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[aprile 2019]
"Moti di Stonewall" (Stonewall riots, ma anche Stonewall rebellion) è il nome con cui
convenzionalmente si indica il confronto avvenuto nella città di New York fra polizia e
manifestanti omosessuali e trans, per cinque sere non consecutive,
nelle notti di venerdì 27, sabato 28, domenica 29 giugno 1969 e, dopo
due giorni di pioggia e di pausa, nelle notti di mercoledì 2 e giovedì
3 luglio 1969. Il confronto ebbe momenti violenti di vero e proprio
scontro fisico.
Questa rivolta
divenne in breve tempo un evento simbolico nella lotta
contro le discriminazioni degli omosessuali, e non solo.
Il contesto
Durante
gli anni del Maccartismo e del lavender scare, si era
intensificata la repressione dei luoghi d'incontro omosessuale, che a
New York erano fiorenti sin dalla seconda metà dell'Ottocento[1]. Nello Stato di New
York le intenzioni repressive della polizia si scontravano però con
l'assenza d'una legge che permettesse di chiudere un locale solo perché
frequentato da omosessuali; a ciò suppliva la compiacenza omofobica
dell'ufficio preposto alla concessione delle licenze di spaccio di
alcolici, la "State Liquor Authority",
che aveva preso l'abitudine di togliere o negare la licenza ai bar
giudicati pericolosi per la morale pubblica.
Il movimento omofilo aveva sfidato in
tribunale questo comportamento, ottenendo sentenze che sancivano che
nessuna legge autorizzava a negare la mescita di alcolici a qualcuno
solo perché omosessuale, tuttavia questo non aveva reso più malleabile
la "State Liquor Authority",
che continuava e a negare o revocare ad ogni minimo pretesto le licenze
ai locali gay.
Per questa ragione i
locali diretti alla clientela omosessuale tendevano o ad operare senza
licenza, cosa che li esponeva ai "giustificati" raid della polizia, o
ad essere gestiti dalla mafia, che aveva i mezzi per corrompere la
polizia[2].
Per aggirare la legge i bar gay operavano come bottle bars, ossia come "circoli
privati" in cui teoricamente i clienti avrebbero portato loro le
bevande da casa. All'ingresso bisognava dare il proprio nome (ma non
veniva chiesto un documento d'identità per verificarlo) e firmare il
libro degli ospiti.
Le mazzette pagate dalla mafia non
servivano comunque a garantire che i locali non sarebbero stati
razziati, e tanto meno che i clienti non sarebbero stati arrestati, ma
solo che la polizia avrebbe avvertito prima di effettuare i raids (in
modo da far sparire quanto andava occultato o salvato) e soprattutto
che non sarebbero stati messi i sigilli ai locali, che in questo modo
avrebbero potuto riaprire immediatamente dopo la razzia.
Allo scopo di
minimizzare le perdite causate dai sequestri, inoltre, i bottle bars conservavano
pochissime bottiglie di superalcolici dietro al bancone; le scorte
erano infatti tenute in un'auto parcheggiata nelle vicinanze. In questo
modo un bar gay gestito dalla mafia era in grado di riaprire
immediatamente dopo che la polizia aveva finito di sequestrare le
bottiglie e di portare via i clienti minorenni o vestiti in modo
"immorale". In caso di chiusura definitiva, non essendoci licenza, il
bar veniva riaperto sotto altro nome nel primo locale sfitto
disponibile negli immediati dintorni, e il ciclo ricominciava.
Anche lo "Stonewall
Inn" era posseduto e gestito dalla mafia. Il suo proprietario, Tony Lauria, detto "Fat Tony",
apparteneva al clan Genovese, e pagava alla polizia una "mazzetta" di
1200 dollari al mese per restare aperto[3].
Il
raid contro lo Stonewall si colloca in questo scenario, durante
un'ondata di razzie poliziesche contro i bar gay della zona. Nei giorni
precedenti il 28 giugno erano infatti stati già colpiti altri due
locali, lo "Snake Pit" ("La fossa dei serpenti") e "The Sewer" ("La
fogna"), entrambi operanti senza licenza di spaccio, e addirittura
avevano chiuso lo "Checkerboard", il "Tele-Star" ed altri club
notturni.
Era infatti in corso la campagna per l'elezione del sindaco e il primo
cittadino uscente John Lindsay,
che aveva perso le primarie del suo partito, voleva mettersi in mostra
con un repulisti completo dei bar gay.
Lo Stonewall Inn era un bersaglio relativamente facile perché non aveva
licenza per la mescita, era gestito dalla mafia, ed era nel mirino di
una serie di voci che lo accusavano di tollerare un giro di
prostituzione (al primo piano), spaccio di droga e ricatti ai clienti
impiegati nella vicina Wall Street[4].
Durante la retata della notte del 27 giugno 1969 allo "Stonewall Inn"
non solo la polizia si era ripresentata dopo avere già effettuato un
raid il martedì precedente, ma non aveva preavvisato i proprietari e
s'era presentata a un'ora molto tarda, insolita per questo tipo
d'operazioni, cosa che segnala un'intenzione di "colpire duro" contro
il locale.
Gli eventi della notte
Gli eventi ebbero
inizio nella notte del 27 giugno 1969, alle ore 1:20, quindi
tecnicamente nella primissima mattina del 28 giugno, che per questo
motivo è oggi indicata come data dei moti[5].
La polizia si
presentò in Christopher street 51-53[6], allo "Stonewall Inn", un "circolo
privato" dotato di due bar e due sale da ballo, per accedere al quale
era necessario pagare un biglietto d'ingresso (nel weekend, tre
dollari, comprensivi di due consumazioni). La principale attrattiva del
locale era in effetti la circostanza di essere l'unico di New York in
cui i gestori permettessero a due clienti dello stesso sesso di ballare
assieme; tutti sapevano che se si fossero accese di colpo le luci
questo avrebbe significato che era entrata la polizia e che bisognava
smettere immediatamente qualsiasi interazione fra persone dello stesso
sesso (l'omosessualità era illegale).
Due poliziotte e due
poliziotti in borghese erano già entrati in precedenza per raccogliere
prove, mentre la "Buoncostume" aspettava all'esterno di ricevere un
segnale per intervenire. Quando la polizia in divisa si presentò alla
porta, valutò che fossero presenti circa 205 persone. Furono accese le
luci e i clienti furono messi in fila per il controllo dei documenti. I
minorenni, coloro che non avevano documenti e quanti indossassero
vestiti non conformi al genere vennero fermati, gli altri furono via
via fatti uscire in strada. Questa era la prassi per tutte le razzie
effettuate all'epoca.
Quella sera però le cose non andarono secondo il copione. Le clienti in
abiti femminili (fra cui cinque "travestiti") quella notte rifiutarono
di accompagnare in bagno le agenti per la verifica del sesso. Alcuni
clienti rifiutarono di esibire i documenti. Almeno una donna lesbica
"butch" in abiti maschili ebbe una colluttazione mentre
l'ammanettavano. La polizia decise di portare tutti in commissariato, e
mandò a chiamare i furgoni cellulari. Inoltre la polizia aveva fermato
tutto il personale del bar ed aveva sequestrato 28 casse di birra e 19
bottiglie di superalcolici.
Molti dei clienti che
erano stati mandati via, invece di disperdersi, si radunarono di fronte
al locale, ed entro breve si raccolse una folla tra le 100 e le 150
persone, composta in parte da clienti dello "Stonewall" e in parte da
passanti e clienti usciti dai locali adiacenti.
Quando arrivarono due furgoni cellulari, la folla iniziò a schernire i
poliziotti. Poi qualcuno iniziò a gridare "porci!" e a lanciare
monetine e qualche bottiglia, perché si era sparsa la voce che i
clienti all'interno erano stati percossi.
Una donna ammanettata, una lesbica butch, fu portata al furgone, riuscendo
a divincolarsi più volte, gridando e lottando contro quattro
poliziotti. Secondo le testimonianze, a un certo punto la donna avrebbe
gridato agli astanti: "Why don't you guys do
something?"
("Ragazzi,
perché state lì senza far niente?").
Da questo momento la
situazione peggiorò. I presenti cercarono di ribaltare i furgoni e di
tagliare le gomme alle auto della polizia. Due auto e un furgone carico
partirono, con l'ordine di tornare subito.
Mentre la tensione saliva, alcuni nella folla scoprirono un mucchio di
mattoni in un cantiere edile nelle vicinanze. A questo punto la folla
comprendeva ormai fra le 500 e le 600 persone. Quando iniziò una
sassaiola di mattoni, bottiglie e lattine, dieci poliziotti (due dei
quali donne) si barricarono dentro il locale[7].
Alcuni ragazzi
sradicarono un parchimetro usandolo come ariete e
sfondarono la porta. Un tentativo dei poliziotti di usare un idrante
anti-incendio per disperdere la folla si rivelò controproducente per
mancanza di pressione nel getto. Alcuni vetri furono rotti e fu fatto
un tentativo (subito stroncato) di dare fuoco al locale gettandoci
liquido infiammabile e stracci incendiati. I poliziotti tirarono fuori
le armi ed erano pronti a usarle, quando arrivarono i rinforzi.
A rincalzo arrivò la
polizia antisommossa, usata di solito per disperdere le manifestazioni
contro la guerra nel Vietnam.
I rinforzi crearono una linea continua e iniziarono a caricare i
manifestanti per disperderli. I manifestanti reagirono con scherno,
creando una linea di balletto, cantando e ballando ed "ostentando" la
loro omosessualità. Fra gli slogan gridati spontaneamente vi fu "Gay power" (potere gay), ricalcato
su quello (Black power)
popolarizzato dalle "Pantere nere".
Un gruppo di manifestanti, evidentemente già esperti in tattiche di
guerriglia urbana, rovesciarono un'automobile in mezzo alla strada per
bloccare le cariche. Fino alle quattro di mattina andò avanti un gioco
di inseguimenti e rincorse per le vie relativamente strette del
"Village", fino a quando tutti i manifestanti non furono dispersi.
Il
bilancio finale fu di 12 arresti, quattro agenti feriti e alcuni
manifestanti ricoverati in ospedale. Lo "Stonewall Inn" risultò
devastato, non è chiaro se per opera del raid della polizia o per mano
della folla.
La sera successiva il
bar era nuovamente aperto, per quanto la facciata apparisse affumicata
e coperta di scritte di protesta. La notizia degli scontri attrasse una
folla di migliaia di persone, che gremivano all'inverosimile l'area.
Era presente anche un centinaio di poliziotti e gli scontri si
ripeterono anche la seconda sera, fino a che alle due di notte fu
nuovamente chiamata la polizia anti-sommossa. Gli scontri proseguirono
fino alle quattro.
In tutto, le notti di
scontri furono cinque (l'ultima, in reazione a due articoli insultanti
(contenevano parole come "faggot”
e “faggotry", ossia "frocio"
e "frociaggine") sui moti, pubblicati la mattina del 3 luglio dal
giornale di sinistra della zona, il "Village voice", che finì così nel
mirino dei manifestanti[8].
Un aspetto che è oggi
facile sottovalutare negli avvenimenti di quei giorni fu che la
società, e la stessa comunità
omosessuale,
venne presa di contropiede dall'idea che una folla di omosessuali fosse
stata capace di atti di violenza fisica, cosa che andava contro
l'immagine ripetuta ossessivamente dai media dell'epoca, che presentava
il maschio omosessuale come una "mammoletta" incapace di qualsiasi
assertività o coraggio fisico. Fra le testimonianze di quei giorni
ritorna lo stupore con cui era fu accolta l'idea che degli omosessuali
fossero stati capaci di tenere testa alla polizia.
Questa
sensazione fu ben riassunta, in un'intervista apparsa il 3 luglio su
"The Village voice", dal poeta Allen
Ginsberg, uno dei pochissimi omosessuali
dichiarati dell'epoca, che pur non approvando gli scontri in quanto
nonviolento, dichiarò all'inorridito giornalista:
|
« "Sa,
i ragazzi laggiù erano così belli: hanno perduto quell'aria ferita che
i tutti i froci avevano dieci anni fa[9].» |
Perché
i clienti si ribellarono?
Una
domanda che gli storici hanno affrontato molte volte negli anni
successivi è: perché fu questa
razzia della polizia a innescare la reazione a catena che diede vita al
movimento gay, e non una delle decine avvenute negli anni precedenti?
Secondo l'analisi che Dick Leitsch (giornalista e allora presidente
della "Mattachine
society"
di New York) scrisse "a caldo", immediatamente dopo i fatti, per il
bollettino della "Mattachine society"[10], Lo "Stonewall Inn"
aveva la caratteristica, unica a New York, di essere il punto di
riferimento per una clientela altrove emarginata, costituita da drag
queen
(alcune delle quali prostitute e tossicodipendenti) e da minorenni
sbandati, molti dei quali cacciati di casa perché omosessuali, che
vivevano di espedienti, fra prostituzione e droga.
Costoro
trovavano nello "Stonewall" (che una volta pagato il biglietto
d'ingresso permetteva di trascorrere anche l'intera notte) la
possibilità di passare la notte al caldo, o d'incontrare qualcuno che
li portasse a dormire a casa propria.
Si aggiunga poi il
fatto che era proibito servire alcolici ai minorenni, che quindi erano
esclusi dagli altri luoghi di socialità gay più attenti al rispetto
della legge. Ebbene, secondo il parere di Leitsch fu proprio questo
gruppo di persone, bersaglio privilegiato della repressione poliziesca,
a reagire con la violenza alla retata[11].
.
La sola foto dei moti della prima notte pubblicata ritrae proprio i
"ragazzi di strada" alle prese con i poliziotti.
Particolarmente
interessante è il modo in cui la stessa Sylvia
Rivera
(all'epoca diciassettenne) caratterizzò lo "Stonewall Inn", che confuta
l'immagine leggendaria di locale per drag
queen
di colore:
|
« Ciò
che la gente fatica a capire è che lo Stonewall non era un bar per drag
queens. Era un bar per maschi bianchi, in cui uomini di classe media
potevano rimorchiare ragazzi giovani di varie razze. Pochissime drag
queens vi erano ammesse, perché se avessero ammesso le drag
queens nel circolo privato, ciò avrebbe svalutato la sua immagine. E
ciò avrebbe creato maggiori problemi al circolo. La mafia la pensava in
questo modo, ed anche i clienti la pensavano così. Perciò le queen
a cui era permesso entrare, fondamentalmente avevano conoscenze lì
dentro. Io ci andavo a prendere droga da consumare altrove. Avevo
conoscenze lì dentro[12].
»
|
Un ulteriore aspetto
oggi poco discusso ma presente nella ribellione fu infine
l'esasperazione contro il duopolio esercitato da polizia e mafia sui
locali gay. I prezzi erano esorbitanti e gli alcolici serviti
annacquati e preparati in condizioni igieniche precarie (il barista
dello "Stonewall" dal bancone non aveva accesso all'acqua corrente per
lavare i bicchieri). E le voci accusavano i gestori del locale di
praticare estorsione e ricatto ai danni di clienti gay facoltosi, tanto
che la guida gay della "Mattachine society" avvisava di non firmare
all'ingresso con il vero nome.
Secondo Phillip Crawford, autore di un libro sui rapporti fra mafia e
locali gay:
|
« Lo
sfruttamento della comunità gay da parte della mafia fu una delle
ragioni delle proteste del 1969 fuori dallo Stonevall Inn. Anzi, dopo
le proteste di Stonewall, uno degli obiettivi principali dei gruppi di
attivisti, come la Gay Activists Alliance e
il Gay Liberation Front, fu la cacciata del
crimine organizzato dai bar gay [13].» |
E sia Martin Duberman (pp. 205-206) che Donn Teal (pp. 8-9) riferiscono che
la coppia gay formata da Craig Rodwell
e Fred Sargeant già la mattina
successiva agli scontri produsse e distribuì 5000 volantini che
chiedevano: "Get
the Mafia and the cops out of gay bars, "Fuori la mafia e
gli sbirri dai bar gay".
In essi veniva chiesto espressamente il boicottaggio dello "Stonewall"
e degli altri bar gestiti dalla mafia.
Lo "Stonewall"
dopo i moti
Il
bar "Stonewall" sopravvisse solo poche settimane agli eventi sopra
descritti. Il fatto che il suo nome fosse finito su tutti i giornali lo
rese un luogo "poco raccomandabile" per gli omosessuali non dichiarati.
Già a ottobre l'edificio esponeva il cartello "affittasi".
Il proprietario
riaprì nel 1972 un locale con lo stesso nome a Miami
Beach, ma esso venne incendiato due anni dopo e non fu mai più riaperto.
Dopo la chiusura del
bar, lo stabile in cui aveva avuto sede fu
trasformato in un negozio. A seguito però di un crescente turismo
gay che
si recava in "pellegrinaggio" sul luogo degli ormai mitici "moti di
Stonewall", nel 1990 fu riaperto in metà dei locali originari un bar gay, ovviamente chiamato
"Stonewall".
Nel
2000 l'edificio fu dichiarato "di interesse storico".
Nel
2007 fu recuperata anche l'altra metà dei locali e il bar, allargato,
riprese il nome di "Stonewall Inn". Questo esercizio (purtroppo senza
più nessuna delle suppellettili originali) è tuttora aperto.
Le conseguenze
Già
con gli scontri ancora in corso alcuni partecipanti indissero
un'assemblea per discutere dall'accaduto, innescando una serie d'eventi
che sarebbe culminati nella fondazione del Gay
Liberation Front (GLF), gruppo
d'ispirazione rivoluzionaria e marxista, che per queste sue radici
decise di rompere platealmente col preesistente movimento omofilo, presente a New York
con la "Mattachine
society".
Il movimento omofilo fu dal GLF giudicato troppo arrendevole e troppo
compromesso con la società borghese e capitalistica.
Questa frattura fu
simboleggiata dalla scelta di usare la parola "gay" nel nome: se il termine "omofilo" era stato scelto
perché più accettabile di "omosessuale", non contenendo una diretta
menzione di un argomento tabù come il sesso, "gay" era al contrario un
termine preso direttamente dal gergo degli omosessuali, quindi "non
rispettabile" (tanto che molti periodici avrebbero ostentatamente
rifiutato d'utilizzarlo per molti anni ancora).
Il GLF intendeva collocarsi all'interno delle lotte rivoluzionarie,
accanto alle Pantere Nere, contro la guerra del Vietnam, e per
l'abbattimento della società capitalistica.
Il "momento magico"
del GLF durò neppure sei mesi, cioè fino a che subì il 21 dicembre
dello stesso anno la scissione della Gay
Activist Alliance (GAA), intenzionata
a lavorare nelle e con le istituzioni e ad essere un movimento single-issue, ossia che intendeva
concentrarsi sulla sola tematica che oggi è chiamata "lgbt".
Contrariamente a quanto è comune leggere oggi, Sylvia
Rivera e Marsha
Johnson
fecero la scelta "istituzionale" della GAA, e non quella
"rivoluzionaria" del GLF.
Va in margine
sottolineato che i moti di Stonewall non misero fine alle razzie della
polizia, che proseguirono ancora per diversi anni, e furono uno dei
primi obiettivi contro cui lottò il neonato movimento gay.
Da questo punto di vista fu molto importante il raid organizzato (da Seymour Pine,
la stessa persona che aveva organizzato il raid contro lo Stonewall Inn) l'8
marzo 1970 contro lo "Snake Pit", locale gestito da gay e non legato
alla mafia. Quando iniziò a formarsi una folla davanti al locale,
temendo il ripetersi dei moti, la polizia arrestò in massa 167 persone.
Un immigrato argentino privo di permesso di soggiorno, Diego Viñales,
terrorizzato all'idea d'essere deportato, cercò di fuggire saltando
dalla finestra, finendo impalato sopra una cancellata.
Viñales sopravvisse, ma la voce che fosse morto contribuì ad accrescere
la rabbia delle proteste contro la pratiche della polizia.
Una manifestazione improvvisata davanti alla stazione di polizia
raccolse 500 persone, dimostrando che il movimento nato dai moti di
Stonewall aveva ormai messo radici.
La celebrazione dei
moti
Il
12 novembre 1969, in quello che a seconda dei punti di vista fu o il
canto del cigno o l'ultimo lascito del movimento omofilo, alla "Eastern Regional Conference of Homophile
Organizations" (ERCHO) un gruppo di persone, tra cui i già
citati Craig Rodwell e Fred Sargeant, propose di indire il "Christopher street liberation day",
con una manifestazione a New York, in memoria della ribellione di
Stonewall.
Contrariamente a
quanto comune fino a quel momento, alle ed ai
manifestanti non sarebbe stato richiesto di vestire in modo
"rispettabile": ognuno avrebbe potuto venire vestito come preferiva[14].
La proposta fu accolta da tutti i gruppi presenti, con la significativa
eccezione della "Mattachine society" di New York, che si astenne (ma
che avrebbe finito per aderire nell'aprile 1970).
L'idea fu rapidamente
fatta propria anche da gruppi omosessuali del
resto del Paese ed anche all'estero, tanto che curiosamente la prima
marcia commemorativa di Stonewall non ebbe luogo a New York domenica 28
giugno 1969, bensì a Chicago sabato 27 giugno 1970.
L'evento si sarebbe ripetuto da allora in poi ogni anno come Gay Pride.
Dai moti ai
miti di Stonewall
La trasformazione dei
Moti di Stonewall in un "mito di fondazione" ha favorito, nel corso dei
decenni, la nascita d'una serie di miti privi di fondamento storico. Le
fantasie mitopoietiche si sono concentrate in particolare attorno
all'individuazione del leggendario (letteralmente) personaggio che
avrebbe fisicamente "dato inizio" ai moti gettando un oggetto contro la
polizia, variamente identificato in un anonimo gay, una lesbica, o una
persona trans.
I
moti di Stonewall non furono né gli unici né i primi
Dal
punto di vista storico, è importante ribadire che i moti di Stonewall
non furono la "causa" per cui nacque il movimento gay, ma solo l'evento
fortuito che fornì l'occasione per presentare una serie di
rivendicazioni che s'erano diffuse nelle coscienze per anni, e che
erano mature per manifestarsi.
Ciò
è dimostrato dal fatto che questi moti non furono né gli unici né i
primi, tanto che se ne sarebbe persa memoria (esattamente come era
avvenuto con i precedenti, che sono stati riscoperti solo di recente
dagli storici) se la nascita del movimento gay non avesse dato loro un
significato simbolico.
In altre parole, fu la nascita del
movimento gay a rendere importante l'incidente al bar Stonewall, e non
l'importanza dell'incidente al bar Stonewall a far nascere il movimento
gay.
Gli
storici hanno elencato come minimo una trentina di episodi simili a
quello dello Stonewall accaduti fra il 1959 e il 1969, di cui si può
trovare un elenco qui, conclusi senza che
si desse innesco alla nascita di un movimento di liberazione gay.
Fra essi i più spesso citati sono i moti della "Compton's Cafeteria" a
San Francisco il 12 agosto 1966, perché ne fu protagonista un mix di
giovani prostituti e drag queen
che ricorda molto da vicino quello presente ai Moti di Stonewall.
Per dirla con le
parole delle sociologhe Elizabeth Armstrong e Suzanna Crage, che hanno
studiato la nascita del "mito di Stonewall":
|
« I
moti di Stonewall sono <oggi> ricordati perché furono i
primi a soddisfare due condizioni: il fatto che gli attivisti
considerassero degno di commemorazione il fatto, e che costoro avessero
la capacità mnemonica di creare un evento in grado di veicolare la
commemorazione. Il fatto che questa congiunzione si sia realizzata a
New York nel 1969, e non prima di allora o altrove, fu il risultato un
complesso sviluppo politico che finì per convergere in questo momento e
in questo luogo. (...) La storia di Stonewall è quindi un
successo della liberazione gay, piuttosto che un resoconto sulle sue
origini[15].»
|
Marsha
Johnson e Sylvia Rivera non erano presenti alla retata.
Quanto al mitico
iniziatore, molto diffusa è la narrazione secondo cui sarebbe stata una
persona "transgender" a dare origine ai
moti scagliando una scarpa col tacco a spillo contro un agente (palese
mitizzazione della testimonianza secondo cui, nel corso delle
colluttazioni, una drag queen
avrebbe colpito un poliziotto con una borsetta). Questa persona è
spesso indicata come Marsha
Johnson oppure
Sylvia
Rivera,
due drag
queen,
una di colore e l'altra ispanica.
D'altro
canto, un'altra narrazione vuole che sia stata una lesbica butch, Stormé
DeLarverie
(che affermò apertamente di essere stata lei), a sollecitare gli
astanti a liberarla dai poliziotti che l'avevano ammanettata e colpita
alla testa con un manganello.
Le testimonianze
inoltre concordano sul fatto che prima che iniziassero i disordini,
davanti al locale s'era raccolta una folla di astanti, composta solo in
parte dai clienti rilasciati dalla polizia, e in maggioranza da
semplici passanti e da avventori di altri locali della via: a fronte
delle 205 persone contate dalla polizia prima del raid, al momento di
chiamare rinforzi la folla era ormai stimata in 600 persone, e nel
corso della nottata sarebbe arrivata a 2000.
Ciò significa che il presunto iniziatore dei moti potrebbe anche essere
stata una persona non presente alla retata, ma accorsa alla notizia del
raid per "dare una lezione agli sbirri", perché quello era il clima
politico di quegli anni.
La
stessa Marsha Johnson[16] ha dichiarato, in
un'intervista concessa allo storico Paul Burston, di non essere stata presente allo scoppio
dei moti, e di essere andata in Christopher Street esattamente
perché le era stato riferito che erano già in corso scontri con
la polizia[17].
Sempre
secondo questa testimonianza, Johnson nell'andare allo Stonewall aveva
incontrato Sylvia Rivera (che faceva uso d'eroina) addormentata su una
panchina del parco[18].
Dunque è appurato che
nessuna delle due presunte
iniziatrici dei moti era presente all'inizio dei moti.
Ciò
nulla toglie al fatto che sia Johnson che Rivera siano state presenti
nelle notti seguenti, che abbiano preso parte in ruoli di spicco alla
fondazione del GLF prima e della GAA poi, e soprattutto che abbiano
fondato la STAR, la prima
associazione nuovaiorchese di lotta per i "travestiti". Semplicemente, non furono loro a
lanciare la mitica "prima pietra", circostanza che però non toglie
assolutamente nulla al loro ruolo storicamente documentato.
Stormé DeLarverie
La
tesi secondo cui era stata una lesbica a dare origine ai moti di
Steonvwall può essere documentata fin dal 1974, quando appare nel
discorso finale di una marcia per i diritti lesbici: "it was a woman, a
lesbian woman, who (...) started the Stonewall
Riots"[19].
La
donna che avrebbe ricoperto tale ruolo è stata riconosciuta come Stormé
DeLarverie,
una lesbica "butch", nonché drag
king, figlia
d'un uomo bianco e di una donna nera, il che negli Usa faceva di lei
una persona "di colore".
Secondo Lana Hart,
|
« Stormé
DeLarverie è stata identificata da testimoni e ha dichiarato lei stessa
d'essere lei la "lesbica camionara" che venne alle mani con i
poliziotti la notte della razzia iniziale allo Stonewall Inn. Fu lei la
persona che aizzò la folla perché si ribellasse mentre veniva gettata
nel retro del cellulare, chiedendo loro: "Perché voi ragazzi non fate
qualcosa?".
Testimoni, e la stessa Stormé, affermano che fu
lei a dare il "primo pugno" contro la polizia nello Stonewall. Io penso
che questa sia un'affermazione molto difficile da soppesare
esattamente, dato che è dubbio che fosse proprio lei la prima persona
ad avere avuto un alterco con i poliziotti quella notte, tuttavia
questa è la dichiarazione più vicina ai fatti che possediamo.
Sia come sia, tutti i racconti concordano
sul fatto che fosse là, e che fosse lei colei che incitò la folla a
ribaltare il cellulare e a tirare mattoni alla polizia. È stata lei a
dare inizio agli scontri, non Marsha P. Johnson, che non apparve sulla
scena fino a quasi un'ora dopo[20]. » |
Perché i miti di Stonewall
I miti su Stonewall
nascono per nascondere la dimensione politica e collettiva
dell'incidente, nel tentativo di rendere possibile una lettura
individualistica ed antisocialista più in linea con le idee
neoliberiste ed anarco-capitaliste che hanno prevalso dopo la fine del
movimento del Sessantotto, di cui i moti di Stonewall furono una tarda
propaggine.
Si nota in tale
ossessione la ricerca dell'individuo
eccezionale, del superuomo (o superdonna) che forgia la storia
con il suo atto eroico e unico, cosa che serve solo a cancellare il
fatto che i moti di Stonewall furono invece importanti per il loro
significato collettivo e sociale. Senza questa
risposta collettiva, il "gesto eroico" sarebbe rimasto un semplice atto
di "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", concluso come
migliaia di volte prima di allora con un arresto e una denuncia.
Se esistette "il" gesto che innescò la rissa (cosa tutt'altro che
improbabile) esso assunse un significato esclusivamente perché non fu un atto unico, ma
fu al contrario l'espressione di un "sentire comune", collettivo,
giunto al punto critico dopo molti anni di maturazione sottotraccia.
Oltre all'ovvio
esempio del movimento omofilo, che aveva già
sfidato in tribunale la polizia e le leggi, i giovani americani del
1969 aveano visto le proteste per i diritti civili dei neri, contro la
guerra del Vietnam, e quello che è genericamente stato definito il
movimento del Sessantotto, che avevano già comportato forme di
guerriglia urbana e scontri con la polizia.
Fra gli iniziatori
del movimento che prese le mosse dai moti (il GLF)
erano presenti trotzkisti e anarchici; solo in un secondo momento il
movimento gay avrebbe preso un aspetto più "istituzionale".
Non sorprendentemente la conseguenza più evidente dei moti di Stonewall
fu la delegittimazione dei
gruppi che fin lì avevano cercato un confronto "moderato" (ossia
graduale e progressivo) con la società eterosessuale. Una
delegittimazione che comportò anche la cancellazione
dalla memoria collettiva del lavoro svolto per decenni dal
movimento omofilo e la suddivisione della storia lgbt in una periodo
"prima di Stonewall" (non si contano quasi i libri e i film che si
intitolano Before
Stonewal) e
"dopo Stonewall", quando sarebbe nato il "vero" movimento di
liberazione omosessuale.
Che la rivolta di
Stonewall marchi una frattura con la fase precedente
della militanza omosessuale è un dato di fatto, sia in termini
quantitativi che qualitativi, tuttavia cancellare le premesse che lo
avevano reso possibile ha creato un "mistero" che tale non era affatto,
ed ha spinto a cercare spiegazioni tanto fantasiose quanto infondate
sulla ragione per cui in quel momento e in quella data un evento banale
(la rissa davanti a un bar) era diventato qualcosa di più importante.
Tipica in questo senso la lettura del film Stonewall del 1995, il primo
tentativo di nascondere le basi "sovversive" del primo movimento di
liberazione gay, che sostiene che i moti ebbero luogo perché gay e
travestiti quella sera erano "nervosi" a causa della morte dell'attrice
Judy Garland, considerata una "icona gay".
Come ha osservato Hugh Ryan:
|
« Nella
nostra fretta di localizzare esattamente il primo pugno dato, abbiamo
perso <di vista> la vasta portata e il significato di
quella ribellione[21]. » |
I film
Sui
moti di Stonewall sono stati girati due film: uno nel 1995, ed uno nel
2015.
Nel 2010 è stato inoltre prodotto un documentario, con interviste ai
protagonisti dell'epoca, Stonewall uprising, per la regia di
Kate Davis.
Bibliografia
- Dennis Altman, Omosessuale, oppressione e
liberazione, Arcana, Roma 1974.
- Elizabeth Armstrong e Suzanna Crage, Movements
and memory: the making of the Stonewall myth, "American
Sociological Review", LXXI (5) 2006, October, pp. 724-751. Scaricabile
qui, in formato .pdf.
- David Carter, Stonewall: The riots that sparked
the gay revolution, St. Martin's Press, New York 2004 e Macmillan,
2005. ISBN 0-312-34269-1.
- Massimo Consoli, Stonewall. Quando la
rivoluzione è gay, Napoleone, Roma 1990.
- Phillip Crawford Jr, The Mafia and the gays,
Create Space Independent Publishing, 2015. ISBN 1508785988.
- John D'Emilio, Sexual politics, sexual
communities, The University of Chicago Press, Chicago 1983.
- Martin Duberman, Stonewall, Dutton, New York
1993 e Penguin Books, 1993. ISBN 0-525-93602-5.
- Mariasilvia Spolato, I movimenti omosessuali di
liberazione, Samonà e Savelli, Roma 1972.
- Donn Teal, The gay militants, St. Martin's
Press, New York 1971. ISBN 0-312-11279-3.
Link di approfondimento
Video
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L'autore ringrazia fin d'ora
chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone,
luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà
eventuali errori in essa contenuti.
|
Note
[1] Se
ne veda l'affascinante descrizione in: Michael Chauncey, Gay New
York: gender, urban culture, and the making of the gay male world,
1890-1940, Basic books, New York 1995, ISBN 978-0465026210.
[2].
Brynn Holland, How
the Mob helped establish NYC’s gay bar scene. It was an unlikely
partnership, "History", Jun 22, 2017.
[3].
Anonimo, Stonewall
uprising. Why did the Mafia own the bar?, "American
experience", s.d.
[4].
John D'Emilio, Sexual
politics, sexual communities, The University of Chicago Press,
Chicago 1983, p. 231.
[5].
La data fu "canonizzata" al
28 giugno anche perché l'anno successivo, quando si organizzò la prima
parata in commemorazione dei moti di Stonewall della storia, si giudicò
che la domenica (28 giugno 1970) avrebbe attratto più partecipanti che
il sabato 27, e da allora la tradizione è rimasta.
[6].
Nel "Greenwich Village", zona
che fungeva da "quartiere alternativo" e quindi anche da zona
"gay-friendly" di New York.
[7].
Una relazione "dall'interno
del bar" fu scritta dal giornalista di "The Village voice", che si
barricò all'interno assieme ai poliziotti: Howard Smith, View
from inside. Full moon over the Stonewall, "The Village voice",
July 3 1969, pp. 1 e 25.
[8].
AA. VV, June
24, 2009 Stonewall at 40: the Voice articles that sparked a final night
of rioting, "The Village voice", June 24, 2009.
[9].
Lucian Truscott IV, View
from outside. Gay power comes to Sheridan Square, "The Village
voice", July 3, 1969, p. 1 e 18. Online anche
qui.
[10].
Garance Franke-Ruta, An
amazing 1969 account of the Stonewall Uprising, "The Atlantic",
Jan 24, 2013.
[11].
Why the Stonewall, and not
the Sewer or the Snake Pit? The answer lies, we believe, in the unique
nature of the Stonewall. This club was more than a dance bar, more than
just a gay gathering place. It catered largely to a group of people who
are not welcome in, or cannot afford, other places of homosexual social
gathering. The "drags" and the "queens", two groups which would find a
chilly reception or a barred door at most of the other gay bars and
clubs, formed the "regulars" at the Stonewall. To a large extent, the
club was for them. (...) Apart from the Goldbug and the One Two Three,
"drags" and "queens" had no place but the Stonewall. (...) Another
group was even more dependent on the Stonewall: the very young
homosexuals and those with no other homes. You've got to be 18 to buy a
drink in a bar, and gay life revolved around bars. Where do you go if
you are 17 or 16 and gay? The "legitimate" bars won't let you in the
place, and gay restaurants and the streets aren't very sociable.
(...) They came to New York with the clothes on their backs. Some
of them hustled, or had skills enough to get a job. Others weren't
attractive enough to hustle, and didn't manage to fall in with people
who could help them. Some of them, giddy at the openness of gay life in
New York, got caught up in it and some are on pills and drugs. Some are
still wearing the clothes in which they came here a year or more ago.
Jobless and without skills--without decent clothes to wear to a job
interview--they live in the streets, panhandling or shoplifting for the
price of admission to the Stonewall. That was the one advantage to the
place--for $3.00 admission, one could stay inside, out of the winter's
cold or the summer heat, all night long. Not only was the Stonewall
better climatically, but it also saved the kids from spending the night
in a doorway or from getting arrested as vagrants. Three dollars isn't
too hard to get panhandling, and nobody hustled drinks in the
Stonewall. Once the admission price was paid, one could drink or not,
as he chose. The Stonewall became "home" to these kids. When it was
raided, they fought for it. That, and the fact that they had nothing to
lose other than the most tolerant and broadminded gay place in town,
explains why the Stonewall riots were begun, led and spearheaded by
"queens".
[12].
Sylvia Rivera, "Queens in
exile, the forgotten ones", in: AA. VV., Street Transvestites
Action Revoluctionaries. Survival, revolt, and queer antagonist struggle,
Untorelli press, 2013, pp. 40-55, citazione da p. 49. L'opuscolo può
essere scaricato
da qui in formato .pdf.
[13].
Helen Nianias, How
the Mafia once controlled the New York gay scene, "Vice", July
30 2015.
[14].
Fred Sargeant, 1970:
a first-person account of the first Gay Pride March, "The
Village voice", June 22, 2010.
[15].
Elizabeth Armstrong e Suzanna
Crage, Movements and memory: the making of the Stonewall myth,
"American Sociological Review", LXXI (5) 2006, October, pp. 724-751.
Citazione dall'abstract.
[16].
Che peraltro non si è mai
definita "transgender", identificandosi come uomo gay e "drag queen
radicale"
[17].
Paul Burston, Marsha
P. Johnson & Randy Wicker, "Making gay history. The
poadcast", s.d. Il sito presenta sia la registrazione audio
dell'intervista che la sua trascrizione.
[18].
L'assenza di Rivera al
momento della retata è sottolineata anche da uno dei principali
studiosi dei moti di Stonewall, David Carter: cfr. Paul D. Cain, David Carter:
historian of the Stonewall Riots. Interview], "Gaytoday.com",
07 01 2004.
[19].
Il filmato è visionabile
su Vimeo qui.
[20]. Lana Hart, Thread
su Twitter, 3 giugno 2018. Il thread colleziona e confuta una serie
di miti storicamente infondati relativi ai moti di Stonewall.
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