Due sonetti d'amore
per Lano [circa 1285-1288] [1]
Dugento
scodelline di diamanti
di bella
quadra Lan vorre' ch'avesse,
e dodici
usignuo', ch'ognuno stesse
davant'a
lui faccendo dolzi canti, |
Duecento scodelline
di diamanti,
di bella qualità,
vorrei avesse Lano[2],
e dodici usignoli,
che stessero tutti
davanti a lui
cantando dolcemente, |
e cento
milia some di bisanti,
e tutte
quelle donne ch'e' volesse,
e sì
vorre' ch'a schacch'ogn'uom vincesse,
dandoli
rocchi e cavalier innanti. |
e centomila
carichi di monete d'oro,
e tutte le
donne che volesse,
e che a scacchi
vincesse sempre,
colpendo senza
essere colpito [3]. |
E
sì vorre' la ritropia 'n balìa
avesse quelli,
a cui tant'ho donato
in parore,
ch'in fatti non porìa. |
E poi vorrei
che la pietra d'elitropia
l'avesse
lui, a cui a parole ho donato
tanto,
quanto nei fatti non potrei. |
Ché
del senno, che 'n lui aggio trovato
con la bellezza,
ben se li avveria;
e tanto
più, quanto li fosse 'n grato. |
Perché
il senno che ho trovato in lui
bene
si accorderebbe con la bellezza;
e tanto più,
quanto più io gli fossi gradito. |
Giùgiale
di quaresima a l'uscita,
e sùcina
fra l'entrar di febbraio,
e mandorle
novelle di gennaio
mandar vorre'
io a Lan ch'è gioi' compita; |
Giùggiole
alla fine della quaresima,
e
susine all'inizio
di febbraio,
e
mandorle novelle a gennaio [4]
vorrei
mandare a Lano, ch'è perfetta gioia; |
ch'i'
l'amo più che nessun uom la vita,
ed e' mi
tien per suo e sono e paio:
ed e' se
ne potrebbe avveder naio;
e a lui
vado, com'a la calamita |
che
io amo più che ciascuno la vita,
e lui mi considera
suo, e lo sono e appaio:
se ne potrebbe
accorgere un cieco!
Sono attratto
da lui come da calamita [5] |
va lo ferro,
che è naturaltade:
Amor comanda,
e così vòl che sia,
ched i'
faccia per la sua gran beltade, |
è attratto
il ferro, che è cosa naturale:
Amore comanda,
e così vuol che sia,
che io faccia
per la sua gran bellezza, |
ch'è
tanta che contar non si poria;
ma non dico
così de la bontade
né
del senno, per ciò ch'i' mentiria. |
che è
tanta che non si potrebbe esprimere;
mentre non
posso dire lo stesso della bontà
né del
senno, se no mentirei. |
.
Cimabue,
Il bacio di Giuda, 1280 circa. Dettaglio rielaborato.
Quattro sonetti omoerotici
attribuiti [sec. XIII] [6]
"Udite udite,
dico a voi, signori,
e fate motto,
voi che siete amanti:
avreste
voi veduto, tra cotanti,
cotal c'ha
'l volto di tre be' colori? |
"Udite,
udite, dico a voi, signori [7],
e rispondete,
voi, che amate:
avreste mai
veduto, fra tutti,
un simile volto
di tre bei colori? [8]. |
Di
ros'e bianch'e vermigli' è di fuori;
or lo mi
dite, ch'i' vi son davanti,
sed elli
inver di me fé tai sembianti,
ched i'
potessi aver que' suo colori". |
Rosato, bianco
e rosso è il suo viso.
Ma ditemi ora,
che vi son davanti,
se con me si
comportò così da farmi
sperare di
godere mai di quei suoi colori". |
"Noi
non crediam che li potessi avere,
però
ched e' non fece ta' sembianti,
che fosse
ver' di te umiliato". |
"Noi non crediamo
che tu li possa avere,
perché
non s'è mai comportato in modo
da mostrare
soggezione amorosa verso te". |
"Sed
e' nol fece, i' mi pongo a giacere
e comincio
a far ta' sospiri e pianti,
che 'n quattro
di' cred'esser sotterrato". |
"Se non l'ha
fatto, mi metto a letto
e comincio
a fare tali sospiri e pianti
che in quattro
giorni penso sarò sepolto". |
"I' so'
non fermo in su questa oppenione
di non amar,
a le sante guagnele,
uomo che
sia inver di me crudele,
non abbiendo
egli alcuna cagione; |
Io ho maturato
questa decisione
di non amare,
per i santi Vangeli!,
uomo che sia
crudele con me,
senza averne
alcun motivo; |
ma questo
dico, sanza riprensione,
di non servirti,
né sarò fedele,
poi che
di dolce mi vòi render fele:
failti tu,
ma non ne hai ragione. |
ma
questo dico, senza biasimo:
non
ti servirò, né ti sarò fedele,
poiché
vuoi rendermi amaro per dolce:
sei
tu a causarlo, e non ne hai ragione. |
Da ch'i'
conosco la tua sconoscenza,
che ricredente
tu contra me fai,
vogli'arrestare
di te mai servire. |
Da quando conosco
la tua ingratitudine,
che tu, spregevole,
rivolgi contro me,
voglio smetterla
di servirti. |
Per la qual
cosa i' crederei 'nsanire,
se tu non
n'avessi gran<de> penitenza,
con essa
avendo grandissimi guai. |
Perciò
mi sembrerà d'impazzire finché
tu non ne avrai
gran pentimento,
che ti causi
grandissimi lamenti. |
.
Giotto,
Santo Stefano, 1320 circa (rielaborato).
Un Corzo
di Corzan m'ha sì trafitto,
che non
mi val cecèrbita pigliare,
né
dolci medicine né amare,
né
otrïaca che vegna d'Egitto. |
Un
Corso di Corsano
m'ha tanto trafitto
che non mi
serve prendere cicérbita
né medicine
dolci o amare
né triaca
importata dall'Egitto. |
E
ciò che Galien ci lasciò scritto
aggio provato
per voler campare:
tutto m'è
gocciol<'una> d'acqua in mare,
tanto m'ha
'l su' velen nel mie cor fitto. |
E i rimedi
tramandati da Galeno
li ho provati
per sopravvivere,
ma è
tutto come goccia d'acqua nel mare:
tanto lui m'ha
avvelenato il cuore. |
Là
'nd'i' son quasi al tutto disperato,
<da>poi
ched e' non mi val null'argomento;
a questo
porto Amor m'ha arrivato; |
Per
ciò sono quasi del tutto disperato
poiché
non mi giova alcun rimedio:
a questo porto
Amore m'ha sbarcato! |
ché
son quell'uom, che più vivo sgomento,
che si'
nel mondo o che mai fosse nato:
chi me n'ha
colpa di terra sia spento. |
E
sono l'uomo che vive angosciato più
di chiunque
sia al mondo, o sia mai nato:
possa morire
chi ne ha la colpa! |
In tale
che d'amor vi passi 'l core,
abbattervi
possiate voi, ser Corso,
e sì
vi pregi vie men ch'un vil torso
e come tòsco
li siate in amore; |
In
qualcuno, che vi trafigga il cuore, possiate imbattervi voi, ser Corso [9],
e vi sprezzi
come un vile torsolo
e in amore
gli sembriate veleno; |
e
facciavi muggiare a tutte l'ore
del giorno,
come mugghia bue od orso,
e, come
l'ebbro bee a sorso a sorso
il vin,
vi facci ber foco e martore. |
e vi faccia
muggire ad ogni ora
del giorno,
come muggisce bue od orso,
e, come l'ubriaco
beve a sorso a sorso
il vino, vi
faccia bere fuoco e tormento. |
E
se non fosse ch'i' non son lasciato,
sì
mal direi, e vie più fieramente,
al vostro
gaio compagno e avvenente |
E
se non fosse che non ci riesco [10],
direi altrettanto
male, e più aspramente,
al vostro compagno
allegro ed avvenente, |
che
di bellezze avanza ogni uom nato;
ma sì
mi stringe l'amor infiammato,
che verso
lui ho sparto
per la mente. |
la cui bellezza
supera quella di chiunque;
ma mi stringe
<ancora> l'amore infiammato
che per lui
ho sparso nella mente. |
L'autore
ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori
dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà
eventuali errori in essa contenuti.
|
Note
[1]
Il testo è stato ricopiato da: Mario Marti (cur.), Poeti
giocosi del tempo di Dante, Rizzoli, Milano 1959, pp. 292-293.
La parafrasi
in italiano moderno è mia.
(Su Muscia si
veda: Anna Bruni Bettarini, Le rime di Meo dei Tolomei e di Muscia da
Siena, "Studi di filologia italiana", XXXII 1974, pp. 31-98,
e Antonio Lanza (cur.) Cecco Angiolieri, Le rime, Izzi, Roma 1990,
pp. 257-268).
Dei sei sonetti
d'amore omosessuale di Nicola Muscia da Siena che qui presento, solo il
primo ci è giunto con l'esplicita attribuzione a lui (di cui, a
parte quanto è detto nei sonetti, nulla sappiamo).
I sei sonetti
sono un piccolo canzoniere d'amore d'un uomo del Duecento che canta un
altro uomo. Sono quindi un documento raro e prezioso,
anche se la stilizzazione delle poesie le rende poco diverse da
quelle, contemporanee, di tema eterosessuale.
Musa da Siena
è, fra
i poeti omoerotici del Duecento, quello la cui "omosessualità"
(come la chiameremmo oggi) è più probabile: com'è
evidente, Muscia oltrepassa i confini dell'espressione amicale per entrare
in quella amorosa.
Inoltre è
probabilmente il Muscia citato come sodomita nella composizione:
"Le favole, compar", di Iacomo
(o Granfione) de' Tolomei (seconda
metà sec. XIII - prima del 1290), che paragona ai personaggi delle
favole alcuni senesi dell'epoca; fra essi un "ser Lici" orco, che "divora
i ragazzi", e un Muscia "strega, ch'è fatto, d'om, gatta, / e
va di notte e poppa le persone" (capace di trasformarsi in gatta, per
girare di notte e succhiarlo agli uomini - muscia in senese stava
per micia).
Si noti la deliberata
falsificazione di una apgina web (ormai offline) che affermava: "Il
diamante è il dono d’amore per eccellenza dell’uomo alla donna,
come scrive il poeta Muscia da Siena (XIII secolo), il quale, in un impeto
di generosità sentimentale, desidera recare alla amata sua:
“dugento scodelline di diamanti, di bella quadra”.
Questo è
il modo in cui la presenza omosessuale nella storia viene semplicemente
cancellata, sistematicamente, anche su dettagli innocui e irrilevanti.
[2].È
stato proposto d'identificare questo Lano con il Lano
da Siena che Dante cita in Inferno
XIII, 120: "da identificarsi con Arcolano di Squarcia Maconi, di
dantesca memoria, che morì il 26 giugno 1288 (...), già
membro della brigata spendereccia senese" (così Lanza, Op.
cit., p. 259).
[3]
Riuscendo nella mossa "torre in faccia al cavallo", che permette di colpire
senza essere colpito.
[4]
Si tratta ovviamente di "primizie" impossibili in Natura.
[5]
Si noti come Muscia descriva orgogliosamente la sua attrazione come
frutto di "naturaltade", quanto quella tra calamita e ferro.
Nelle sue poesie, insomma, mi pare di individuare anche un elemento di
autogiustificazione, nonché una rivendicazione.
[6]
Da: Cecco Angiolieri, Rime, a cura di Antonio Lanza, Archivio Izzi,
Roma 1990.
Nicola Muscia
è un poeta le cui poesie hanno avuto, fino a pochi anni fa, l'onore
d'essere confuse con quelle di Cecco
Angiolieri.
I quattro sonetti
giocosi qui presentati, già attribuiti all'Angiolieri,
poi ad anonimi, sono stati ultimamente dati a Muscia (ma non in
modo unanime). Lanza è tra coloro che si dicono certi della
paternità di Muscia.
[7]
Il poeta finge un "botta e risposta" con gli astanti.
[8]
I "tre colori" del volto sono ricorrenti nella poesia stilnovista.
[9]
Questo sonetto e il seguente riguardano un certo ser Corso: il primo
farebbe pensare che Corso sia amato dal poeta, ma il secondo capovolge
la situazione: Corso è il rivale che cerca di portare via un "compagno
gaio e avvenente" amato dal poeta. Sono quindi due sonetti di gelosia,
non d'amore, cosa che spiega l'uso dei moduli del "vituperium" del
secondo.
[10].Mario
Marti, Op. cit., p. 243, spiega così: "Che io non
sono stato abbandonato dal compagno", ma mi pare psicologicamente poco
plausibile. |