiale, non solo non gli proponiamo una "provocazione rivoluzionaria", ma non facciamo altro che ripetergli quello che lui ci va dicendo da un secolo e mezzo. Cambiare è necessario, ma cambiare noi, se vogliamo che anche lo Stato cambi. Non è pensabile che gli omosessuali siano riconosciuti come "soggetto sociale", quando certi militanti dell'Arcigay non hanno neppure il coraggio di essere riconosciuti come... omosessuali. E cosa mai dovrebbe "riconoscere" allora lo Stato: un'entità metafisica? Oggi i nostri nemici parlano un linguaggio stranamente simile al nostro.
Forse la stretta assonanza fra le più "audaci" teorizzazioni del movimento gay e le più retrive argomentazioni dei nostri avversari non è dovuta all'improvvisa conversione dei nostri nemici in sostenitori. Forse si tratta di una nostra adesione - non proprio conscia - alla loro visione del mondo. Non sarebbe il caso di rifletterci sopra?
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Note
[33] Nota aggiunta nel 2003: queste considerazioni sono oggi superate, ma le mantengo come documentazione storica sul dibattito di quel periodo.
[34] Carla Guglielmi, E tu non sei gay ma uomo, "Madre", gennaio 1987, pp. 30-32.
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