(...)
Quella notte, mentre dormiva quetamente, un colpo al viso lo destò. Aprì gli occhi spaventato, volse uno sguardo in giro per la camera, alzò il capo e vide aperto il finestrino che dava sul corridoio, ma nulla che potesse giustificare il colpo ricevuto; guardò allora sul letto, intorno a sé, ed un nastro di seta verde, al quale era raccomandata una lettera, gli fé balzare il cuore.
Colle mani tremanti ruppe il suggello, spiegò il foglio. Alla debole e vacillante luce della lampada avidamente lesse il nome che era tracciato a piè delle linee. Era quello del poeta. Una gioia straordinaria gl'imporporò le guance. S'avvicinò al lume e cogli occhi brucianti, il cuore che gli batteva forte, percorse parecchie volte la lettera. Essa diceva:
"Oh, efebo divino! I tuoi capelli mi hanno ammaliato. Essi sono così biondi come quei raggi di sole, che scendono nelle vigne per addormentarsi nei grappoli d'uva e dare agli acini il colore dell'ambra.
I tuoi occhi, lucenti come pietre preziose incastonate fra anelli d'oro, sono così sfavillanti di desiderio, come gli occhi delle colombe assetate, che volano in un deserto in cerca di un ruscello d'acqua viva.
I tuoi occhi hanno sete d'amore. Langue d'amore la tua bocca vermiglia come la bocca di una rosa, i baci delle cui labbra sono così dolci come il miele che stilla dalle labbra di una melograna matura.
La tua bellezza è entrata nel mio cuore e il tuo occhio v'ha messo su lo sguardo come un suggello: la semente di nessun'altra passione potrà più verdeggiare nel giardino del mio cuore, dove il tuo amore fiorisce. Non potrò più amare altri che te.
La notte, se il mio corpo dorme per stanchezza, l'anima mia che e solo ama, veglia e ti pensa!". |
Bene-Oelohim.[2].portò
il foglio alle labbra e lo baciò. Baciò quel foglio, sul
quale il poeta innamorato in poche gocce d'inchiostro aveva saputo stemperare
tutta la sua anima, vibrante di una di quelle emozioni che non si provano
due volte nella vita.
Tornò a letto, assorto deliziosamente in una beatitudine sovrannaturale.
Poi abbassò le palpebre, su cui una lacrima luccicò, come una goccia di rugiada imperlante un petalo di rosa, e si addormentò così col biglietto d'amore stretto al cuore.
Al mattino di una simile notte il suono della sveglia fu addirittura straziante per lui. Era giunto alla prima stazione del suo calvario.
Il poeta, quel giorno, passandogli accanto nel momento della separazione delle classi, lo guardò con un'occhiata, in cui ormai il desiderio di una qualche cosa d'impudico si rivelava chiaramente; poi si era guardato d'intorno con sospetto, ed, infine, assicuratosi che nessuno faceva attenzione a lui in quel momento, portò la mano destra alla bocca e, sulla punta delle dita, gli lanciò un bacio, il quale fu come una dichiarazione, l'affermazione del desiderio che i suoi occhi tacitamente esprimevano nei loro foschi bagliori di cupidigia, e che la sua penna aveva tracciato sulla carta, imprimendolo, come un marchio di fuoco nel cuore del bell'efebo.
Il prefetto di disciplina che, nascosto dietro un allievo, teneva d'occhio il poeta, spiandone i minimi gesti, notò quell'atto e ne fece immediatamente rapporto ai superiori.
Da quel giorno Bene-Oelohim non vide più il suo amico. Dopo due lunghi mesi di ansie e torture, ricevé una lettera di questi, che gli faceva sapere come fosse stato cacciato dal collegio.
***
Il giorno dopo, al mattino, mentre faceva colezione [sic], s'accorse che un compagno a di lui rincontro, un giovanotto dall'aria malaticcia, che era sempre preoccupato come da gravi pensieri, lo guardava insistentemente.
Egli non ci fece caso in principio, ma poi al vedersi sempre guardare così, finì per impensierirsi, e al momento della ricreazione gli s'avvicinò e volle sapere il perché della sua insistenza nel guardarlo.
"Perché eri molto pallido stamane; sulle tue guance si vedono due linee luccicanti, hai dovuto piangere molto. Ti guardavo per poter penetrare il segreto della tua ambascia. Non hai forse pianto per amore?".
"Sì", rispose l'efebo chinando il capo.
"È facile capirlo, certi dolori profondi solo l'amore può generarli. Anch'io ho amato ed ho sofferto. Se tu sapessi quanto ho sofferto!".
Alle parole del compagno l'animo di Bene-Oelohim si sentì rivivere. L'incontro di un essere che soffriva o aveva sofferto delle sue stesse sofferenze - stranezze della natura umana! - alleviava il proprio dolore. E per continuare la conversazione su quell'argomento, domandò:
"Era molto bello il tuo amore?".
"Il sole del mio cuore era bello e biondo come una piastra d'avorio lucente", rispose il compagno cogli occhi pieni di passione, e continuò: "I suoi capelli avevano il colore del rame forbito che scintilla; quando parlava avresti creduto che un cembalo sonasse, quando mi baciava le sue labbra inzuccherate erano così dolci come miele e latte".
"Tu sei più felice di me! Il mio amore non m'ha baciato mai!", e dicendo queste parole l'efebo ebbe uno strazio nella voce.
"Son tre mesi ora che non ci baciamo più, perciò soffro. Come è terribile dopo aver provato il dolce nettare dei baci, di non sentirsi più sfiorare le labbra dalle labbra amate. Son tre mesi, tre lunghi mesi che non la vedo più, la mia adorata Edwige".
A questo nome Bene-Oelohim restò alquanto interdetto; ma poco dopo: "È una donna che tu ami?".
Una simile domanda colpì stranamente l'altro, il quale si sentì come offeso, e, risentito: "Che avresti voluto farmi amare, farmi baciare da un uomo?!".
Bene-Oelohim non sapeva comprendere il risentimento del compagno, e con grande ingenuità: "È un uomo che io amo, e per esso ho pianto tutta stanotte, pel poeta che è stato mandato via dal collegio".
Una scossa improvvisa di tremuoto non avrebbe prodotto sul compagno dell'efebo un effetto più fulminante di queste parole. Lo guardò minaccioso, ed atteggiando le labbra ad un profondo sorriso di scherno, gli gettò in faccia questa frase: "Bisogna amare la donna, amare l'uomo è un terribile peccato", e scappò via, lasciando Bene-Oelohim in preda ad una fortissima crisi nervosa.
All'ora dello studio, il bell'efebo si accorse con suo sommo stupore che gli occhi di tutti i collegiali si appuntavano su lui curiosamente.
Che voleva dir ciò? Non era forse il suo viso come quello degli altri giorni? Che v'era di strano in lui in quel momento? Perché lo guardavano così, additandoselo l'un l'altro, e poi parlavano fra loro sommessamente con un sordo mormorio di maldicenza?
Vedeva errare sulle labbra di tutti i condiscepoli lo stesso sorriso di scherno che s'era disegnato qualche ora prima su quelle dell'amico, al quale aveva fatta la confessione di amare il poeta.
"Bisogna amare la donna, amare l'uomo è un terribile peccato": questa frase, dettagli con tanta severità, gli sorgeva nello spirito, s'ingigantiva dinanzi agli occhi della sua coscienza, lo turbava.
Amare una donna? E come avrebbe potuto farlo, se non si trovava al contatto con essa?
Perché poi era peccato amare un compagno e non peccato amare una donna? Gli riusciva impossibile rendersi conto di questa differenza.
E mentre fantasticava su ciò, sentiva crescere intorno i sorrisi di scherno, il sordo mormorio di maldicenza; delle frasi di sprezzo gli giunsero perfino all'orecchio, ed all'uscire dalla camerata vi fu pure qualche compagno che ebbe l'audacia di venirgli a ridere sul muso.
Una collera cieca s'impossessò di lui, sentiva i pugni serrarglisi istintivamente, come per spingerlo a lanciarsi contro di loro, e colpire ad occhi chiusi tutti quei visi motteggiatori.
Ma la voce della coscienza che dal fondo del cuore gridava la sua innocenza (quale cattiva azione aveva egli commessa?) calmò la sua ambascia; una specie di fittizia serenità gli si disegnò sul volto, e passò in mezzo ai compagni con aria noncurante, disprezzando il loro disprezzo, sostenendo l'inquisizione di tutte quelle pupille azzurre e nere che si appuntavano su lui come se volessero annientarlo.
Che colpa aveva egli se la sua natura era anormale? Se il vizio lo aveva afferrato fra le sue spire, a completa incoscienza di lui, e lo travolgeva nell'impura corrente del male?
L'uomo, attraverso il difficile cammino della vita, è come un operaio che si trovi in un'officina di macchine: è circondato da pericoli, tutto gli tende un'insidia.
La minima distrazione dell'operaio, un momento di oblìo, e le corregge di trasmissione possono trasportarlo e schiacciarlo. Una camicia non bene abbottonata, un lembo pendente dell'abito, bastano perché una ruota d'ingranaggio l'afferri e lo travolga, frantumandogli le ossa, riducendolo a brani, le membra a strappi, il capo in mille schegge, da cui il cervello è slanciato contro le pareti, il sangue spremuto da corpo, che va ad imbrattare il lucente acciaio della macchina per pochi secondi, poi tutto sparisce.
Così il vizio afferra l'animo di un uomo a sua insaputa, e lo fa passare man mano per i più bassi gradi della dissoluzione, fino a distruggerlo.
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