Home page Giovanni Dall'Orto > Saggi di storia gayBiografie di personaggi gay > Testi originali > Sec. XIX > Anonimo

Anonimo (1891)

dimensioni h 170 x largh 132
Domenico Abbo stupra il nipote.
 
Da: Mastro Titta, il boia di Roma  [1891] [1].
LXXXVI. 
Un’orgia nel palazzo del Cardinale nepote 

I favori di Gregorio XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all'antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita. 

Egli rinnovava nel palazzo stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli spilli nelle carni de' giovinetti pazienti [2], che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture. 

Le notizie di tali dissolutezze si diffondevano intanto per Roma ed eccitavano gli sdegni dei cittadini. Nelle sfere superiori si era più corrivi e tolleranti. Ma a lungo andare lo scandalo, facendosi sempre più grave, si dovette richiamare sovr'esso l'attenzione del cardinale, perché provvedesse a farlo cessare, e questi ripetutamente ammonì lo zio, affinché tornasse a vita morigerata e tranquilla, almeno nelle apparenze. 

Sulle prime don Domenico Abbo si scusò, si disse vittima di bel nuovo della calunnia de' suoi invidi, e promise di non offrir loro altri pretesti. Ma poi, sempre più imbaldanzito dai suoi successi, rispose al nipote arrogantemente, gli ricordò le turpitudini medicee e farnesi [3], e conchiuse che la Santa Chiesa, se sopportava l'onta di un cardinale eunuco 
[4], come lui, aveva ben diritto di essere compensato da uno zio del cardinale, capace di surrogarlo nelle sue deficienze. 
Il cardinale giudicò ormai necessario di liberarsi da quel sozzo prete, che disonorava così ignominiosamente il suo carattere e la casa che lo ospitava e decise di coglierlo in fallo, per giustificare le severe misure che aveva ideato di prendere contro di lui.

Avvertito una notte che nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti dal tempio. 
Se ne stava il sibarita cenando allegramente in compagnia di due baldracche ed era mezz'ebbro, quando il cardinale comparve sulla porta del salotto. 
— Benvenuto, nipote mio! — sorse a dire l’Abbo non appena lo vide, senza punto scomporsi: ce n’è anche per voi. Abbiamo dei tartufi del Perigord, capaci di ridar vigore a un morto. Questo vino spremuto dai grappoli, indorati dal sole della Sciampagna, vi infonderà spirito allegro e frizzante. Queste due Maddalene, non per anco convertite e che spero avranno il buon gusto di non convertirsi mai, avrebbero domato le ribellioni delle carni dell'anacoreta Sant'Antonio. Io metto tutto ciò a vostra disposizione, eminentissimo, perché vogliate farmi l'onore di sedere alla mia mensa, come io siedo quotidianamente alla vostra. Venite, venite, cardinal nipote. So che godete fama di illibato, ma questo non vi nuocerà. Si è sempre a tempo a peccare, come a far atto di contrizione. 

Il cardinale rimase esterefatto da tanta audacia. Egli avrebbe voluto ritirarsi, per evitare una scena disgustosa. Ma ormai non era più a tempo. Pensò convenirgli mostrarsi mite per il momento e disse: 

— Don Domenico avrei bisogno di parlarvi.

— Subito, eminenza. Favorite.

— Devo intrattenervi sopra argomenti che non richiedono la presenza di testimoni.

— Come vi piace.

— Rimandate quelle... signore.

— Ben volentieri. Sono ben educato. Vedrete. 

E così dicendo buttò una borsa di scudi alle due donne, le quali si levarono prontamente da tavola, ricomposero i loro vestimenti discinti, e buttati sulle spalle i mantelli presero la via della porta. 

— Giacomo, Giacomo! — gridò il prete, e tosto un servo giovane ed imberbe, che fungeva da di lui cinedo [5] comparve.

— Accompagna queste signore — disse — e non tornare. Per questa notte hai licenza.

Una prodezza di Domenico Abbo, secondo Mastro Titta: dopo aver stuprato una donna, la lega al letto e fugge indossandone gli abiti. 
Illustrazione di Clair Guyot per un'edizione del XIX secolo. Tratta dalla rivista "Pantazaria" n. 1, 1966, p. 39.
Non appena donne e garzone se ne furono andati, l'Abbo si alzò, mosse incontro al cardinale e prendendolo per mano lo costrinse a farsi presso alla tavola tuttora imbandita, gli disse con piglio ironico: 

— Eccoci soli, eminenza, ora non avrete più a temere che il vostro pudore ne soffra detrimento. Sedete. 

Il cardinale severo, ma non accigliato, poiché si era proposto di evitare qualsiasi chiasso, dopo avere aderito all'invito, disse lentamente: 

— Vi pare don Domenico, che queste scene cui mi fate assistere, sieno tollerabili, nel palazzo di un principe della Chiesa?

— Se ne son viste di peggiori.

— Altri tempi, altri costumi.

— Tutti i tempi sono buoni per giocondarsi l'esistenza; è tanto breve.

— Vi ho già tante volte richiamato all'esercizio de' vostri doveri.

— Dove mai ho mancato, eminenza?

— E osate chiederlo? 

— Certamente che l'oso, dal momento che so di aver sempre e col maggiore scrupolo adempito alle mansioni affidatemi.

— Non si tratta di ciò. 

— E di che dunque.

— Del vostro carattere di sacerdote, per dio!

— Eminenza siete male informato sul conto mio. Il mio confessionale è il più frequentato e le più belle dame di Roma, e più cospicue per censo e per nascita, fanno a gara, per avermi a direttore spirituale, a guida sullo spinoso sentiero della vita.

— Non miscere sacra profanis! — sentenziò il porporato per evitare una risposta diretta. 

— Quando io diffondo dal pergamo la parola di Dio, la gente affolla il tempio. Sono chiamato in tutte le case, ove s'ha bisogno di spargere i balsami della consolazione. Spesso sono costretto a disertare la vostra tavola, per accorrere a quella d'altri principi della Chiesa. Che più? Sua Santità mi vede di buon occhio. 

— Tanto di buon occhio, che è appunto da lui che fui esortato a liberarmi di voi. 

— A liberarmi di me? 

— Precisamente. 

— Ah! Papa ubbriacone, così corrispondi alle mie piacevolezze. Oh! ma mi sentirà. 

— Voi vi guarderete bene d'andare da Sua Santità. 

— Ci andrò sicuro. Ogni suddito ha diritto di ricorrere al suo legittimo sovrano. 

— Non v'andrete, perché sareste arrestato ipso facto. 

— Non sarebbe la prima volta veramente. 

— Ho piacere che lo ricordiate. 

— Anch'io, perché mi rammenta la vostra bontà eminenza. 

Ingannato da queste parole, che parevano sincere, il Cardinale credete di poter proceder oltre con tutta coscienza e riprese: 

— Voi lascerete domani questo palazzo. 

— Siete il padrone, vi obbedirò. 

— E vi ritirerete nel convento dei Domenicani, per passarvi sei mesi d'espiazione. 

— Questo poi no. 

— Tali sono gli ordini di Sua Santità. 

Don Domenico Abbo, si versò un calice di vino sciampagna spumeggiante e lo bevve centellinandolo: quindi, forbendosi le labbra, esclamò: 

— Squisito! Scommetto che se papa Gregorio XVI fosse qui, non ne rifiuterebbe un bicchiere, come fate voi, troppo rigido nipote. 

— Pensereste di farmi testimonio delle vostre orgie? 

— Nepote mio, scusate, ma io non vi ho chiamato, e avrei proprio fatto di meno della vostra compagnia, perché ne avevo altra, come avete veduto, se non più interessante, più dolce. 

— Vergognatevi! 

— Di che? di seguire le leggi della natura? Giammai! Si vergogni chi pretende contraddirle. 

— Non sono qui per impegnare delle discussioni vane ed oziose, bensì per porgervi gli ordini del sommo pontefice. 

— Me ne infischio di lui e de' suoi messi. Ditegli che gli esercizi spirituali e corporali li faccio in casa mia. 

— Questa non è casa vostra, lo dimenticate? 

— No, e domani all'alba me ne andrò, e pianterò le mie tende, ove non vi saranno degli indiscreti, che abusando del loro grado, vengono a disturbare le mie distrazioni, i miei sollazzi. 


LXXXVII. 
L’ultimo misfatto — La punizione. 

Il cardinale a questa uscita del lussurioso suo zio, fu preso da violenta collera. Don Domenico aveva realmente esaurita la sua longanimità. 

— Voi non uscirete più di qui — tonò con voce cupa e solenne. 

— Perché di grazia? 

— Non ne uscirete che accompagnato dai birri, i quali vi porteranno alle carceri per essere giudicato e punito di tutte le nequizie che avete commesse, antiche e recenti. 

— Sarebbe troppo lungo. Verrebbe la fine del mondo, prima che il processo fosse esaurito. 

— Il vostro cinismo vale le vostre azioni. 

— Si possono quotare alla borsa. 

— Credete che si ignorino le vostre turpitudini, le vostre seduzioni, le vostre corruzioni di minori, i vostri stupri. 

— Oh delizie! Non rammentatele eminenza perché mi fate correre l'acquolina in bocca. 

— Turpissima e sozza creatura, indegna d'anima d'uomo; così si parla in presenza di un porporato, di un membro del sacro collegio, di un principe della Chiesa?

Illustrazione con la scena dello stupro, incisa da Ottavio Rodella per un'edizione del XIX secolo di Mastro Titta
Tratta dalla rivista "Pantazaria" n. 1, 1966, p.45.
— Un principe della Chiesa... un porporato... un cardinale...! Oh la bella splendida idea che mi viene. Fra i molti capricci che mi son levato, questo mancava. L'occasione non potrebbe essere migliore. 

Il cardinale lo ascoltava, senza comprendere il senso delle parole... e incominciava a ritenerlo in preda ad un delirio alcoolico, e stava riflettendo ciò che gli convenisse di fare, quando si sentì afferrato a mezza vita dalle braccia poderose del prete osceno e buttato a bocca sotto, sopra un divano del fondo del salotto. Supponendo che volesse ucciderlo e preso da irresistibile terrore, mormorò con voce soffocata: 
— La vita! La vita, lasciatemi la vita. 

— Voglio ben altro che la vita da te, nipote mio. Non capita tutti i giorni d'assaggiar carne di cardinale. 

E senza più s'accinse ad infliggergli l'estremo oltraggio. 

Tentò di ribellarsi l'infelice. Ma l'Abbo tenendolo colle ginocchia serrato, lo afferrò con ambo le mani alla gola, né lo lasciò che quand'ebbe compiuto il nefando misfatto. 
Il corpo del cardinale cadde allora bocconi al suolo. Era morto per soffocazione. 

Rinvenuto in sé, dinanzi al cadavere del nipote, Domenico Abbo fu preso da terribile sgomento. Egli misurò d’un tratto la situazione. Comprese che la salvezza per lui era impossibile e per sottrarsi all'immancabile forca che l'aspettava, decise di buttarsi a fiume. Lasciò il salotto maledetto, e si diede a fuggire come un pazzo giù per le scale del palazzo. Alcuni servi lo seguirono, altri salirono nel di lui appartamento e trovata la salma dell'assassinato cardinale, sparsero per ogni dove l'allarme. 
Mentre il prete dissoluto giunto al ponte Sant'Angelo, rincorso dai servi, tentava di salire sul parapetto per lanciarsi nell'acqua, fu afferrato da alcuni soldati e trattenuto. 
Intanto giungevano i primi ed i secondi servi informati del delitto. Domenico Abbo venne portato a Castel Sant'Angelo e chiuso nelle prigioni di quello. 

Il processo ebbe luogo segretamente, e fu prontamente spicciato, perché premeva all'autorità di evitare l'enorme scandalo. Intanto si era fatto correr voce che il cardinale era morto per improvvisa sincope e fu severamente ingiunto ai domestici di parlare del fatto. Ma di molte ciarle erano già state fatte e la verità trapelava nel pubblico. 

La notte del 3 al 4 ottobre 1849 [6] fui chiamato nel forte di Castel Sant’Angelo e quivi sull'albeggiare mozzai la testa al prete dissoluto. Domenico Abbo aveva svestiti gli abiti sacerdotali e gli erano stati raschiati i polpastrelli delle dita, colle quali aveva tante volte amministrata la sacra particola, e la tonsura per sconsacrarlo. Egli si era cinicamente confessato di tutte le sue oscenità, menandone vanto, ed entrando ne' più minuti particolari. Esortato a far atto di contrizione, per meritarsi la grazia celeste, rispose beffandosene: 
— Ho goduto un cardinale, spero di aver buona fortuna anco col diavolo, lasciate che me ne vada all'inferno.  

Chiese ed ottenne di non essere né bendato, né legato. Camminò imperterrito e con saldo passo dalla carcere al posto ove era stato eretto il patibolo, guardò sorridente il patibolo e porse la testa alla mannaia dopo aver esclamato: 
— Tutto è finito [7].

 
L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà eventuali errori in essa contenuti.
Note 

[1] Il testo da: Anonimo, Mastro Titta, il boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso, Tip. Edoardo Perino, Roma 1891 (riedito molte volte, di recente da Barbès, Firenze 2010) così come digitalizzato dal sito IntraText 
Il testo è disponibile anche sul "Progetto Manuzio" 
L'opera è oggi attribuita a Ernesto Mezzabotta (1852-1901). 

Nella lista autentica dei giustiziati di "mastro Titta" a cui si ispirò Mezzabotta appare effettivamente, al numero 375, "Domenico Abbo, condannato al taglio della testa il giorno 4 ottobre 1843 ne' Forte di S. Angelo per avere strangolato e sodomizzato il suo nipote carnale con altre brutalità che fanno inorridire". 

Si noti l'aspetto divertente della vicenda: Mezzabotta, o chi per lui, avendo letto male le parole "nipote carnale" ne fece un "nipote cardinale": peccato che non risulti alcun cardinale con quel cognome.
Inoltre, fedele a un anticlericalismo che prescinde da qualsiasi altra considerazione, fece del protagonista un sacerdote, in modo da evitare che un religioso apparisse come vittima anziché come autore di una violenza. 
In breve, questo brano non è un documento storico, ma una pura e semplice fantasia romanzesca, oltre tutto costruita sulla base di un qui pro quo. Il solo avvenimento autentico, a quanto pare, è l'esecuzione capitale dell'Abbo per omicidio e stupro sodomitico nel 1843.

[2] "Passivi". SI noti come il personaggio di fantasia di questo romanzo dipenda ancora dalla figura letteraria (d'ispirazione polemica cristiana!) del libertino, che pur di procurarsi un piacere non si ferma davanti a nulla. Da questo di punto di vista, maschi e femmine per lui sono la stessa cosa...

[3] Cioè di papa Leone X de' Medici e di Pier Luigi Farnese.

[4] Nel senso di "castrato" in quanto si conservava casto.

[5] Amante passivo.

[6] Altro errore di lettura. Il memoriale autentico di "Mastro Titta" dice 1843, non 1849.

[7] Sberleffo antireligioso conclusivo dell'autore, che mette nella bocca di questo criminale le stesse parole di Gesù in croce (Consummatum est).


Quest'opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons "Attribuzione - Non opere derivate 2.5" Italia.
La ripubblicazione integrale è consentita a chiunque sotto i termini di tale licenza.
La ripubblicazione parziale è concessa esclusivamente previo accordo con l'autore: scrivere per accordi.
[Torna all'indice dei testi originari] [Vai alla pagina di biografie di gay nella storia]
[Vai all'indice dei saggi di storia gay]