LXXXVI.
Unorgia
nel palazzo del Cardinale nepote.
I favori di Gregorio
XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all'antico libertino.
Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi
intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano
sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie
degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non
bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella
storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami
riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli
procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della
sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua
sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita.
Egli rinnovava nel palazzo
stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad
infiggere degli spilli nelle carni de' giovinetti pazienti [2],
che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più
intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture.
Le notizie di tali dissolutezze
si diffondevano intanto per Roma ed eccitavano gli sdegni dei cittadini.
Nelle sfere superiori si era più corrivi e tolleranti. Ma a lungo
andare lo scandalo, facendosi sempre più grave, si dovette richiamare
sovr'esso l'attenzione del cardinale, perché provvedesse a farlo
cessare, e questi ripetutamente ammonì lo zio, affinché tornasse
a vita morigerata e tranquilla, almeno nelle apparenze.
Sulle prime don Domenico
Abbo si scusò, si disse vittima di bel nuovo della calunnia
de' suoi invidi, e promise di non offrir loro altri pretesti. Ma poi, sempre
più imbaldanzito dai suoi successi, rispose al nipote arrogantemente,
gli ricordò le turpitudini medicee e farnesi [3],
e conchiuse che la Santa Chiesa, se sopportava l'onta di un cardinale eunuco
[4],
come lui, aveva ben diritto di essere compensato da uno zio del cardinale,
capace di surrogarlo nelle sue deficienze.
Il cardinale giudicò
ormai necessario di liberarsi da quel sozzo prete, che disonorava così
ignominiosamente il suo carattere e la casa che lo ospitava e decise di
coglierlo in fallo, per giustificare le severe misure che aveva ideato
di prendere contro di lui.
Avvertito una notte che nellappartamento
dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di
assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo
dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti
dal tempio.
Se ne stava il sibarita
cenando allegramente in compagnia di due baldracche ed era mezz'ebbro,
quando il cardinale comparve sulla porta del salotto.
Benvenuto, nipote mio!
sorse a dire lAbbo non appena lo vide, senza punto scomporsi: ce nè
anche per voi. Abbiamo dei tartufi del Perigord, capaci di ridar vigore
a un morto. Questo vino spremuto dai grappoli, indorati dal sole della
Sciampagna, vi infonderà spirito allegro e frizzante. Queste due
Maddalene, non per anco convertite e che spero avranno il buon gusto di
non convertirsi mai, avrebbero domato le ribellioni delle carni dell'anacoreta
Sant'Antonio. Io metto tutto ciò a vostra disposizione, eminentissimo,
perché vogliate farmi l'onore di sedere alla mia mensa, come io
siedo quotidianamente alla vostra. Venite, venite, cardinal nipote. So
che godete fama di illibato, ma questo non vi nuocerà. Si è
sempre a tempo a peccare, come a far atto di contrizione.
Il cardinale rimase esterefatto
da tanta audacia. Egli avrebbe voluto ritirarsi, per evitare una scena
disgustosa. Ma ormai non era più a tempo. Pensò convenirgli
mostrarsi mite per il momento e disse:
Don Domenico avrei bisogno
di parlarvi.
Subito, eminenza. Favorite.
Devo intrattenervi sopra
argomenti che non richiedono la presenza di testimoni.
Come vi piace.
Rimandate quelle... signore.
Ben volentieri. Sono ben
educato. Vedrete.
E così dicendo buttò
una borsa di scudi alle due donne, le quali si levarono prontamente da
tavola, ricomposero i loro vestimenti discinti, e buttati sulle spalle
i mantelli presero la via della porta.
Giacomo, Giacomo! gridò
il prete, e tosto un servo giovane ed imberbe, che fungeva da di lui
cinedo [5]
comparve.
Accompagna queste signore
disse e non tornare. Per questa notte hai licenza.
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Una prodezza di Domenico
Abbo, secondo Mastro Titta: dopo aver stuprato una donna, la lega
al letto e fugge indossandone gli abiti.
Illustrazione di Clair
Guyot per un'edizione del XIX secolo. Tratta dalla rivista "Pantazaria"
n. 1, 1966, p. 39.
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Non appena donne e garzone se
ne furono andati, l'Abbo si alzò, mosse incontro al cardinale e
prendendolo per mano lo costrinse a farsi presso alla tavola tuttora imbandita,
gli disse con piglio ironico:
Eccoci soli, eminenza,
ora non avrete più a temere che il vostro pudore ne soffra detrimento.
Sedete.
Il cardinale severo, ma non
accigliato, poiché si era proposto di evitare qualsiasi chiasso,
dopo avere aderito all'invito, disse lentamente:
Vi pare don Domenico, che
queste scene cui mi fate assistere, sieno tollerabili, nel palazzo di un
principe della Chiesa?
Se ne son viste di peggiori.
Altri tempi, altri costumi.
Tutti i tempi sono buoni
per giocondarsi l'esistenza; è tanto breve.
Vi ho già tante
volte richiamato all'esercizio de' vostri doveri.
Dove mai ho mancato, eminenza?
E osate chiederlo?
Certamente che l'oso, dal
momento che so di aver sempre e col maggiore scrupolo adempito alle mansioni
affidatemi.
Non si tratta di ciò.
E di che dunque.
Del vostro carattere di
sacerdote, per dio!
Eminenza siete male informato
sul conto mio. Il mio confessionale è il più frequentato
e le più belle dame di Roma, e più cospicue per censo e per
nascita, fanno a gara, per avermi a direttore spirituale, a guida sullo
spinoso sentiero della vita.
Non miscere sacra profanis!
sentenziò il porporato per evitare una risposta diretta.
Quando io diffondo dal
pergamo la parola di Dio, la gente affolla il tempio. Sono chiamato in
tutte le case, ove s'ha bisogno di spargere i balsami della consolazione.
Spesso sono costretto a disertare la vostra tavola, per accorrere a quella
d'altri principi della Chiesa. Che più? Sua Santità mi vede
di buon occhio.
Tanto di buon occhio, che
è appunto da lui che fui esortato a liberarmi di voi.
A liberarmi di me?
Precisamente.
Ah! Papa ubbriacone, così
corrispondi alle mie piacevolezze. Oh! ma mi sentirà.
Voi vi guarderete bene
d'andare da Sua Santità.
Ci andrò sicuro.
Ogni suddito ha diritto di ricorrere al suo legittimo sovrano.
Non v'andrete, perché
sareste arrestato ipso facto.
Non sarebbe la prima volta
veramente.
Ho piacere che lo ricordiate.
Anch'io, perché
mi rammenta la vostra bontà eminenza.
Ingannato da queste parole,
che parevano sincere, il Cardinale credete di poter proceder oltre con
tutta coscienza e riprese:
Voi lascerete domani questo
palazzo.
Siete il padrone, vi obbedirò.
E vi ritirerete nel convento
dei Domenicani, per passarvi sei mesi d'espiazione.
Questo poi no.
Tali sono gli ordini di
Sua Santità.
Don Domenico Abbo, si versò
un calice di vino sciampagna spumeggiante e lo bevve centellinandolo: quindi,
forbendosi le labbra, esclamò:
Squisito! Scommetto che
se papa Gregorio
XVI fosse qui, non ne rifiuterebbe un bicchiere, come fate voi, troppo
rigido nipote.
Pensereste di farmi testimonio
delle vostre orgie?
Nepote mio, scusate, ma
io non vi ho chiamato, e avrei proprio fatto di meno della vostra compagnia,
perché ne avevo altra, come avete veduto, se non più interessante,
più dolce.
Vergognatevi!
Di che? di seguire le leggi
della natura? Giammai! Si vergogni chi pretende contraddirle.
Non sono qui per impegnare
delle discussioni vane ed oziose, bensì per porgervi gli ordini
del sommo pontefice.
Me ne infischio di lui
e de' suoi messi. Ditegli che gli esercizi spirituali e corporali li faccio
in casa mia.
Questa non è casa
vostra, lo dimenticate?
No, e domani all'alba me
ne andrò, e pianterò le mie tende, ove non vi saranno degli
indiscreti, che abusando del loro grado, vengono a disturbare le mie distrazioni,
i miei sollazzi.
LXXXVII.
Lultimo
misfatto La punizione.
Il cardinale a questa uscita
del lussurioso suo zio, fu preso da violenta collera. Don Domenico aveva
realmente esaurita la sua longanimità.
Voi non uscirete più
di qui tonò con voce cupa e solenne.
Perché di grazia?
Non ne uscirete che accompagnato
dai birri, i quali vi porteranno alle carceri per essere giudicato e punito
di tutte le nequizie che avete commesse, antiche e recenti.
Sarebbe troppo lungo. Verrebbe
la fine del mondo, prima che il processo fosse esaurito.
Il vostro cinismo vale
le vostre azioni.
Si possono quotare alla
borsa.
Credete che si ignorino
le vostre turpitudini, le vostre seduzioni, le vostre corruzioni di minori,
i vostri stupri.
Oh delizie! Non rammentatele
eminenza perché mi fate correre l'acquolina in bocca.
Turpissima e sozza creatura,
indegna d'anima d'uomo; così si parla in presenza di un porporato,
di un membro del sacro collegio, di un principe della Chiesa?
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Illustrazione con la
scena dello stupro, incisa da Ottavio Rodella per un'edizione del XIX secolo
di Mastro Titta.
Tratta dalla rivista
"Pantazaria" n. 1, 1966, p.45.
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Un principe della Chiesa...
un porporato... un cardinale...! Oh la bella splendida idea che mi viene.
Fra i molti capricci che mi son levato, questo mancava. L'occasione non
potrebbe essere migliore.
Il cardinale lo ascoltava,
senza comprendere il senso delle parole... e incominciava a ritenerlo in
preda ad un delirio alcoolico, e stava riflettendo ciò che gli convenisse
di fare, quando si sentì afferrato a mezza vita dalle braccia poderose
del prete osceno e buttato a bocca sotto, sopra un divano del fondo del
salotto. Supponendo che volesse ucciderlo e preso da irresistibile terrore,
mormorò con voce soffocata:
La vita! La vita, lasciatemi
la vita.
Voglio ben altro che la
vita da te, nipote mio. Non capita tutti i giorni d'assaggiar carne di
cardinale.
E senza più s'accinse
ad infliggergli l'estremo oltraggio.
Tentò di ribellarsi
l'infelice. Ma l'Abbo tenendolo colle ginocchia serrato, lo afferrò
con ambo le mani alla gola, né lo lasciò che quand'ebbe compiuto
il nefando misfatto.
Il corpo del cardinale cadde
allora bocconi al suolo. Era morto per soffocazione.
Rinvenuto in sé, dinanzi
al cadavere del nipote, Domenico Abbo fu preso da terribile sgomento. Egli
misurò dun tratto la situazione. Comprese che la salvezza per lui
era impossibile e per sottrarsi all'immancabile forca che l'aspettava,
decise di buttarsi a fiume. Lasciò il salotto maledetto, e si diede
a fuggire come un pazzo giù per le scale del palazzo. Alcuni servi
lo seguirono, altri salirono nel di lui appartamento e trovata la salma
dell'assassinato cardinale, sparsero per ogni dove l'allarme.
Mentre il prete dissoluto
giunto al ponte Sant'Angelo, rincorso dai servi, tentava di salire sul
parapetto per lanciarsi nell'acqua, fu afferrato da alcuni soldati e trattenuto.
Intanto giungevano i primi
ed i secondi servi informati del delitto. Domenico Abbo venne portato a
Castel Sant'Angelo e chiuso nelle prigioni di quello.
Il processo ebbe luogo segretamente,
e fu prontamente spicciato, perché premeva all'autorità di
evitare l'enorme scandalo. Intanto si era fatto correr voce che il cardinale
era morto per improvvisa sincope e fu severamente ingiunto ai domestici
di parlare del fatto. Ma di molte ciarle erano già state fatte e
la verità trapelava nel pubblico.
La notte del 3 al 4 ottobre
1849 [6]
fui chiamato nel forte di Castel
SantAngelo e quivi sull'albeggiare mozzai la testa al prete dissoluto.
Domenico Abbo aveva svestiti gli abiti sacerdotali e gli erano stati raschiati
i polpastrelli delle dita, colle quali aveva tante volte amministrata la
sacra particola, e la tonsura per sconsacrarlo. Egli si era cinicamente
confessato di tutte le sue oscenità, menandone vanto, ed entrando
ne' più minuti particolari. Esortato a far atto di contrizione,
per meritarsi la grazia celeste, rispose beffandosene:
Ho goduto un cardinale,
spero di aver buona fortuna anco col diavolo, lasciate che me ne vada all'inferno.
Chiese ed ottenne di non
essere né bendato, né legato. Camminò imperterrito
e con saldo passo dalla carcere al posto ove era stato eretto il patibolo,
guardò sorridente il patibolo e porse la testa alla mannaia dopo
aver esclamato:
Tutto è finito [7]. |