Da: Barbara Strozzi, Cantate,
ariette e duetti [1651] [1]
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Lamento.
Sul Rodano severo [2].
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Lamento.
Sul Rodano Severo [2].
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Sul Rodano
severo
giace, tronco infelice,
di Francia il gran scudiero,
e s'al corpo non lice
tornar di ossequio pieno
all'amato Parigi,
con la fredd'ombra almeno
il dolente garzon segue
Luigi. |
Lungo la riva
del Rodano severo [a Lione]
giace, infelice corpo senza
testa,
il Gran
Scudiero di Francia,
e se il corpo non può
più
tornare, pieno d'ossequio,
all'amata Parigi,
almeno con il freddo fantasma
l'addolorato ragazzo segue
Luigi
XIII. |
Enrico
il bel, quasi annebbiato sole,
delle guance vezzose
cangiò le rose
in pallide viole
e di funeste brine
macchiò l'oro
del crine.
Lividi gl'occhi son,
la bocca langue,
e sul latte del sen diluvia
il sangue. |
Henri
de Cinq-Mars il bello, come un sole annebbiato,
il colore delle belle guance
cambiò da quello
delle rose a quello di pallide viole
e con funeste brine
macchiò l'oro dei
capelli.
Gli occhi sono lividi, la
bocca langue,
e sul candore del petto
diluvia il sangue. |
"Oh
Dio, per qual cagione",
par che l'ombra gli dica,
"sei frettoloso andato
a dichiarar un perfido,
un fellone,
quel servo a te sì
grato,
mentre, franzese Augusto,
di meritar procuri
il titolo di giusto? |
"Oh
Dio, per quale ragione",
sembra dirgli il fantasma,
"hai frettolosamente
dichiarato un traditore,
un fellone,
quel servo a te così
gradito,
mentre tu, Augusto francese
cerchi di meritare
il titolo di Giusto? |
Tu,
se 'l mio fallo di gastigo è degno,
ohimè, ch'insieme
insieme
dell'invidia che freme
vittima mi sacrifichi
allo sdegno. |
Tu,
anche se la mia colpa è degna di castigo,
ohimè, sotto l'effetto
dell'invidia fremente
fai di me una vittima sacrificale
allo sdegno. |
Non mi chiamo innocente:
purtroppo
errai, purtroppo
ho me stesso tradito
a creder all'invito
di fortuna ridente. |
Non mi dichiaro innocente:
purtroppo
ho sbagliato, purtroppo
ho tradito me stesso
credendo all'invito
della sorte ridente. |
Non mi chiamo innocente:
grand'aura di favori
rea la memoria fece
di così stolti
errori,
un nembo dell'obblio
fu la cagion del precipizio
mio. |
Non mi dichiaro innocente:
un gran vento di favori
rese colpevole la memoria
di così stolti errori,
una nuvola di oblio
fu la ragione del mio crollo. |
Ma che dic'io? Tu, Sire
- ah, chi nol vede?
tu sol, credendo troppo
alla mia fede,
m'hai fatto in regia
corte
bersaglio dell'invidia
e reo di morte. |
Ma che dico? Tu, Sire -
ah, chi non lo vede? -
tu solo, credendo troppo
alla mia fedeltà
mi hai reso, nella tua regale
Corte,
bersaglio dell'invidia e
meritevole di morte. |
Mentre al devoto collo
tu mi stendevi quel cortese
braccio,
allor mi davi il crollo,
allor tu m'apprestavi
il ferro e 'l laccio.
Quando meco godevi
di trastullarti in solazzevol
gioco [3],
allor l'esca accendevi
di mine cortigiane al
chiuso foco.
Quella palla volante
che percoteva il tuo
col braccio mio [4]
dovea pur dirmi, oh Dio,
mia fortuna incostante.
Quando meco gioivi
di seguir cervo fuggitivo,
allora
l'animal innocente
dai cani lacerato
figurava il mio stato,
esposto ai morsi di accanita
gente. |
Mentre intorno al devoto
collo
tu mi stendevi quel benigno
braccio,
allora mi spingevi al crollo,
allora mi preparavi la mannaia
e il cappio.
Quando godevi con me
trastullandoti in un bel
gioco divertente [3],
allora accendevi la miccia
di mine dei cortigiani,
dal fuoco invisibile.
Quella palla volante
che percuoteva ora il tuo
braccio ora il mio [4]
avrebbe dovuto dirmi, oh
Dio,
quanto fosse incostante
la mia fortuna.
Quando ti divertivi assieme
a me
inseguendo un cervo fuggitivo,
allora
l'animale innocente
lacerato dai cani
simboleggiava il mio stato,
esposto ai morsi di gente
accanita. |
|
Philippe de Champaigne:
Luigi XIII, re di Francia.
|
Non condanno il mio re, no,
d'altro errore
che di soverchio amore. |
|
Le Nain: Henri d'Effiat,
marchese di Cinq-Mars.
|
Non condanno il mio re, no,
per nessun altro errore,
se non per eccessivo amore. |
Di cinque marche illustri
notato era il mio nome [5],
ma degli emoli miei l'insidie
industri
hanno di traditrice alla
mia testa
data la marca sesta. |
Da cinque marchi illustri
era caratterizzato il mio
cognome [5],
ma le insidie instancabili
dei miei rivali
hanno dato alla mia testa
il sesto marchio: quello
di traditrice. |
Ha l'invidia voluto
che, se colpevol sono,
escluso dal perdono
estinto ancora immantinente
io cada;
col mio sangue ha saputo
de' suoi trionfi imporporar
la strada. |
L'invidia ha voluto
che, sia pure colpevole,
ma escluso dal perdono,
io cadessi morto senza alcun
indugio;
e col mio sangue ha saputo
ricoprire di porpora la
strada dei suoi trionfi. |
Nella grazia del mio
re
mentre in su troppo men
vo,
di venir dietro al mio
pie'
la fortuna si stancò,
Onde ho provato, ahi
lasso,
come dal tutto al niente
è un breve passo." |
Quando ero nelle grazie
del mio re,
mentre io salivo troppo
in alto,
di venire dietro al mio
piede
la sorte si stancò,
per cui ho avuto la prova,
oh povero me,
di come dal tutto al niente
ci sia solo un breve passo". |
Luigi, a queste note
di voce che perdon supplice
chiede,
timoroso si scuote
e del morto garzon la
faccia vede. |
Luigi, a queste parole
di una voce che supplice
chiede perdono,
timoroso si scuote
e vede il volto del ragazzo
morto. |
Mentre il re col suo
pianto
delle sue frette il pentimento
accenna [6]
tremò Parigi e
torbidossi Senna. |
Mentre il re col suo pianto
fa trasparire il pentimento
per la sua fretta eccessiva [6],
tremò Parigi e s'intorbidì
la Senna. |
L'autore ringrazia fin d'ora
chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone,
luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà
eventuali errori in essa contenuti.Eventuale dida |
Note
[1]
Il testo da: Barbara
Strozzi, Cantate, ariette, e duetti, Gardano, Venezia 1651,
(Opus 2), n. 17.
Non l'ho ricopiato direttamente
dal testo originale ma dalla ripubblicazione che ne appare su diversi siti
online, e siccome ciascuno contiene refusi di scansione, ne ho fatto una
collazione.
L'autore del testo (che
potrebbe essere uno qualsiasi dei molti intellettuali che la Strozzi frequentava:
si è fatto il nome di Gian Francesco Loredan) non è indicato.
La parafrasi in italiano moderno è mia.
Il fatto
a cui si riferisce la cantata avvenne nel 1642, quindi è
ipotizzabile che essa risalga a quell'anno, ed abbia atteso la pubblicazione
fino al 1651, e poi ancora nel 1654.
Di questa cantata c'è
stata conservata la splendida musica di Barbara
Strozzi. Se ne trova almeno
un paio d'esecuzioni su Youtube.
Sulla
cantata si veda la mia intervista a Roberto
Gini, Classicamente gay, "Babilonia" n. 46, giugno 1987, pp. 24-26.
Sulla
presenza di tematiche omosessuali nella musica classica si
veda inoltre qui.
[2]
La cantata lamenta l'esecuzione capitale (avvenuta a Lione nel 1642) di
Henri d'Effiat, marchese di Cinq-Mars (1620-1642), Gran Scudiero
di Francia, nonché amante
di re Luigi XIII.
Montatosi la testa per i
continui onori e privilegi ottenuti dal re, Enrico aveva cercato di prendere
il posto del cardinale
di Richelieu, che era stato il suo tutore e lo aveva spinto a 18 anni
nelle braccia del re, sperando di poterlo meglio controllare attraverso
il ragazzo-giocattolo che aveva allevato.
Accortosi però del
fatto che il ragazzo (ormai 22enne) giocava in proprio e non a suo favore,
Richelieu aveva iniziato ad ostacolarlo.
Da qui la decisione di Cinq-Mars
di partecipare alla pasticciata congiura che puntava all'eliminazione di
Richelieu, alla sostituzione del re con il fratello Gastone
d'Orléans, nonché alla pace con la Spagna a condizioni
sfavorevoli, in cambio di una congrua "pensione" annua per i tre principali
congiurati (fra i quali Cinq-Mars).
Scoperti dalle spie di Richelieu,
i congiurati furono immediatamente processati e giustiziati, ad eccezione
del fratello del re.
[3]
Qui è palese (per quanto si poteva esserlo in piena Controriforma!)
una maliziosa allusione alla relazione sessuale fra i due.
[4]
Nel gioco della pallavolo.
[5]
Frigido gioco di parole sul titolo di Cinq-Mars (cinque-marchi).
[6]
Ad essere sinceri è stato tramandato che il re ebbe tutt'altro atteggiamento,
forse perché ormai stanco delle continue scenate e pretese, e i
continui capricci del suo regale amante, o più verosimilmente perché
disgustato dall'ingratitudine clamorosa di chi aveva tramato per farlo
fuori.
Si dice infatti che all'ora
dell'esecuzione capitale Luigi XIII abbia detto: "Vorrei proprio vedere
la smorfia che starà facendo a quest'ora su quel patibolo" (Je
voudrais bien voir la grimace qu'il fait a cette heure sur cet echafaud).
Ma si sa, le cantate d'amore
hanno i loro sentimenti convenzionali... |